Re: Perché si scrive?

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@RodjaAnalisi profonda che mi piacerebbe condividere, ma non posso, almeno non interamente. Perché sono uno che ha letto, nella sua non breve vita, migliaia di libri senza essere in grado di distinguere quali fossero oggettivamente belli o brutti: molto semplicemente, libri che mi sono piaciuti o non piaciuti. Mi sono piaciuti se, arrivato alla fine, ho provato un senso di mancanza, perché avrei voluto continuare a leggere. Non mi sono piaciuti quelli in cui ho provato sollievo, dopo aver resistito alla voglia di interrompere la lettura, magari di un best seller. Quando sono io a scrivere, parto da esperienze di vita intorno alle quali costruisco storie e personaggi, cercando di usare un linguaggio aderente il più possibile alla realtà. Anche se a leggermi non saranno in tanti, il mio libro mi sopravviverà e forse, prima o poi, a qualcuno verrà lo schiribizzo di esumarlo da un polveroso scaffale e, leggendolo, mi ridarà vita. Effimera, il ricordo di un autore sconosciuto, ma meglio di niente. 
Mario Izzi
Sopravvissuti
(in)giustizia & dintorni (trilogia)
Dea
Non solo racconti
[/De gustibus non est sputazzellam (Antonio de Curtis, in arte Totò)]

Re: Perché si scrive?

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@Cheguevara  Io, invece, condivido pienamente quanto hai detto, perché in ciò che hai scritto riluce un pensiero che troppo spesso diamo per scontato, a tal punto che le idee che genera, non avendo la consistente e necessaria presenza del suo fondamento, possono apparire vacillanti, come la luce di una candela che sta per spegnersi.
Neanche coloro che oggi riconosciamo come geni della letteratura si apprezzavano sempre tra di loro, alle volte si criticavano in maniera così feroce, e però così intelligente, da rendere le stroncature odierne ripicche noiose che mi ricordano quell’eccesso di presunzione che è retaggio dei nostri vezzeggiamenti infantili.
Questo per sottolineare, come hai detto tu saggiamente, l’impossibilità di esprimere un giudizio oggettivo su di un libro, perché un libro diventa tale solo tra le mani di un lettore, in un rapporto così intimo ed esclusivo da non tollerare intrusioni di nessun genere.
Mi dispiace se ho dato l’impressione di aver voluto dire che esistono libri buoni per tutti, perché nessuno può leggere davvero lo stesso libro: ognuno lo riscrive dentro di sé, trasformandolo in qualcosa che non esisteva prima. Un libro non è un prodotto finito, ma un invito dove la lettura opera una creazione continua, in cui il lettore diventa a sua volta autore, plasmando il testo con la propria sensibilità.
Rispondendo alla domanda “E voi perché scrivete?”, volevo solo rivelare il mio rapporto con la letteratura, ciò che me la rende indispensabile, nella speranza che riesca a mostrarmi ciò che non so, di rivelarmi i miei dubbi, i miei sogni e i miei veleni. Ed è anche quello che tento di fare scrivendo, anche se talvolta scrivo come cantano gli uccelli, incuranti se c’è qualcuno ad ascoltarli, o come a volere racchiudere un messaggio dentro una bottiglia lanciata nell’oceano, senza sapere se ci sarà mai un destinatario a raccoglierla.
In questo ci somigliano, nella consapevolezza di essere una di quelle figure che attraversano la vita come meteore, lasciando al massimo un vago ricordo in qualcuno.

Re: Perché si scrive?

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Rodja wrote: In questo ci somigliano, nella consapevolezza di essere una di quelle figure che attraversano la vita come meteore, lasciando al massimo un vago ricordo in qualcuno.
Così è, anche se non a tutti pare. L'esistenza è un battito di ciglia che si prolunga fino a quando c'è qualcuno che ti ricorda. Ma tutti si affannano a far quattrini, senza considerare che al massimo saranno i più ricchi del cimitero.
Mario Izzi
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Re: Perché si scrive?

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Ecco, questa è una bella discussione che apristi a suo tempo @Silverwillow e che sinceramente mi dispiace non sia molto frequentata.
Si salveranno solo coloro che resisteranno e disobbediranno a oltranza, il resto perirà.
(Apocalisse di S. Giovanni)

Re: Perché si scrive?

