Commento
... come l'aria e la Terra che si scambiano la pioggia
Prologo d’inverno
Pompei, 24 dicembre 2025.Prologo d’inverno
Alessandro Esposito aveva disposto sul tavolo del soggiorno tutto quello che gli serviva per preparare i pacchetti da mettere sotto l’albero, quell’anno lo aveva addobbato insieme a Lena: la tata di Luca.
Davanti alla finestra, perso nei pensieri, infiocchettava i regali e i ricordi di tranquille giornate estive trascorse sulla terrazza illuminata dal sole, gli tornavano alla mente, uno in particolare: l’ultimo pranzo con tutta la famiglia riunita. Quel giorno, Catia gli aveva annunciato la sua partenza per una nuova e importante missione. Era la prima così lunga, ma sarebbe stata a casa per il giorno della vigilia di Natale.
Per quel motivo Alessandro era particolarmente felice quella mattina.
Catia: per lei l’esercito non era stata una scelta, erano stati i suoi a convincerla, ci si era ritrovata dentro per inseguire il posto fisso e poi la divisa l’aveva conquistata. Le piaceva davvero il suo lavoro.
Alessandro ripensò al giorno in cui l’aveva vista partire per la prima volta: era così giovane, ingolfata nella mimetica eppure bellissima per lui. L’aveva abbracciata forte e le aveva detto:
— Io e te siamo come l’aria e la terra che si scambiano la pioggia, io e te non possiamo perderci, promettimi che tornerai, sempre.—
Quel pensiero sfumò, attratto e incuriosito da un’immagine insolita alla finestra, pensò ad alta voce: “Che strano, sembra stia rannuvolando...”
Dietro al familiare profilo montuoso si addensavano sagome inquietanti.
Strani velivoli avanzavano contro l’azzurro sopra il Vesuvio, in pochi secondi il cielo sembrò un fermo immagine del film Uccelli di Hitchcock: Alessandro non fece in tempo a capire.
Ci fu un leggero tremore, lo scotch gli sfuggì di mano, l’albero addobbato scartò di lato.
Poi il boato.
Le finestre esplosero: regali, carta metallizzata, fiocchi, nastri, ghirlande e la macchina di Super Mario per il piccolo Luca, volarono tra pezzi di vetro che attraversavano la stanza.
“Mi esce il sangue dalle orecchie? “Alessandro si guardò le dita bagnate. La nausea lo fece cadere in ginocchio tra i frantumi taglienti.
“Il Vulcano? Ma non c'è fumo!” Osservò, poi guardò le bocche della tata e di suo figlio spalancate in un urlo muto.
Alzò il palmo e gridò,
— nessun pericolo, viviamo nella zona verde, noi siamo al sicuro.
Poi la fuga in strada: dovevano prendere l’auto, scappare. Luca urlava, ma Lena lo lasciò alle cure del padre per correre a casa sua.
Un Incubo incredibile si stava materializzando e non aveva nulla a che fare con il vulcano: Droni, grossi come automobili, sospesi sopra i palazzi emanavano luci rosse e verdi che si confondevano con le luminarie natalizie nel giorno rabbuiato dalle loro ombre scure. Raggi verdi tracciavano scie lungo le strade affollate da facce terrorizzate, occhi increduli guardavano la gente morire colpita da un’ invisibile morte. Il frastuono dei clacson, le urla strazianti di gente moribonda, le persone schiacciate nel fuggi fuggi, automobili incastrate nel tentativo di uscire dai parcheggi, poi i corpi che si ammassavano sui marciapiedi e sull’asfalto, gli fecero cambiare idea.
Alessandro strinse suo figlio e cercò un rifugio; in quel caos non riusciva a riconoscere il posto dove si trovava, si nascose in un cassonetto ribaltato e aspettò, ferito e in preda al terrore.
Nello stesso momento nella Base aerea Amendola, Foggia.
Da quasi un anno il timore che forze sconosciute stessero tramando qualcosa era ormai palese, tutte le forze armate erano informate riguardo il traffico di droni sospetti in varie parti del mondo.
Avevano tenuto il fenomeno segreto e sotto controllo fino alla notizia del primo attacco: con tutta evidenza il problema era stato sottovalutato.
Il tenente colonnello Catia Russo, cercava di rilevare qualsiasi segno di attività dei droni, monitorava gli sviluppi sullo schermo.
