Alla fine scoprii che l’antagonista ero io.
Conoscevo Mancini da oltre dieci anni, lui si definiva uno dei miei migliori amici, io lo detestavo. Ogni sera mi chiedevo come fossi finito a passare il mio tempo libero in compagnia di un individuo così sinistro, così squallido.
Non ricordavo nemmeno come l’avevamo conosciuto: avevo il mio gruppo di amici, una birra al bar, la partita a calcetto del martedì. Lui si insinuò lentamente tra le maglie del nostro piccolo tessuto sociale.
“Oh, ma il tipo chi è?”
“Boh, deve essere un amico di Fusco. Mi sembra uno a posto.”
“Amico mio? Ma se è la prima volta che lo vedo.”
“Fa l’avvocato, ieri mi ha dato un paio di dritte mica male.”
Una donna lo avrebbe trovato piacente: magro, curato, sempre ben vestito. Io non riuscivo a guardarlo senza pensare a un’enorme iguana. Freddo, calcolatore, sadico.
La prima impressione è sempre quella che conta. La prima volta che lo vidi, quando ancora ci chiedevamo da dove cavolo fosse sbucato, fui colto da un pessimo presentimento.
Nel tempo, però, fu accettato dal gruppo, più che altro per inerzia. Lo tolleravamo. Dopo due anni era parte integrante della nostra piccola cerchia di amici.
Una volta mio cugino, che viveva a Londra, venne a trovarmi per le vacanze di Natale. Non uscivamo insieme da anni e, a fine serata, la prima cosa che mi chiese fu: “Oh, ma il tipo chi è? Quello che sfotte tutti. Sembra il capo della banda, non credo di averlo mai visto.”
Poi successe un avvenimento spiacevole. Scoprimmo che Mancini intratteneva una relazione con la ragazza di Fusco. Una coppia che durava dai tempi del liceo. Nessuno ricordava come fosse fatto Fusco senza la ragazza; nessuno aveva visto la ragazza di Fusco da sola. Sembravano gemelli siamesi. Fu tutto un casino: Fusco piangeva, la ragazza fu marchiata a vita con il giglio dell’infamia dietro la spalla. La parte più meschina di me pensò: È fatta, almeno quel bastardo verrà ostracizzato.
E invece, chissà perché, Mancini era ancora tra noi. Fusco tappato in casa a deprimersi e noi diventati grandi amiconi di Mancini. Non me lo spiegavo.
Non facevo nulla per alimentare l’amicizia con Mancini, non gli rispondevo al telefono, facevo di tutto per non trovarmi da solo con lui. Eppure, di sera, al tavolo del bar c’era Mancini, mica Fusco.
Tentai di parlarne con gli amici, una delle rare volte in cui il nemico era assente.
“Conosciamo Fusco dalle elementari, abbiamo giocato a casa dei suoi nonni. Non possiamo abbandonarlo.”
Tutti annuivano. Tutti erano d’accordo. Qualcuno si sbottonava: “Quel Mancini è un verme. Bisognerebbe lanciargli una secchiata di piscio addosso.”
Erano tutti indignati. Quel tizio non piaceva a nessuno: era sempre pronto a fregarti, un viscido, se ti faceva un piacere te lo rinfacciava per anni e tu, senza neanche sapere come, ti trovavi sempre a fare quello che voleva lui.
Tuttavia, tempo un paio di anni, di Fusco avevamo perso le tracce e Mancini era sempre più presente nelle nostre vite.
Colpa di Fusco, dicevano gli amici. Si era barricato in casa e non voleva più uscire. Beveva Peroni calde dalle otto del mattino e questa era diventata la sua vita. Nessuno si accorgeva di ripetere le malelingue inventate da Mancini. Lui diceva una cosa e, come per magia, diventava il pensiero comune.
Dopo un po’, Fusco trovò lavoro in un’altra città e, a parte un Natale ogni due, era ormai uscito per sempre dalle nostre vite.
Era il periodo dei trenta-trentacinque anni. Anche i più scanzonati, a un certo punto, dovevano trovare uno straccio di lavoro. E se non lo trovavi qui, dovevi cercarlo lì. Anche i più fortunati con le donne, a un certo punto, si davano una regolata. Matrimoni, figli, aeroplanini, bavette, omogeneizzati. Ogni anno perdevamo un componente. Io ero uno dei fortunati che aveva trovato lavoro qui e uno dei pochi che, di mettere la testa a posto, proprio non ne voleva sapere.
“Due volte con la stessa persona? Ma è legale?”
Mancini invece era ultrafidanzato: stava con la stessa ragazza da ormai cinque anni. Una martire. Non la vedevamo quasi mai, ma le poche volte che usciva con noi, si capiva che non era felice. Le vibrava di continuo la palpebra destra, sembrava sempre sul punto di esplodere. Essere fidanzati con Mancini doveva essere una delle peggiori torture del pianeta. Tra i due c’era sempre frizione, non riuscivano a lavare i panni sporchi in famiglia, portavano i litigi di coppia anche al tavolino del bar. Noi ci guardavamo imbarazzati. Provavamo a discutere di calcio, unico nostro vero interesse, ma tutti lanciavamo occhiate furtive verso l’occhio ballerino della poveretta. Avevamo paura che d’improvviso le esplodesse il cranio e grumi mollicci piovessero nei drink.
Un bel giorno si lasciarono. Lei, esasperata dalle continue menzogne e dai ripetuti tradimenti di Mancini, si fece forza e decise di mandarlo al diavolo. Eravamo contenti per lei, si era liberata del suo aguzzino. Non l’avremmo più rivista. Peccato, per quanto non fosse così simpatica, un po’ ci eravamo affezionati.
