Traccia 1: La terza stagione
Alle prime luci dell’alba di quell’inizio d’autunno il vento cominciò a soffiare piano, con circospezione, lungo i viali alberati della Scuola Militare di Natajenska dove si era posata una leggera nebbia. Sarebbe stata la giornata di un sole lontano, nascosto, il cui chiarore avrebbe oltrepassato le nuvole grigio piombo che incombevano, ma non avrebbe fatto freddo. Non ancora. Le foglie degli alberi, dai caldi colori rossastri e aranciati, che potevano essere rassicuranti in queste loro tonalità fuori dell’ordinario, che pure all’ordinario riportavano, avevano cominciato a cadere sulle strade lastricate di pietra, lucide di una leggera pioggerella notturna e sui prati verdi che si diramavano attraverso i vari caseggiati bianchi della Scuola.
Il ragazzo guardava dalla finestra dell’infermeria.
─ Come mai siete in uniforme, cadetto Georgij Taraschoskj?
Il ragazzo si voltò. L’ufficiale medico era anziano e nonostante l’aspetto severo appariva comprensivo. Doveva essere un padre di famiglia e forse aveva un figlio dell’età di Georgij che a quell’ora ancora dormiva, in una bella casetta fuori della Scuola. Istintivamente il cadetto si irrigidì sull’attenti.
─ Sembrate aspettare qualcuno ─ disse l’ufficiale guardando dalla finestra.
─ Sissignore. Voglio dire: la mia compagnia passerà qui sotto fra un po’. Andrà a salutare l’autunno.
─ Come ogni anno, cadetto. Come a ogni stagione.
─ Io… Signore, con il vostro permesso, signore, vorrei andare con i miei compagni a fare il saluto.
─ Non vi siete ancora ripreso del tutto. Si tratta di una lunga marcia fino alla collina. Siete ancora debole.
─ No… Cioè, signore, mi sento in forze signore. Posso farcela. È molto importante per me.
Il medico annuì pensieroso.
─ Da quanto tempo siete alla scuola?
─ Da quasi due anni, signore.
─ Quindi avete fatto diversi saluti alle stagioni.
─ Sissignore.
─ Evento speciale, vero?
─ Oh si! Cioè: certo signore. Come a ogni stagione.
─ Sempre allo stesso posto?
─ Sissignore.
─ Sempre gli stessi compagni? Non avete mai cambiato?
─ Mai.
─ E per questa circostanza sentite la mancanza di qualcuno in particolare?
Il cadetto Georgij chinò il capo.
L’ufficiale annuì guardando a lungo Georgij negli occhi. Poi guardò l’orologio.
─ Passeranno fra non molto. Dovrete fermare la vostra compagnia in marcia e si può fare solo in determinate circostanze, come da regolamento, lo sapete. Una di queste contempla il vostro desiderio di partecipare al saluto dell’autunno. Dovrete mettere la fascia verde sul braccio. Sanno che siete ricoverato in infermeria e senza la fascia non si fermerebbero per farvi unire a loro e rischiereste di essere messo in punizione. Venite con me.
Andarono in segreteria, l’ufficiale parlò con un militare che aprì un cassetto della scrivania estraendo una fascia verde con i simboli dorati della Scuola, porgendola a Georgij che la fissò al braccio sinistro, con le mani tremanti per l’emozione, tanto che l’ufficiale lo aiutò a fissare il cordoncino sotto la spallina dell’uniforme.
─ Al termine della cerimonia, dopo il rientro alla vostra compagnia, dovrete però ritornare qui.
─ Sissignore! Grazie signore!
