Impressioni di un re
Adesso la luce affermava la presenza del giorno nella sua cella. Clangori metallici echeggiavano nel corridoio, a tratti frammischiati a voci di uomini inghiottite in lontananza, disperse come naufraghi in un mare grigio e calmo, luccicante in modo inesorabile sotto il sole. Adrio, sdraiato nel suo letto ascoltava, valutava, ansimava in sincronia con i battiti alterati del suo cuore; non ci pensava: il cuore si sarebbe calmato, come sempre. Il fascio di luce tagliava obliquo i nove metri quadri del suo spazio, lo interrogava in attesa di notizie. Isolamento diurno e notturno a vita, rispondeva in silenzio Adrio.
Aspettava l’ora d’aria per camminare avanti e indietro nel cortile tutto per lui. Solo per lui. Dopo si sarebbe fatto la barba. Ma ora… Osservava. Granelli di polvere turbinavano nella luce, ospiti graditi e attesi. Si posavano scomparendo sulle pareti scrostate della cella: ricordi di giochi di luce dei finestroni della scuola nel paese della sua infanzia, teste rasate in fila sui banchi, colli sporchi. Ma qui era diverso; la polvere danzante cadeva dissolvendosi sulle macchie d’intonaco che formavano la mappa del suo Impero. E Adrio era il re di quest’impero, lo aveva deciso da molto tempo. Come una sentenza.
Sorrise, le labbra screpolate gli fecero male, un po’ di febbre. Freddo preso ieri in cortile. Aveva lasciato un discorso in sospeso con… Lo sapeva lui. Nulla d’importante, o forse sì: ogni centimetro, di spazio, ogni minuto della sua vita era notevole e carico di significati, di tensioni, speranze nascoste. Doveva prendere una decisione. Dov’era rimasto? Il suo Impero. Cosa aveva lasciato in sospeso? Guardò l’intonaco dove si posavano i granelli di polvere: coste, montagne, vallate e in una scrostatura più ampia e chiara della parete aveva fatto sorgere la sua capitale. Sentire i suoi sudditi, i loro problemi, le loro richieste. Era un re comprensivo: accontentava molti. Non tutti, ma molti sì. Aveva disposto che chi si comportasse male non dovesse mai finire in prigione ma a lavorare nei campi di grano, nei vigneti, nei frutteti del suo impero. Nessuno in isolamento, ma in piccoli villaggi, ovvio sorvegliati dai gendarmi, con la possibilità di farsi una famiglia. Era molto fiero di questa sua personale legge. Poteva farlo, lui era il re.
Amava parlare tutti i giorni con i suoi cortigiani e i sudditi, accogliere ospiti, ambasciatori, poeti, avventurieri e pirati in fuga. E poi sbrigare affari, stipulare contratti con i mercanti e i nobili più ricchi e importanti, li conosceva tutti. Organizzare feste, balli, sontuosi banchetti. Le donne e i nobili in ricchi abiti, gli ufficiali della sua guardia nelle loro sfolgoranti uniformi. Chiacchierava amabilmente prima di sedersi a tavole sontuosamente apparecchiate con ceramiche cinesi decorate in un profluvio di paesaggi azzurri su fondo bianco, posate d’oro dai manici istoriati, calici di cristallo colorati e tavole imbandite di ogni genere di cacciagione: frutta, dolci, vini delle sue vigne. Si informava di ogni particolare nelle cucine e con i maggiordomi; spesso arrivava l’ora di andare a dormire, quando nella cella spegnevano le luci e si trovava ancora nel pieno delle sue attività. Allora dormiva malvolentieri, benché stanco morto, ma febbricitante di entusiasmo al pensiero delle incombenze che lo attendevano il giorno dopo. In quei giorni stava organizzando il suo matrimonio con una principessa. In un primo tempo aveva pensato di sposare una bellissima contadina, ricordando le favole della sua infanzia, ma si era reso conto di non amarla. Non era un re che sposava contadine, per quanto belle, mandando al diavolo il suo retaggio. Lui era nato per essere un re e voleva sposare una principessa, che sarebbe stata regina, con il sangue di una regina. Per non parlare dei figli, degli eredi al trono. Ne avrebbe voluti tanti.
Guardava l’intonaco, vedeva il suo palazzo e stava decidendo dove organizzare quel ballo in maschera, forse in una immensa veranda che si affacciava sui giardini: cipressi scuri, colonne di marmo bianco. Certamente abiti del Settecento, broccati azzurri e dorati, parrucche bianche incipriate, profumi orientali speziati, stoffe damascate luccicanti: azzurre, verdi, rosse. Alle pareti delle sale adiacenti arazzi immensi con scene di caccia, dell’Olimpo, del paradiso e pure dell’inferno, raffiguranti tavole traboccanti di frutti scuri e succosi avvolti nelle loro foglie, mani avide ingioiellate di anelli e bracciali tese a prenderli, bocche aperte in sorrisi a volte casti, a volte lascivi. Aveva ai suoi ordini i migliori artisti, i migliori santi, i migliori eretici dell’impero. Un’ulteriore sfilata di questi cortigiani: discussioni di particolari. Si informava dei loro affari, delle loro vite; trovava tutto interessante e lui era disposto al dialogo, era comprensivo verso tutte le virtù e i peccati del mondo. Non per nulla era il re.