Un senso di urgenza e panico si diffuse rapidamente tra il personale. Gli operatori nella sala di controllo visualizzavano dati inquietanti sugli schermi: Le immagini satellitari mostravano i droni che sorvolavano le principali città di tutto il mondo, dove stavano avvenendo attacchi devastanti. Le comunicazioni erano intasate, piene di richieste di aiuto e rapporti di distruzione. La tecnologia avanzata dei velivoli sconosciuti rendeva difficile, anzi, impossibile la loro intercettazione e neutralizzazione, ogni sforzo da parte dei militari risultava vano.
Non passò molto tempo, qualsiasi tipo di comunicazione si interruppe, un calo di energia fece attivare i generatori d’emergenza.
Il trambusto improvviso costrinse Catia a guardarsi intorno: i colleghi avevano occhi stralunati, le mani nei capelli, stava accadendo qualcosa che preludeva la perdita totale del controllo della base.
Il Comandante convocò immediatamente una riunione di emergenza. Le decisioni dovevano essere prese rapidamente per proteggere la base e coordinare una risposta efficace.
Catia fece in tempo a capire che doveva tornare subito a casa, non avrebbe aspettato il primo pomeriggio per partire, aveva tutte le sue cose in auto. Si mosse prima di tutti.
Fece appena in tempo a uscire dall’ascensore che quello si bloccò al pianoterra, tutto il resto intorno a lei rimase senza energia, Catia si mise a correre senza badare a nient’altro che a raggiungere la sua automobile. Non vide nemmeno lo sciame di droni che si avvicinava alla base; doveva tornare da suo figlio e suo marito.
Mise in moto l’auto ma fece pochi chilometri.
La statale 89 era intasata dal traffico: molti avevano preso la macchina e si erano riversati sulle strade.
Sulle colline di Manfredonia, decise di fermarsi e accostò l’auto in un punto panoramico per osservare la situazione. Prese il binocolo dal bagagliaio: Foggia era sotto attacco proprio in quel momento. Colonne di fumo si alzavano dagli edifici in fiamme, i droni stavano distruggendo la città.
Con immenso dolore, poteva solo immaginare la distruzione e il caos che stava avvenendo. Immaginò Alessandro e Luca nella stessa situazione, la gravità degli eventi in corso la spinse a proseguire il viaggio con più determinazione, ma il traffico era definitivamente bloccato e arrivare a Foggia per prendere l’autostrada non aveva più nessun senso.
Prese lo zaino con le sue cose, la mappa stradale e il regalo per Luca dal portaoggetti, lasciò l’auto e si diresse a piedi verso Candela. Decise di percorrere strade di campagna, per restare nascosta ed evitare luoghi affollati, avrebbe pensato cosa fare e come arrivare a casa strada facendo, sapeva che non sarebbe stato facile ma l’importante ora era sopravvivere.
Intanto a Pompei
Attraverso una crepa nel contenitore dell’immondizia, Alessandro guardò il cielo per ore: nell’atmosfera spettrale le sagome lucide, ferme a mezz’aria, emettevano un ronzio simile a quello di uno sciame d’api, ma molto amplificato. Tutto intorno, al di fuori del guscio di plastica, era solo confusione e morte.
Aspettò la notte e una relativa calma, poi, esausto, si diresse a piedi con suo figlio addormentato in braccio, verso la casa di sua madre.
Prologo d’estate
Metà di Maggio.
Le città di tutto il mondo erano irriconoscibili. I cittadini scampati ai raid si erano radunati nei boschi, nelle valli più impervie, nelle grotte naturali e nei siti più remoti possibile. Catia, arrivata a Candela, aveva organizzato un gruppo di superstiti: alcuni vecchi camionisti si erano procurati un pannello solare e, con una radio a onde corte, erano riusciti a comunicare con altri gruppi di sopravvissuti nei dintorni.
Catia, così, aveva saputo del massacro di Pompei e avuto altre notizie terribili. Non c’era mai stato nessun tentativo di difesa, era stato un attacco improvviso da parte di entità misteriose che sembravano avere la chiara intenzione di sterminare il genere umano.