Georgij arrivò di corsa a un incrocio di strade sentendo il rumore dei tacchi dei suoi stivali sulla strada lastricata e trovandolo strano: non era abituato a camminare da solo negli ampi spazi della Scuola. Una folata di vento più forte delle altre sollevò in quel momento mucchi sparsi di foglie cadute dagli alberi formando piccoli mulinelli che si rincorrevano vorticando. Georgij le guardò sospirando, inebriandosi del loro odore che inspirò a occhi socchiusi: sapeva ancora dell’umido della notte, della profondità di un bosco. Gli venne in mente la sua piccola casa nel paese lontano in campagna, in mezzo ai campi di grano e ai frutteti. Ricordò i suoi genitori, che non vedeva da tanto tempo, i suoi fratelli, i parenti, gli amici d’infanzia. Gli venne un groppo alla gola, gli occhi si inumidirono.
Ora si sentivano in lontananza dei passi di marcia cadenzata. Si mise a un lato della strada, con gli stivali quasi a ridosso dell’erba che non osava calpestare.
Dalla nebbia emerse lentamente una compagnia di cadetti in uniforme nera che venivano marciando verso di lui. Erano a capo scoperto, i berretti agganciati al cinturone. I loro alamari, i bottoni sul petto della divisa luccicavano, la mano sinistra poggiata sulla cintola mentre intonavano un canto a bocca chiusa, un lamento cupo e imperioso allo stesso tempo, cadenzato dal battere dei tacchi. Ma non era la sua compagnia. Quando gli passarono di fianco scattò sull’attenti portando la mano alla visiera del berretto. Qualcuno lo guardò incuriosito; vedendo la fascia verde al braccio capirono quello che doveva fare.
Passarono altre compagnie che si recavano alla collina per salutare l’autunno, Georgij le salutò tutte. A un certo punto sentì, ancora avvolto dalla nebbia, emergere il canto della sua compagnia, uguale eppure diverso da quello delle altre, accompagnato dal battere dei tacchi. Ogni reparto aveva un modo particolare di cantare e Georgij li conosceva tutti.
Il cuore cominciò a battergli forte dalla felicità, quasi gli mancò il fiato e pregò di non sentirsi male proprio in quel momento. La testa gli girava appena un po’, l’aria umida e imputridita delle foglie gli pizzicò il naso e lo fece starnutire.
Ma la sua compagnia era ancora lontana, non potevano averlo sentito. Poi dalla nebbia emersero a poco a poco le uniformi nere, si avvicinarono a lui. Erano loro, non c’era alcun dubbio. Il passo cadenzato, il mugolio sordo del canto.
Guidava il reparto il cadetto Vasiloff, facente funzioni di capitano comandante di compagnia.
Quando furono abbastanza vicini Georgij si mise di fronte a loro, scattò sull’attenti e fece il saluto militare.
Il cadetto Vasiloff ordinò al reparto di fermarsi.
─ Signore! ─ urlò Georgij togliendosi il berretto. ─ Cadetto Georgij Taraschoskj agli ordini! Sono ricoverato in infermeria! Ho avuto il permesso di unirmi alla compagnia per il saluto d’autunno, signore!
Il cadetto Vasiloff rispose al saluto militare.
─ Molto bene, cadetto Taraschoskj. Prendete pure il vostro posto.
Georgij andò quasi alle ultime file, essendo uno dei più alti. Gli altri scalarono dal loro ordine per fargli posto. Il cadetto Nikolai Veredieskj accennò un rapido sorriso nel vederlo, altri si scambiarono i posti per fare in modo che fossero vicini. Furono movimenti veloci, quasi impercettibili. Il cadetto facente funzione di capitano non se ne accorse o fece finta di non accorgersene. Georgij agganciò il sottogola di cuoio del suo berretto al cinturone, mise la mano sinistra sopra la fibbia e quando il cadetto capitano Vasiloff diede l’ordine di partenza batté all’unisono con gli altri il piede sinistro a terra per dare inizio alla marcia cadenzata, cantando assieme agli altri con la bocca chiusa. Al suo fianco sentiva il canto di Nikolai ed era felice.
Le varie compagnie della Scuola Militare di Natajenska giunsero una alla volta ai piedi della collina delle adunate, posizionandosi a formare un grande emiciclo nero circondato dalle rosse foglie d’autunno. Sopra la collina un imponente bosco di vecchi alberi guardava paziente mentre dai loro rami continuavano a cadere foglie rossastre, inondando gli slarghi e le strade della Scuola. Come sempre.