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@Alberto Tosciri 
Diciamo che Primo Levi non se l'è inventato, ma probabilmente ha tratto l'interrogativo dal saggio di Jean Paul Sartre Che cos'è la letteratura. 
Il saggio era stato pubblicato su Les Temps Modernes nel 1947, quindi è probabile che il giovane Levi abbia letto qualche traduzione. 
Il capitolo secondo del saggio si intitola appunto Perché si scrive.
Ora, è probabile che la definizione sia stata a sua volta presa da altri in precedenza. 
Vi riporto un breve passo:
 "Ognuno ha i suoi motivi: per qualcuno l'arte è fuga; per qualcun altro un mezzo di conquista. Ma si può fuggire in un eremo, nella pazzia, nella morte; si può conquistare con le armi. Perché proprio scrivere, effettuare per iscritto le proprie evasioni e le proprie conquiste? Sta di fatto che, dietro gli intendimenti diversi degli autori, c'è una scelta profonda e immediata, che è comune a tutti."
Poi diventa più filosofico, ma sempre leggibilissimo (il bisogno di sentirsi essenziali di fronte al mondo) è sempre il Sartre esistenzialista di Etre et néant, ma il saggio ha molti notevoli passaggi che uno scrittore dovrebbe aver letto. 
Da questa lettura ne ho tratto che il perché si scrive è fortemente legato al tema del discorso narrativo. E tanto più è spesso il sostrato ideologico e conoscitivo dell'autore tanto più lo sarà il tema del racconto, che è la spina dorsale di ogni narrazione. 
Si può pensare di scrivere del matrimonio, del rapporto tra coniugi, delle difficoltà della vita di coppia, come si può incentrare la narrazione su un qualche tipo di paura: quella di volare, quella dei luoghi chiusi, e via discorrendo.
In ogni caso è l’autore a dire, a rivelare al lettore qual è la sua idea, la sua posizione, il suo atteggiamento nei confronti di ciò che scrive. Perché quando scrive lo scrittore prende posizione, si impegna, prova a immaginare un mondo differente, e quindi il suo scrivere è un progettare, un tentativo di cambiare il reale. Lo scrittore è un costruttori di mondi. 
Dunque il punto di partenza di ogni scrivere non può non essere: perché sono davanti la tastiera, cosa voglio dire a chi mi leggerà? Cosa mi impegno a dimostrare?
Ecco, non esiste differenza tra un autore impegnato e uno che non lo è, perché ciascuno a suo modo e con le proprie capacità si impegna, prova a cambiare la consistenza delle cose.

Ma cos'è un racconto. Chiamo in soccorso due mostri sacri, Gerard Genette e Umberto Eco.
"Se accettiamo per convenzione di rimanere nel campo dell'espressione letteraria possiamo senza difficoltà definire il racconto come la rappresentazione d'un avvenimento o di una serie di avvenimenti reali o fittizi per mezzo del linguaggio, e più specificamente del linguaggio scritto. Questa definizione positiva (e corrente) ha il merito dell'evidenza e della semplicità: il suo principale inconveniente è forse proprio quello di chiudersi e di chiuderci nell'evidenza, di mascherare ai nostri occhi ciò che appunto, nell'essere stesso del racconto, costituisce problema e difficoltà, cancellando in un certo senso le frontiere del suo esercizio, le condizioni della sua esistenza. Definire il racconto positivamente significa accreditare, pericolosamente forse, l'idea o la sensazione che il racconto sia qualcosa che va da sé, che non vi sia nulla di piú naturale che raccontare una storia o collegare un insieme di azioni in un mito, una novella, un'epopea, un romanzo. L'evoluzione della letteratura e della coscienza letteraria da mezzo secolo in qua avrà avuto, tra altre felici conseguenze, anche quella di attirare la nostra attenzione proprio sull'aspetto singolare, artificiale e problematico dell'atto narrativo. Bisogna ritornare ancora una volta allo stupore di Valéry nell'atto di considerare un enunciato come «La marchesa usci alla cinque». Si sa in quante forme diverse e a volte contraddittorie la letteratura moderna abbia vissuto e reso questo stupore fecondo, quanto si sia voluta e si sia fatta, nella sua stessa sostanza, interrogazione, esitazione, contestazione del discorso narrativo. Una domanda falsamente ingenua come: perché il racconto? – potrebbe per lo meno indurci a ricercare o piú semplicemente a riconoscere i limiti in certo qual modo negativi del racconto, a riflettere sui principali giochi d'opposizioni attraverso cui il racconto si definisce, si costituisce di fronte alle diverse forme del non-racconto."
Gerard Genette Figure II p.1, Einaudi.

