«E la marmellata?» fece quello.
«No.»
«Manco lo zucchero?»
«No.»
L’altro aggrottò la fronte: «Un uomo avrebbe diritto a una colazione decente» brontolò.
«Hai la glicemia a 300.»
Lui sospirò, riempì la tazza e prese a inzuppare la fetta biscottata.
«Allora è deciso» fece lei.
«Non lo so, Teresa. Non lo so.»
«Ma come non lo sai, non t’è bastato?» disse col braccio teso verso il corridoio.
Gregorio alzò la testa e guardò lo sfacelo. Mobili rovesciati, cuscini sventrati, cornici sparse per terra tra cocci e schegge di vetro. Ma più di tutto lo facevano rabbrividire quei segni chiazzati di rosso che solcavano il muro, lungo la scala, fino al piano di sopra.
In quel momento un tramestio, un tonfo, poi un altro e su quel fracasso un suono orribile, come il latrato di una bestia ferita.
«La senti?» disse lei. «No, dico, la senti? E se la senti tu, capirai che anche gli altri…»
Gregorio si passò le mani sulla faccia.
Uno scampanellio, un toc toc alla porta di casa. Lui si sporse verso la finestra, scostò un poco la tendina e lanciò un’occhiata alla moglie.
«Ecco, appunto!» disse quella. Scattò in piedi furente e si precipitò ad aprire.
«Buongiorno, cara…» fece compunta la signorina Adelaide. «Va tutto bene?»
«Certo, va tutto benissimo» disse Teresa a denti stretti.
«Ne è sicura?» fece quella allungando il collo per sbirciare. «No, perché stanotte… tutto quel trambusto, insomma mi sono preoccupata.»
«Non ce n’è motivo» disse l’altra. Fece per richiudere la porta, ma la donna riuscì a mettere una spalla e un piede dentro.
«Volevo chiamare qualcuno, sa?» continuò imperterrita. « Ma poi… come dire? In fondo un uomo in casa ce l’ha e allora…»
«E allora ha pensato bene di farsi i fatti suoi.»
«Sì, però…»
«Grazie, Adelaide.» Le mise una mano al petto, la spinse indietro, sbatté la porta e tornò in cucina. «Ecco, sarai contento adesso» fece al marito.
Dal piano di sopra ancora colpi, latrati acuti e poi ancora colpi.
«Gregorio, te lo chiedo per l’ultima volta: che intendi fare?»
L’uomo guardò il soffitto e poi la moglie: «Ma non capisci? Lei è…»
«No, sei tu che non capisci!» inveì Teresa. «Perché i soldi ti hanno dato alla testa!»
«Che c’entrano adesso i soldi? Pensa invece alle lettere, quelle che arrivavano ogni settimana, te le ricordi? Diceva che era felice, che…»
«No! Erano mail, chi ti dice che le abbia scritte lei? Hai visto la sua calligrafia, l’hai vista? No, non l’hai vista!» urlava.
«Calmati, Teresa.»
«No, non mi calmo! La mia bambina, in che stato mioddio!» Gridava, piangeva, alzava gli occhi al soffitto, a quel di sopra che era tutto uno sbattere, ululare e latrare.«È questo che volevamo per lei? Dimmelo, è questo?»
In quel momento uno scampanellio.
«Se è ancora quella, giuro che…»
Gregorio la bloccò: «Lascia, vado io.»
Si alzò e quando tornò non era solo: «Ci sono i genitori di Nino.»
Teresa sgranò gli occhi.
«Li faccio accomodare in salotto?»
«Ma no» fece Marisa. «Niente cerimonie, non è proprio il caso.» Sedette al tavolo e fece cenno al marito di fare lo stesso.
Attimi di silenzio. Sguardi. Marisa prese le mani di Teresa tra le sue: «In paese lo sanno tutti.»
«Adelaide! È stata lei, fai solo che mi capiti tra le mani…»
«Ma no, è stato tutto il casino di stanotte. Come potevano non accorgersene?»
Tacque fissando il vuoto a labbra strette, come ci fosse tanto altro da dire, ma il cuore sbarrasse la strada alle parole.
«Ma che, pure Nino?» chiese Teresa con un filo di voce.
Marisa annuì: «Come Danielina tua… o sbaglio?»
Teresa scosse la testa desolata.
«Devono essere tornati insieme, ma prima di arrivare a casa… insomma, Nino non era in sé…»
«Nemmeno Danielina» disse Gregorio. «Ha sfondato la finestra a mani nude e ci si è avventata contro.» Lo disse con gli occhi lucidi e i pugni stretti. «Se Teresa non l’avesse tramortita con la lampada… »
«Alla gola, Marisa, lo voleva azzannare alla gola!»