I sopravvissuti, dai fatti di cui erano a conoscenza, avevano compreso che dovevano restare nascosti e che nessuno li avrebbe aiutati. Usavano il passaparola dalle loro vecchie radio CB per coordinarsi e scambiarsi notizie e risorse.
Catia non restò a Candela, ma insieme al suo gruppo iniziò a indagare e a esplorare il territorio per cercare quanti più sopravvissuti e riunirli in un'unica comunità.
Il viaggio proseguì verso Avellino mentre il gruppo di esploratori continuava a crescere. Attraversare le montagne dell'Appennino fu una sfida, ma trovarono rifugi naturali e fonti d'acqua lungo il percorso.
Ad Avellino, la situazione era critica: molti edifici erano distrutti e la popolazione era decimata. Ebbero la fortuna di trovare un altro gruppo di profughi che le fornì ulteriori provviste e indicazioni per il viaggio. Nei mesi successivi proseguirono verso Nola. Nola era una città più grande, e Catia sperava di trovare nuove informazioni. La città era pesantemente sorvegliata dai droni, i contatti con i superstiti non furono immediati, molto spesso dovevano pensare a proteggersi, restare inattivi, aspettare nascosti. Durante una fuga precipitosa per evitare un attacco, Catia cadde e si ferì gravemente alla gamba. Nonostante il dolore, i suoi compagni riuscirono a trovare rifugio e a curare la ferita di Catia con mezzi di fortuna. Ripresero il viaggio solo quando notarono un calo consistente nelle incursioni dei maledetti velivoli.
Passarono attraverso diversi piccoli comuni, non riuscivano a credere a quello che vedevano: apparivano davanti a loro paesaggi spettrali, dove file di uomini, donne, bambini e alcuni feriti, senza cibo e medicine camminavano sul terreno più impervio per evitare strade e perfino sentieri di campagna. Il cielo non era quasi mai completamente libero, anche in lontananza si riuscivano a scorgere sagome scure tra le nuvole. Catia sperava con tutta la sua anima che suo figlio e suo marito si fossero messi in salvo e di trovarli tra i superstiti, prima o poi.
Epilogo
Un giorno imprecisato, nel mese di luglio.
Chiunque abbia manovrato l’invasione aveva preso il controllo totale del pianeta e, per gli umani, la vita come la conoscevano era solo un lontano ricordo. Le città erano diventate rovine sorvegliate da incessanti incursioni dei droni, la popolazione era stata quasi sterminata. I governi erano crollati, lasciando un vuoto di potere riempito dalla tirannia sconosciuta.
Alcuni avanzavano l’idea che fossero alieni e che stessero aspettando il momento giusto per palesarsi, ma su cosa o su chi avessero preso il potere non riuscivano a comprenderlo, visto che gli uomini erano abbandonati a loro stessi.
Quali fossero le intenzioni dei crudeli visitatori verso di loro e del pianeta rimanevano un mistero e forse, sarebbe rimasto un mistero per moltissimo tempo.
Nascosta tra le montagne, ai piedi del Vesuvio, una piccola sacca di resistenza, tra cui Alessandro e Luca, agiva in direzioni diverse. Le condizioni erano dure. Il cibo scarseggiava e le malattie si diffondevano rapidamente. Ogni giorno era una lotta per la sopravvivenza, ma la determinazione di Alessandro e degli altri non vacillava. Nonostante non ne sapessero nulla e le probabilità fossero contro di loro, sapevano che la loro unica speranza era scoprire chi fossero in realtà i loro nemici.
La storia degli alieni per loro non era credibile, quella storia era del tutto umana e bisognava trovare un modo per disattivare il sistema di controllo delle macchine volanti, ci fossero voluti anche secoli. Per questo organizzavano spedizioni in cerca di informazioni riguardo ai costruttori di droni. Cercavano scienziati, persone informate sui fatti che fossero in grado di organizzare una difesa.
Un pomeriggio, mentre il gruppo si preparava per una missione lunga e rischiosa, Alessandro, prima di partire con gli altri e affidare il bambino a sua madre, decise di raccontare una storia a Luca per rasserenarlo. Sapeva che il bambino aveva bisogno di speranza, anche in un mondo così oscuro. Prese in braccio suo figlio e s’incamminò lungo il sentiero che portava verso il torrente. L’acqua scorreva placida, il sole di luglio bruciava come non mai: si accovacciarono sulla ghiaia all’ombra di un tiglio.