«Il testo postula la cooperazione del lettore come propria condizione di attualizzazione. Possiamo dire meglio che un testo è un prodotto la cui sorte interpretativa deve far parte del proprio meccanismo generativo: generare un testo significa attuare una strategia di cui fan parte le previsioni delle mosse altrui - come d’altra parte in ogni strategia.»

Umberto Eco, Lector in fabula, p.54, Mondadori.

Ecco allora, chiamo in soccorso l'etimologia: diegesi dal greco διήγησις, 'narrazione', 'racconto', composto di διά, 'attraverso', e ἡγέομαι, condurre guidare, connesso al verbo διηγέομαι, (io) descrivo in dettaglio, è il termine introdotto da Genette e che trova un suo riferimento nella Repubblica di Platone prima e nella Poetica di Aristotele dopo in contrapposizione al termine Mimesi (imitazione). Se il racconto epico è diegesi (per la presenza del narratore che media la realtà), quello teatrale è mimesi (per la presenza degli attori che imitano la realtà).

Mentre si intende per diegetico (o intradiegetico) tutto l’insieme degli elementi, dei segni, degli eventi che pertengono allo sviluppo dell’azione narrativa e della messinscena visiva o che in esso vengono presupposti, e per extradiegetico tutto ciò che esula dall'universo visuale e finzionale, pur contribuendo a comporre l'opera (per es., la musica di commento alle immagini in un’opera filmica). Per omodiegetico si intende invece un narratore che compare come personaggio all’interno della diegesi.

Re: Perché si scrive?

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@Gaetano Intile
Vedo con piacere che questa discussione sembra ravvivarsi. 
Amo il fattore umano nella scrittura, perché a scrivere sono gli uomini, e le donne ovviamente. Personalmente ho sempre voluto ragionare certo sul “perché si scrive”, ma che per me porta anche a chiedersi “chi è che scrive” innanzi tutto, che può avere una sua importanza non sempre relativa.
Intendiamoci: un capolavoro è tale a prescindere da chi l’abbia scritto, che si conoscano o meno gli estremi della sua vita ma per me è importante conoscere la vita, i pensieri, le azioni e i comportamenti dell’autore, per quanto possibile. Conoscendo il contesto storico ci si riesce a calare meglio nell’opera, conoscendo anche qualcosa dell’autore questa “immersione” aumenta, diventa più coinvolgente, si riesce a leggere tra le sue righe.
Io amo, io voglio pormi domande oltre il necessario, oltre la tecnica, da manuale o estemporanea, oltre la bellezza formale di uno scritto, della sua veridicità, della sua attinenza alla realtà sociale, alla sua storicità.
Ad esempio: amo Il nome della Rosa di Umberto Eco, fui uno dei primi ad acquistare la prima edizione che lessi e rilessi con entusiasmo. Sapere che l’autore era ateo e di idee che io potevo anche non condividere mi fece approcciare al testo con una certa prevenzione, ma rimasi affascinato dal testo e in seguito dalla sua trasposizione cinematografica dove la scena finale del giovane monaco Adso che rinuncia all’amore terreno di una donna per seguire la sua vocazione religiosa mi ha sempre commosso. Se un ateo rappresenta una cosa del genere senza disprezzarla o irriderla, anche se forse non la condivide, però la rispetta, merita di essere letto.
Può sembrare una banalità, una fisima pour parler, ma per me è importante.
Cito un altro esempio, che però mi colpì assai negativamente, ammesso che sia vero.
Ho sempre ammirato la scrittura asciutta, essenziale, direi geniale di Ernest Hemingway. Lui asseriva che uno scrittore dovrebbe scrivere soltanto di cose che conosce, che ha vissuto in prima persona. Sono parzialmente d’accordo. Emilio Salgari ha descritto un mondo nei pirati della Malesia senza essere mai stato in quei posti, senza aver mai conosciuto nessuno dei personaggi che descrisse minuziosamente in tutti i loro aspetti sociali e storici, compresi i luoghi dove avevano vissuto, semplicemente documentandosi con cura.
Non è una cosa alla portata di tutti, come lo fu per Hemingway, aver partecipato alla prima Guerra Mondiale, alla Guerra Civile Spagnola, alla seconda Guerra Mondiale, al netto della vita a Parigi negli anni Venti, nella Spagna nell’ambiente delle corride, in Africa con i safari. La materia prima dei suoi romanzi e racconti.
Nel 2006 uscì un articolo nel Corriere della Sera, questo è il link,  articolo è breve e vale la pena di leggerlo. Non posso dire se sia la verità, non ne parla nessuno. Se fosse vero, tirando le somme, Hemingway amava uccidere anche uomini. Si dirà che in guerra lo fanno tutti. In guerra si, contro nemici armati che ti sparano addosso. Non nei casi riportati nell’articolo, desunti da lettere dello stesso Hemingway, se l’articolo riporta notizie vere, visto che è firmato da un giornalista che avrà fatto le sue indagini.
Questo non squalifica Hemingway come scrittore, ma se la notizia è vera c’è da pensare; la sua scrittura, la sua “lezione” assumerebbe un altro significato.
Perdonate la digressione, ma parlando di scrittura si parla anche, necessariamente, di scrittori, della loro vita, del loro contesto sociale.
Si salveranno solo coloro che resisteranno e disobbediranno a oltranza, il resto perirà.
(Apocalisse di S. Giovanni)