L’altra annuì: «Anche Nino. Sembrava una bestia inferocita e allora Sergio è stato costretto a…» ebbe un sussulto e cominciò a piangere pure lei. «Un ragazzo così dolce, così caro, non ci posso pensare!»
«Quindi in paese lo sanno» fece Teresa.
«Per forza. Tutta la notte a correre su e giù, ululando, raspando alle porte come lupi. E poi panchine divelte, le sedie e i tavolini del bar di Gianni fatti a pezzi, un disastro! Persino il cane del maresciallo Annigoni...»
«Il cane?»
«Sgozzato… a morsi, Teresa. Ti dico, come bestie.»
«No!»Teresa si aggrappò al marito, prese a strattonarlo urlando «Ma che gli hanno fatto? I nostri bambini, mioddio! Che gli hanno fatto!»
«Maledetti!» fece Sergio sbattendo un pugno sul tavolo. «Vengono qui coi loro macchinoni, con quell’aria dottorale: «È un’occasione per i vostri figli, per garantir loro un futuro radioso.» E noi ci abbiamo creduto! Come imbecilli ci abbiamo creduto!»
Gregorio gli mise una mano sulla spalla: «Non potevamo saperlo.»
«Dovevamo, invece!» fece Teresa singhiozzando.
«E come?» disse Marisa. «Sembravano tutti così preparati, impeccabili. Come potevamo competere con tutti quei paroloni, quei numeri, come potevamo contraddirli?»
«Avremmo dovuto chiedere, farci spiegare, cercare di capire.»
«E che c’era da capire? Quando ti dicono che selezioneranno i migliori, che li inseriranno in un progetto… com’è che si chiamava?»
«Futura Humanitas» fece Sergio con aria tetra. «Proprio un bel nome.»
«Capisci? I migliori, i nostri figli accolti in una struttura esclusiva, ve le ricordate le foto, no?»
Annuivano ripensando al parco, alla biblioteca, all’auditorium, ai campi da tennis e alla piscina, a tutto quel paradiso che sembrava aspettare solo i loro ragazzi. I migliori.
«Se penso a tutto quello che abbiamo fatto» disse Marisa sconsolata.
«Carte false, certo!» insorse Teresa. «Quando è in ballo il futuro dei figli è così che si fa!»
Tacque mente gli altri la fissavano. «Perché mi guardate così? Non è forse vero che per i figli si vende l’anima al diavolo? E poi tutti quei…»
«Adesso basta!» la interruppe Gregorio.
«Non vuoi che lo dica, eh?» fece lei con un sorrisetto acido. «Soldi» disse e lasciò che il suono aleggiasse nell’aria. Prese una scatolina cinese dal davanzale, tirò fuori una sigaretta e l’accese. «Tutti noi abbiamo avuto la nostra parte. O no?» E mentre lo diceva, dalla bocca e dalle narici le uscivano volute azzurrine che serpeggiavano, fluttuavano e si dissolvevano.
«Era il compenso per…» Marisa arrossì. «Insomma, diglielo pure tu Sergio!»
«Ma sì, per il distacco dai nostri figlioli. Per le spese che avremmo dovuto sostenere quando fossimo andati a trovarli…»
«I ragazzi sono via da quanto? Sei mesi, un anno?» fece Teresa.
«Un anno e mezzo» disse Sergio a voce bassa.
«E in tutto questo tempo, dimmi, quante volte siamo andati a trovarli?»
«Ma non ce lo permettevano!» piagnucolò Marisa.
«Dicevano che la sperimentazione richiedeva il massimo della concentrazione» fece Sergio. «Continuità e concentrazione.»
«Sì, Teresa» disse Gregorio prendendole la mano. «Te lo ricordi, è proprio così che dicevano.»
Lei si divincolò: «Ma davvero vogliamo continuare a raccontarci questa balla?»
«Non è una balla! È la verità!» gridò stridula Marisa.
«Ma certo. Come il diabete del figlio del Notaio Gambetta, come l’emofilia della figlia del dottor Chiarelli, come le tare psichiatriche dei figli di…»
«Basta, Teresa! Adesso piantala!» fece Gregorio.
«Abbiamo mentito, falsificato, fatto sparire certificati e documenti per mandare avanti i nostri di figli» continuò imperterrita. «Perché dovevano essere loro, loro e nessun altro, i migliori a qualunque costo. E tu lo sai bene, Sergio, perché i fascicoli personali dei ragazzi li tenevi in cassaforte nel tuo ufficio, Così saranno al sicuro dicevi. E quelli te lo hanno lasciato fare, e lo sai perché? Te lo sei mai chiesto? Perché il progetto Futura Humanitas aveva bisogno di una cosa sola, non importava quale: carne da macello.»