Alessandro cercò di introdurre la favola in modo positivo, voleva alimentare la speranza ma era difficile parlare a un bambino di poco più di cinque anni di rischi così gravi.
— Voglio raccontarti una favola, una di quelle che tua madre ama tanto: quelle con eroi ed eroine fantastiche. — Luca, che non aveva mai dimenticato la dolcezza dei momenti in cui sua madre lo prendeva in braccio e gli raccontava storie inventate, si mise subito in ascolto.
— Una di quelle che mi avrebbe raccontato la mamma se fosse tornata a Natale?
—No, questa non è una favola di Natale, questa è una storia moderna, ma è di Zorak che parla, di quel signore che è a capo di quelli che hanno distrutto la nostra città e la strada della mamma per tornare da noi. Te l’ho spiegato, ricordi?
— Ok, allora racconta, non mi piace questo Zorak, io non l’ho mai visto ma quando sarò grande gliela farò pagare!
Alessandro si schiarì la voce:
C'erano una volta, proprio qui, sul pianeta chiamato Terra, una moltitudine di abitanti che vivevano nascosti, costretti a una vita di stenti da quando una flotta di droni invase e conquistò il loro mondo. I nemici erano guidati da un re tiranno chiamato Zorak, e sotto la sua guida presero il controllo di ogni cosa della vita sulla Terra.
Devi sapere, però, che in una piccola città viveva una giovane ragazza che si chiamava Aria. Aria era molto coraggiosa e determinata a liberare il suo pianeta dalla tirannia di Zorak. Aria era sempre alla ricerca di un piano per sconfiggere il re cattivo. Lei non era certo una che si lagnava, e anche se aveva fame o freddo non si perdeva mai d’animo, aveva sempre idee e dava sostegno agli altri, non si risparmiava mai.
Un giorno, mentre esplorava le rovine della sua città, trovò un antico libro che parlava di un'arma radiocomandata in grado di disattivare i droni e farli precipitare. Aria decise di costruire questa arma, sperava davvero di poter salvare il suo mondo. Per anni girò i territori in cerca di qualcuno che potesse aiutarla. Durante il suo viaggio, incontrò altri come lei, come noi, che si unirono alla sua missione. Tutti insieme, affrontarono numerosi pericoli e superarono molte sfide, ma alla fine riuscirono a costruire l'arma segreta.
Catia li vide così, dopo mesi di ricerche, i suoi cari parlavano seduti sulle rive del torrente che stava cercando di attraversare con i suoi compagni.
Con il cuore pieno di speranza, Aria e i suoi compagni si prepararono per dare battaglia all‘esercito di Zorak. Purtroppo, quando finalmente affrontarono il tiranno, scoprirono che l'arma segreta non era abbastanza potente per sconfiggerlo. Le onde radio erano troppo deboli per disattivare tutti i velivoli, specialmente quelli più grandi. Zorak se ne accorse e, con un sorriso malvagio, attivò un dispositivo che rilasciò un gas velenoso, uccidendo così Aria e i suoi compagni.
La donna si era accucciata, le cedevano le gambe, avrebbe voluto gridare ma l’emozione le toglieva l’aria dai polmoni. Infilò la mano nello zaino e strinse la sciarpa di Super Mario ancora incartata, le lacrime le scendevano lungo le guance.
Il pianeta Terra rimase sotto il controllo di Zorak, e la speranza di libertà sembrava svanita. Ma la leggenda di Aria, dei suoi compagni e del loro coraggio, continuò a vivere nei cuori delle persone, coraggio che ispirò tutti gli uomini, le donne e perfino i bambini a lottare per il futuro.
— Luca! — La voce, ridotta a un sussurro dall’emozione, non arrivò alle orecchie del bimbo che le dava le spalle, seduto di fronte a suo padre, ma l’immagine della bellissima donna ingolfata nella mimetica, fu catturata dagli occhi increduli di Alessandro che si alzò e prese in braccio suo figlio.
— Ma non è mica così che finiscono le favole! — Esclamò il bimbo.
Alessandro si sforzò di ricacciare indietro il groppo che gli ostruiva la gola. — Hai ragione» rispose infine scarmigliandogli la zazzera bionda, — ma i grandi spesso non sanno più raccontare le favole.