Re: Perché si scrive?

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@Alberto Tosciri 
Beh, gli scrittori sono uomini. Vorrei ritornare al perché si scrive, se non ti dispiace. E partirò da Umberto Eco, e dal suo primo romanzo che tu hai citato scrivendo di averlo letto e riletto. 
Il protagonista è Guglielmo da Baskerville e in questo modo Eco ci tiene a far sapere al lettore che quella che leggerà sarà una storia poliziesca a sfondo storico. La citazione è infatti quella del terzo romanzo di Conan Doyle, Il mastino dei Baskerville. Opera terza contro opera prima. 
Come nel romanzo di Conan Doyle Sherlock Holmes è coadiuvato dal dottor Watson che gli fa da spalla e da promemoria e da alter ego pensante nel romanzo di Eco Fra Guglielmo e coadiuvato dal giovane novizio Hadso da Melk, che lo segue passo passo nelle sue indagini. È un animo candido, come Watson, è altruista, come Watson. 
Veniamo al primo incontro tra Holmes e Watson. 
«A quanto vedo, lei è stato in Afghanistan.» 
«Come fa a saperlo?»
 Questo è forse lo scambio di battute più celebre di Uno studio in rosso primo romanzo di Arthur Conan Doyle: Sherlock Holmes e il dottor Watson sono stati appena presentati da un conoscente comune e di lì a poco si troveranno fianco a fianco nella soluzione del caso Drebber, la prima delle loro avventure fra crimine ed enigmi. Il celebre investigatore viene in aiuto del suo nuovo amico, soddisfacendo così anche la curiosità del lettore, solo dopo diverse pagine. Ecco il filo del mio ragionamento: quest’uomo ha qualcosa del medico, ma anche qualcosa del militare. È reduce da un luogo caldo, poiché ha il viso molto scuro, ma quello non è il suo colorito naturale, dato che ha i polsi chiari. Ha subìto privazioni e malattie, lo dimostra il suo viso emaciato. Inoltre, è stato ferito al braccio sinistro. Lo tiene in una posizione rigida e poco naturale. In quale paese dei Tropici un medico britannico può essere stato costretto a sopportare dure fatiche e privazioni, e aver riportato una ferita al braccio? Nell’Afghanistan, naturalmente.
Holmes muove da alcuni dati tratti dall’osservazione, come il colorito scuro del volto di Watson. Egli si serve inoltre di informazioni all’epoca ben note, in particolare il fatto che l’Impero britannico fosse impegnato in quegli anni in operazioni militari in Afghanistan (le vicende narrate si svolgono poco dopo la Seconda guerra anglo-afghana, 1878-1880). Su queste basi, Holmes giunge, infine, a una conclusione di cui non ha alcuna conoscenza diretta, cioè che Watson è appena tornato dall’Afghanistan. Dal punto di vista della narrazione letteraria, si tratta di un’anticipazione della proverbiale sagacia di cui Holmes darà prova nelle sue indagini. Nella terminologia della logica, abbiamo invece a che fare con un raffinato esempio di induzione, una forma di ragionamento che permette di concludere qualcosa di nuovo a partire da ciò che è noto.
Dunque ciò che è più importante nei romanzi di Conan Doyle è il metodo di indagine. Che è il metodo induttivo insieme a quello deduttivo (anche se nella vulgata tra i due non si fa differenza). Da de - ducere, condurre a partire da,  e induttivo, da in - ducere, condurre dentro.
Il metodo deduttivo procede dal generale al particolare, quello induttivo dal particolare al generale. 
Entrambi i metodi di ragionamento, che già Aristotele descrive, vengono utilizzati da Galileo nell'elaborazione del suo metodo scientifico. 
Dunque Umberto Eco nel suo primo romanzo adopera in metodo induttivo deduttivo per far svolgere le indagini al suo protagonista. 
E infatti Fra Guglielmo si rivela più che un uomo di Chiesa un uomo di Scienza, attento ai particolari, pronto a verificare e sperimentare le sue deduzioni e induzioni proprio come farebbe un uomo di Scienza col metodo galileiano. 
Quindi Il nome della Rosa vive di questa contrapposizione tra Fra Guglielmo, uomo di scienza ante litteram, e i suoi antagonisti, uno misterioso (l'assassino che poi sarà Fra Jorge da Burgos) e Bernardo Gui l'inquisitore. Anche questi due personaggi sono simbolici. Il primo è un uomo divorato dalla fede, pronto a distruggere la conoscenza umana in nome della religione. Il secondo è un uomo di diritto, e quindi di stato,  pronto a distruggere la vita umana per salvaguardare l'ordine costituito e i rapporti di forza. 
Quindi Umberto Eco ha adottato come personaggi protagonisti tre archetipi: Prometeo, Fra Guglielmo (che invece che donare il fuoco salva dal fuoco la conoscenza... l'incendio della biblioteca),  Fra Jorge, l'uomo divorato dalla fede,  è l'Abramo biblico, l'archetipo dell'uomo che si piega al volere di Dio. Mentre l'inquisitore è la figura dominante che esercita il potere e il controllo sugli altri uomini (compresi quelli di fede e di scienza).
Ora, nel mondo di Eco Fra Gugliemo alla fine vince, Jorge muore, Bernardo Gui fugge, lui rimane e risolve il mistero e salva quel che può della conoscenza. 
Il candido Hadso da Melk conosce la sessualità, le gioie del corpo. Ma, a mio avviso, non rinuncia a queste per la fede, come tu hai accennato. Lui rimane con Fra Guglielmo per seguire la sua strada e diventare un uomo di Scienza come lui, anche se col saio, e non un uomo di Fede. Hadso sceglie di seguire la Ragione e il Metodo Galileiano del suo Maestro. A cui non interessa né il sesso, né il potere, né la fede, ma la conoscenza e la tecnica che ne deriva e che sembra possa salvare gli uomini dalla miseria della propria condizione. E infatti al suo discepolo confida di avere amato anche lui, ma che la forza della Conoscenza, il miraggio della Techné salvifica qui e sulla Terra e non in un altro mondo ultraterreno, ha prevalso su ogni altra considerazione. 
Eco prefigura già nel XIV secolo la vittora della Techné su ogni altro manifestazione della Tradizione Occidentale sia essa religione, sia etica, sia diritto, sia morale, sia filosofia. 
 

