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( A Volte - di Adel J. Pellitteri )
Alfio Pt. 5
Giulio, sempre attento alle innovazioni, aveva appena acquistato una chicca tecnologica che andava per la maggiore: un “mangianastri”.
Il pratico dispositivo che, con l’ausilio di piccole cassette a nastro consentivano, su entrambe le facciate della cassetta, una registrazione, variabile tra i 23 e i 60 minuti per lato, a seconda della dimensione del nastro contenuto.
In sostanza, aveva le stesse funzioni dei più ingombranti magnetofoni a bobina, dei quali stava decretando una rapida rottamazione.
Le cassette audio, creavano una feroce concorrenza ai 33 giri in vinile: al punto che, molti dei nuovi album musicali erano prodotti dalle case discografiche nei due tipi di supporto.
Per noi la registrazione su cassetta rappresentava una vera rivoluzione: ci avrebbe consentito di incidere le nostre creazioni musicali ovunque e con grande comodità. L’apparecchio, essendo assai pratico da trasportare, ci avrebbe consentito di suonare all’aperto, quindi di registrare dal vivo con i rumori di sottofondo del traffico: ne sarebbero venuti fuori pezzi formidabili, simili a quelli di certi dischi dei Pink Floyd.
Giulio aveva una voce fumosa e graffiante, come nei cantanti blues americani, quelle voci calde che ti smuovevano qualcosa dentro, toccando le corde profonde dell'anima, e nel caso fossi una donna, anche qualcosa più in basso.
Va detto che, per la pronuncia decisamente sabauda, più che evocare Leonard Coen, ti faceva pensare a Gipo Farassino: noto chansonnier locale, rinomato autore di canzoni sovente colorate d’ironica e toccante malinconia. Il Gipo si ispirava alla grande tradizione francese degli: Aznavour, Bécaud, Brassens, Brel. Era un po’ l’Yves Montand sotto la Mole.
Per altro era pure "compagno" e iscritto al PCI, benché si mormorasse d’una affinità a certi ambienti della vecchia mala torinese, cosa che non ne appannava la fama, ma, conferiva un maggior sapore di “vissuto”, al fascino del personaggio.
Giulio pareva ignaro di questa sua involontaria valenza vocale, o forse se ne fotteva del tutto, ‘sta di fatto che cantava con l’indifferenza di chi si senta pari a un Mick Jegger o a un Joe Coocker in versione cisalpina.
Io ero geneticamente stonato: neppure mi veniva in mente di mettermi a cantare, quello di affidargli il ruolo di front man e voce solista della nostra formazione era una scelta che veniva da sé.
Ma, lui, che aveva una natura di perfezionista, non si sentiva ancora soddisfatto. Mi disse che ragionandoci, fosse giunto alla conclusione che una rock band, con una sola voce solista apparisse poco credibile incompleta come un tavolo con tre gambe.
“Se avessi voluto cantare da solo, avrei fatto il cantautore e non avrei tirato su una band”. Diceva, dondolando tormentato la testa.
Dal canto mio, essendo musicalmente avventizio e d’anima semplice, trovavo che, in questa sua nuova esigenza, vi fosse un eccesso di ambizione: era bene il cercare di fare le cose seriamente, aspirare alla qualità, però, se ogni due per tre ci arenavamo su un nuovo problema, si finiva col non suonare mai, oltre che frantumarci le palle.
Vero che, prima del nostro incontro, ascoltavo solo dischi di Celentano e Little Tony, per cui, oltre che in debito morale, ero anche il meno indicato a dire cosa fosse utile a un gruppo rock, ma questo continuo crearci problemi finiva con lo stressarmi.
Poi, in questa storia della voce di accompagnamento, ci leggevo anche un velato rimprovero, per l’essere nato con l’intonazione di una capra raffreddata.
- Senti: - dissi - non è che mi posso tagliare le palle per farti un coretto in voce “bianca”, tipo Farinelli. Non so cantare, non ci posso fare un tubo, quindi fattene una ragione. -
- Ma che ti brucia? Hai la coda di paglia infiammabile? Chi mai ha detto che devi cantare? Su, non dire minchiate! Tu devi già soffiare nel piffero, figurati se ti resta il fiato per fare altro. Dico solo che ci serve un rinforzo vocale. -
- Vabbè, abbiamo anche Alfio - suggerì: - Che non avrà una gran voce, ma è intonato. Quindi ti può fare i versi di sottofondi tipo: “Mmmmh, Uhummm, Uuuhmmm”, che riempiono. -
- Nàà! Non basta! Ci sono pezzi parlati: per quelli occorre si canti. -
Alla fine, benché non del tutto convinto, concordammo che bisognasse cercare una voce femminile.