Il generale comandante venne a cavallo, seguito dai suoi subalterni. Disse qualcosa, il solito altisonante discorso di circostanza per tutte le stagioni, con alcuni opportuni cambiamenti, che i cadetti conoscevano a memoria. Ma il momento più atteso da molti era quando veniva dato l’ordine di rompere le righe per salutare quest’autunno che era entrato nelle loro vite. Tutte le compagnie si sparsero liberamente, pur senza mischiarsi con le altre e tutti i cadetti, a coppie o in vario numero strinsero la mano del loro vicino e uniti le sollevarono in alto urlando tre fragorosi hurrà con l’entusiastica gioia e aspettativa della loro giovinezza.
Il cadetto Georgij Taraschoskj strinse solo la mano del cadetto Nikolai Veredieskj, il motivo principale per cui aveva voluto partecipare ad ogni costo al saluto dell’autunno. Erano compagni di camerata, avevano le brande vicine, sin dai primi giorni della scuola si erano affiatati erano diventati amici. Mangiavano, studiavano, si esercitavano alle armi cercando di stare sempre vicini, provando piacere uno della compagnia dell’altro, passando lunghi momenti silenziosi nelle pause di studio senza scambiarsi una parola, quasi senza guardarsi, gomito a gomito. Talvolta le loro mani si toccavano nelle normali incombenze quotidiane; entrambi cercavano di prolungare il più a lungo possibile questa vicinanza, questo calore, cercando di non farsi scorgere dagli altri perché eccessivi contatti fisici non inerenti alle loro mansioni di allievi erano severamente proibiti e puniti. Ma essere vicini dava loro forza, gioia. Anche sentimenti che non sapevano o non volevano esprimere ma che riuscivano a trasmettersi in silenzio con gli sguardi, con i sorrisi, con il lieve sollevamento di un labbro o di un sopracciglio, talvolta con qualche sospiro.
Georgij e Nikolaj urlarono il loro hurrà con tutto il fiato che avevano, fino a sentir male alla gola; avrebbero voluto che quella stretta di mano davanti a tutti, il calore che sentivano uno dell’altro, il momento dei tre hurrà durasse per sempre, ma così non poteva essere, lo sapevano. La cerimonia finì.
Tutte le compagnie rientrarono a passo di marcia ai loro rispettivi reparti, questa volta indossando il berretto e senza cantare. Il saluto all’autunno era finito.
─ Devo ritornare in infermeria ─ disse Georgij a Nikolaj quando arrivarono al terzo piano della loro compagnia, fermandosi in un angolo delle scale per far passare tutti i loro compagni.
─ Lo so. Ti ringrazio per essere venuto.
─ Non resterò molto ricoverato. Devo riposare ancora un paio di giorni.
─ Passeranno.
─ Devo andare.
─ Va bene.
In quel momento non c’era nessuno, nessun cadetto o superiore che salisse o scendesse le scale, tutti gli allievi erano entrati nelle loro camerate. Un silenzio quasi assoluto sembrava diluirsi nel lungo corridoio scuro, mescolandosi all’aria austera, rotto ogni tanto da qualche voce ovattata che proveniva da dentro le camerate.
Georgij aveva cominciato a scendere le scale. Si fermò e si voltò vedendo l’amico che rimaneva fermo a guardarlo.
─ Nikolaj.
─ Si.
─ Volevo dirti una cosa.
─ Anche io.
Georgij tornò indietro. I due ragazzi si guardarono a lungo negli occhi.
Incuranti che qualcuno potesse vederli si presero le mani, tremanti. Poi, con un movimento repentino e reciproco si avvicinarono e si scambiarono un bacio sulle labbra.
[MI 183] Saluto all'Autunno
1Si salveranno solo coloro che resisteranno e disobbediranno a oltranza, il resto perirà.
(Apocalisse di S. Giovanni)
(Apocalisse di S. Giovanni)