Re: Perché si scrive?

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@Gaetano Intile Ciao, ho notato che nei tuoi interventi condividi spesso riflessioni molto approfondite. Mi è capitato di riconoscere alcuni passaggi che sembrano tratti da testi pubblicati, ma senza riferimento all’autore originale. Magari è stata solo una svista, oppure hai dato per scontato che fosse noto, ma ti consiglierei di citare sempre la fonte quando riprendi parti di libri o articoli. Ad esempio, il passaggio relativo a Sherlock Holmes mi sembra tratto da "Introduzione alla psicologia del pensiero", a cura di Vittorio Girotto. Non solo per rispetto nei confronti dell’autore, ma anche per tutelare il forum, che potrebbe altrimenti essere coinvolto in problemi legati ai diritti di copyright. Inoltre, attribuire chiaramente un testo rende la discussione più ricca e trasparente. Sono certo che apprezzerai questo consiglio in buona fede!

Re: Perché si scrive?

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Scrivo perché ho bisogno di scrivere;
perché ho bisogno di esprimermi;
perché l'uomo e la donna sono espressione del divino essere
                                                     e dell'essere animale in un unico essere.
Ma sto già facendo confusione con questi giri di parole,
l'importante è che abbia confuso anche te
                                                     nel farti leggere tutto ciò.
"di doman non c'è certezza",
                       e anch'io spesso non sono capace di dire un secco "sì" o un secco "no".
Soffro di insicurezza,
               come nemmeno è sicuro da dove provenga
                         questo umano bisogno di esprimerci, di essere e di divenire.



                                                                                  Daniel P.


:D :hm:  
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"Quando sogno io non ho più corpo, volto né pensiero; quando sogno volo via leggero sopra a tutti voi e torno uomo."
Enrico Ruggeri, Diverso dagli altri

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