Era indiscutibile che, oltre all’ausilio canoro, avere in pista un paio di tette
gradevoli alla vista, avrebbe certamente giovato alla coreografia d’insieme.
Nel ragionare dove pescare papabili da reclutare, decidemmo di sentire anche Alfio: fosse mai che, tra le sue numerose conoscenze femminili, ne trovassimo qualcuna adatta. Ci rispose che, le donne di sua conoscenza, erano tutte intonate come la Callas quando cantava: “Ritorna Vincitor” dell’Aida, ma solo mentre le trombava, per tanto nisba.
Pensammo a Nella, la mia ex, sarebbe stata perfetta: suonava la chitarra, aveva una voce melodiosa e aveva già fatto duetti con Giulio, ma, dati i nostri recenti disastrosi trascorsi, non era considerabile.
Idem per Lara, la ragazza di Giulio. Lei non solo non cantava, ma e non nutriva alcun interesse alle passioni artistiche di lui.
Si erano conosciuti da “Platti”, il bar-cremeria sul corso Vittorio Emanuele, meta di tutti i fighetti della “Torino bene”: quelli del soprabito di Burberry blu o crema, le scarpe “becco d’oca” a punta di Barrow’s e il vespino 125 Primavera.
I figli di papà con la puzza sotto il naso, indicati come: “plattini”.
Sempre forniti di lira, seriali esibitori di Rolex Daytona, accendini e penne Montblanc in lacca cinese.
Tutti destrosi, simpatizzanti dei fasci dell’ MSI o di Ordine Nuovo.
Come Giulio si fosse potuto mettere con lei restava un mistero.
Molti mesi prima che ci conoscessimo, lui mi aveva rivelato di aver frequentato, per un brevissimo periodo, quell’ambiente: giusto il tempo di capirne l’essenza, poi, nauseato, ne era fuggito gambe in spalla.
Però Lara se l’era tenuta come la cicatrice di un peccato di gioventù.
Non avevo mai avuto un grande rapporto con lei, avevamo una conoscenza superficiale: la dovuta reciproca cortesia quando ci si incrociava, ma nulla di più. Io ero l’amico stretto e lei la sua “donna”, come era solito chiamarla: due stanze separate.
Si percepiva tra noi una reciproca voglia di distanza, con una certa gelosia sotto traccia da parte sua: ero quello che le rubava molta parte del tempo libero di Giulio, inevitabilmente sottratto al loro stare insieme.
Forse non la sfiorava l’idea che fosse lui a scegliere di usare quel tempo per fare altro anziché starle accanto.
Non era un problema mio, ma, per quanto mi sforzassi, non mi riusciva di vederla come la donna del suo futuro, troppe le cose che li dividevano, mancava un terreno comune per costruirlo.
Lara proveniva da una famiglia popolare, ma pareva vergognarsene, nutriva l’ambizione di appartenere a una classe superiore pur non avendone i mezzi. Era di fatto un’intrusa in quel mondo di cui si sentiva parte.
Non mi piaceva quel suo vergognarsi delle proprie origini, per dirla con lo stesso Giulio: “Nulla è peggio di quelli che se la tirano, dimenticando che fino a ieri hanno cagato nei barattoli vuoti della conserva”.
Inoltre, su Lara, pesava anche l’ombra d’essere amica intima di Nella, quella sciroccata che mi aveva avvelenato l’esistenza per quasi due anni.
Guardando alla scuola: nella nostra classe, nessuna aveva manifestato alcuna predisposizione al canto, né tanto meno vocazione a esibirsi nello spettacolo.
Pensando al resto dell’istituto, l’idea cadeva sulle gemelle Sinatra: due veri usignoli, per altro pure considerevoli tronchi di gnocca, cosa che non avrebbe guastato. Ma quelle stavano già nel complessino di Gianni Tonelli, detto: John elefantino, per via di una cospicua escrescenza nasale che gli pisciava in bocca, simile a una proboscide d’elefante.
Lui, caparbio, sosteneva che quel nominognolo se l’era guadagnato per via di una sua parte anatomica segreta, ma ovviamente la cosa non era credibile e lo si perculava alla grande.
(Continua)
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