Quella rottura ebbe risvolti nefasti sugli equilibri del gruppo. La relazione di Mancini fungeva da valvola di sfogo: un paio di volte a settimana i doveri coniugali lo bloccavano a casa, ed erano gli unici momenti di serenità che il gruppo conoscesse. Con Mancini tornato single, anche le nostre vite erano destinate a cambiare. Ricevevo le sue telefonate dal mattino, stava diventando morboso. Io continuavo a non rispondere.
Ma questo non bastava, Mancini veniva a citofonarmi a casa. Pretendeva di salire anche se dicevo di essere influenzato, anche se ero nel bel mezzo di un incontro galante, anche se gli urlavo di non rompere le scatole.
L’aveva sempre vinta lui, ti prendeva per sfinimento.
Ricordo ancora quella sera in cui guardai un film con Mancini e una tipa appena conosciuta che mi fissava con gli occhi sgranati.
La mia volontà non contava nulla. Era Mancini che decideva per me, che disponeva della mia vita.
Più di una volta provai a parlargli a cuore aperto: senti, sei un po’ invadente, se ti dico di no, è no. Altre volte provai a parlare in maniera più chiara: la prossima volta che ti vedo ti spacco la faccia.
Niente, le mie parole non sortivano alcun effetto.
Iniziavo a viverla male, mi sentivo ossessionato da Mancini. Ne parlavo agli amici, che mi davano ragione.
“È insopportabile. Mi costringe ogni volta ad accompagnarlo da qualche parte.”
“È un falso, racconta solo balle.”
“Dovremmo riempire un secchio di piscio…”
Nonostante fossero passati dieci anni e quel gruppo di venti persone si fosse ridotto alla metà della metà, vedevo ancora Mancini come quello che si era intrufolato all’ultimo momento. Presi in considerazione l’ipotesi che il problema fosse mio. Forse ero diventato territoriale, come i cani che orinano sui cespugli. Forse ero conservatore, innamorato della cerchia di amici storici, non ammettevo intrusioni. Forse ero geloso. Bah, non mi riconoscevo in queste fesserie. E poi, nel corso degli anni, si erano aggiunte tante altre persone: nessuno mi aveva dato le vibrazioni negative che mi aveva procurato Mancini. La stavo prendendo male, non sopportavo più la sua presenza. La trovavo ingiusta. Cominciai a desiderare che sparisse dalla mia vita.
Poi successe il patatrac. Era il giorno del mio trentasettesimo compleanno, ancora lo ricordo. Non festeggiavo un compleanno da secoli, non avevo organizzato nulla. Tuttavia, si presentarono a casa un paio di amici con un liquore alle erbe per un rapido brindisi.
“Ma sì, perché no.”
“Chissà dov’è Rizzo, prova a chiamarlo.”
“Ha detto che viene con due amiche.”
Insomma, nel giro di un’ora eravamo in dodici a scolarci bottiglie su bottiglie nel mio mini appartamento: serata piacevole, risate e tanti aneddoti sui bei tempi andati.
Nessuno aveva chiamato Mancini, io non ci avevo nemmeno pensato. E in tutta onestà, anche se mi fosse passato per la mente, non avrei rotto l’idillio di quella serata per invitare quel piantagrane.
Dopo quel giorno tutto cambiò. Il mio compleanno cadeva in estate, a fine luglio: subito dopo tutti partirono per le vacanze. Anche io mi avventurai in un’escursione solitaria in Spagna. Ci restai quasi un mese e quando tornai, lo feci con Alejandra. Ci eravamo conosciuti a Malaga e non riuscivamo più a staccarci.
Per le prime settimane, inebriato dall’amore, non ci avevo fatto caso: poi mi accorsi che da quando ero tornato non avevo ricevuto neanche una telefonata dagli amici. Lo trovai strano. Provai a fare un paio di chiamate: chi non rispondeva, chi faceva il vago. Passai al solito bar e vidi che erano tutti lì. Mi sedetti al tavolino come se niente fosse, ma mi resi conto che l’aria era frizzante, come se tutti ce l’avessero con me. Decisi di non dare peso alla cosa, senz’altro mi stavo suggestionando.
Notai, però, la stessa atmosfera anche nelle uscite successive. Soprattutto mi accorsi che, se non avessi chiamato io, nessuno mi avrebbe avvertito. Dopo un po’ ne ebbi la certezza: era successo qualcosa. Iniziai a sentirmi indesiderato. Decisi di non chiamarli più, sembrava mi volessi autoinvitare al tavolino dove mi ero seduto per circa vent’anni della mia vita.
D’altro canto la storia con Alejandra filava a gonfie vele e andare al bar non mi sembrava più così prioritario.
Dopo qualche tempo venne fuori che Mancini si era offeso a morte per non essere stato invitato al mio compleanno: cominciò a dire che non ero un buon amico, che parlavo sempre alle spalle, che da quando mi ero fidanzato ero sparito dai radar. Gli amici non gli davano né ragione, né torto. Sta di fatto che i rapporti si erano raffreddati.
“Nulla di personale, il mondo va così”.
“Però è vero che da quando ti sei fidanzato con la spagnola sei sparito.”
“E quel brutto vizio di parlare alle spalle…”
“A volte meriteresti proprio una bella secchiata.”
Insomma, senza neanche rendermene conto, avevo fatto la fine di Fusco. Mancini li aveva plagiati. Giorno dopo giorno, uno dopo l’altro, persi i contatti con tutti i miei amici. Ero stato ostracizzato.
Incredibile.
Alla fine scoprii che l’antagonista ero io.
[Lab17] Il mio caro amico Mancini
1Hai mai assaggiato le lumache?
Sì, certo
In un ristorante, intendo
Sì, certo
In un ristorante, intendo