Con la mollica del pane si era costruito nel tempo dei piccoli pezzi di scacchi e talvolta, su una scacchiera tracciata con un dente di forchetta in un punto del pavimento visibile solo se si sapeva cosa e dove cercare, intavolava partite che duravano giorni. Ma oggi non aveva voglia di giocare a scacchi.
All’ora d’aria venivano due guardiani per accompagnarlo nel cortile. Adrio camminava davanti nel lungo corridoio, sentiva i loro sguardi puntati su di lui. Distingueva la differenza dell’intensità o della preoccupazione delle due guardie. Il più giovane non staccava mai lo sguardo da lui, il vecchio era esperto, tranquillo.
Un giorno la vecchia guardia, venuta da sola, gli tese la mano dicendo: ─ Ti saluto Adrio. Domani vado in pensione.
Adrio aveva contraccambiato il saluto e aveva stretto la mano. Aveva sentito dei calli.
─ Ti dedicherai alla famiglia e all’orticello? ─ gli chiese. La guardia aveva annuito sorridendo.
Adrio aveva pensato a lungo alla vita di quella guardia e nel suo impero di intonaco scrostato lo aveva premiato dandogli una bella casa bianca circondata da vigne e oliveti vicino al mare. Se lo meritava perché negli anni gli aveva spesso rivolto la parola. Ogni tanto sarebbe andato a trovarlo.
Ora doveva conoscere la guardia più giovane.
─ Hai paura che scappo? ─ gli disse un giorno senza voltarsi, mentre veniva accompagnato nel cortile.
La guardia non aveva rotto il silenzio, ma Adrio aveva sentito il suo respiro rilassarsi, la morsa diminuire, anche perché sapeva bene come non allarmare le guardie: mai alzare la voce, camminare e parlare lento, niente gesti improvvisi.
ll cortile, delimitato da alte mura, non era molto grande ma Adrio poteva camminare avanti e indietro macinando chilometri.
La pavimentazione di asfalto, sotto il sole e la pioggia emanava un forte odore bituminoso che ricordava ad Adrio l’autofficina dove aveva lavorato da ragazzo, o una trattoria vicino al mare dove il sole faceva fermentare il contenuto dei bidoni d’immondizia messi fuori.
Il pavimento del cortile era scrostato in più punti a formare piccoli fossatelli pieni d’acqua dopo la pioggia che unendosi al bitume assumeva i colori di arcobaleni cangianti in un movimento lento, facendo luccicare a tratti l’acqua, come il mare d’estate.
Ai lati del cortile, nelle parti più in ombra, spuntavano a fatica dei fiori, isolate margherite gialle o bianche, ciclamini violacei, piccoli steli selvatici a forma di spiga verde, ciuffi di gramigna sui quali talvolta si posava qualche farfalla. Non aveva mai osato raccogliere quei fiori per non ucciderli, ma li aveva accarezzati con delicatezza; si era chinato a sentire il loro profumo e gli erano venute le vertigini rivedendosi a correre da bambino nella campagna, sporco, sudato, con le ginocchia sbucciate, sorrisi di allegria in bocca per tutto il giorno, masticando vento caldo assieme ai suoi coetanei.
Talvolta, dopo essersi sgranchito le gambe, Adrio si sedeva vicino a quei pochi fiori che sembravano accarezzare i pantaloni della sua divisa da carcerato, lambire le scarpe senza lacci. A seconda delle stagioni osservava l’ombra che si disegnava in modi differenti sul muro, nelle scrostature vedeva la mappa di un altro impero e talvolta ci si dedicava, considerandolo però una sorta di colonia che poteva visitare raramente, ma comunque degna di attenzione, di scambi, di trattative con il suo impero. Si metteva a torso nudo per prendere il sole, respirava l’inebriante odore delle margherite e dei ciclamini che spuntavano dagli angoli del muro.
─ I fiori d’asfalto muoiono giovani ma voi mi avete aspettato come sempre. Vi ringrazio ─ diceva Adrio toccando lieve con la punta delle dita i fiori che lo ascoltavano fiduciosi. Sentì gli occhi inumidirsi, una lacrima calda colare repentina sulla guancia, fino alla bocca. Salata come l’acqua di mare. Non l’asciugò.
Tra poco sarebbe ritornato nella sua cella e avrebbe avuto tante cose da fare e da vedere nel suo impero prima che calasse la notte e spegnessero le luci. Lui era il re.