«Ma che dici? Sei impazzita!» gridò Sergio.
«Li abbiamo venduti, questa è la verità! Perché potessero usarli come cavie.»
«Medicina sperimentale» sussurrò Gregorio. « Dicevano che gli innesti di DNA…»
Teresa si voltò di scatto: «Ma allora tu lo sapevi!»
«No, ti giuro, non ne sapevo niente!»
«Come niente?» gridò Marisa.
Sergiò si alzò, afferrò il collo di Gregorio, lo spinse fino all’acquaio, lo piegò all’indietro: «Tu sapevi!»
«Solo che... avrebbero fatto dei prelievi» balbettò quello paonazzo.
«E poi?»
«E poi li avrebbero innestati sugli animali…»
«No, è il contrario» mormorò Marisa. «L’ho capito soltanto adesso.» Lo disse con voce opaca, come se l’angoscia le avesse preso il cuore e l’avesse scagliato lontano, dove nessuno l’avrebbe mai più sentito battere.
«Che vuol dire il contrario? Spiegati.» ringhiò Sergio.
«Prelievi da animali innestati sui nostri ragazzi. È per questo che…»
In quel momento, un tonfo al piano di sopra, un urlo acutissimo e poi un tramestio violento lungo la scala. Qualcuno stava scendendo senza badare ai gradini. Qualcuno o qualcosa.
E un attimo dopo era lì, in cucina. Con la faccia scavata, pallida come se la pelle e le ossa del cranio fossero una cosa sola, gli occhi sporgenti e senza palpebre, mentre una bava densa colava dall’apertura che una volta era stata la bocca.
Ansimava, brandendo un pezzo della porta che aveva divelto e, curva sotto il peso della cresta artigliata che sporgeva dalla schiena, a piccoli salti sulle gambe deformi, avanzava verso di loro.
Era Danielina. O quello che ne era rimasto.
E quando fece per avventarsi contro Gregorio, questo afferrò un coltello dall’acquaio e glielo piantò dritto in mezzo al petto che emise un gorgoglio e poi un sibilo, come di un pallone che si sgonfia, mentre una poltiglia maleodorante usciva a fiotti.
Lei per un attimo restò immobile, con gli occhi sgranati e la bocca aperta, presa dallo stupore. Poi si accasciò, mentre tutti restavano in silenzio a guardarla palpitare e fremere, finché gli occhi le si velarono come quelli di un pesce da troppo tempo lontano dal mare.
Silenzio. Minuti, forse secondi, più probabilmente un’intera vita, poi Teresa drizzò la schiena, fece un respiro fondo e guardò gli altri. Uno ad uno.
«È finita» disse.
E fu allora che Marisa si riscosse: «Nino!» gridò.
Sergio si precipitò ad abbracciarla.
«Dov’è adesso?» chiese Gregorio.
«A casa, dove vuoi che sia?» fece Marisa tra i singhiozzi.
«Sei sicura?»
Lei annuì, alzò la testa verso il marito che la strinse più forte.
«Sei sicura?» incalzò Teresa.
«Sì, cazzo, sì! Siamo sicuri» gridò Sergio.
«Ed è…»
«È vivo, è vivo. Legato al letto e sedato col Roipnol, va bene?»
«E tu perché avevi pronto in casa il Roipnol?» fece Gregorio massaggiandosi il collo.
«Fatti i cazzi tuoi.»
«Sono cazzi miei!»
«Basta!» gridò Teresa. «Piantatela, non è il momento.»
«Ma certo, con tutto quello che c’è da fare» fece Sergio acido. «Potremmo organizzare una festicciola per brindare con tutto il paese, saranno contenti.»
«E Nino?» piagnucolò Marisa.
«Infatti, Nino, ma non solo» disse Teresa indicando il corpo di Danielina.
«Aspetta, che vorresti fare?» fece Gregorio allarmato.
«Chiamarli.»
«Chiamare chi?»
«Il Centro Futura Humanitas. Loro hanno fatto il guaio, a loro spetta rimediare.»
«Sì, è giusto» disse Sergio. «Ma ormai che potrebbero fare?»
«Pulizia, tanto per cominciare. Qui e da voi.»
«Beh, certo» fece Marisa con gli occhi improvvisamente asciutti. «Potrebbero riprendersi Nino, per esempio, che in quelle condizioni, ecco, proprio non potremmo…»
«Esatto. E poi…»
«E poi pensare anche a noi, che diamine!» disse Sergio. «Che in tutta questa faccenda…»
«Eh sì, noi ci abbiamo rimesso!» fece Marisa con la voce sempre più acuta «E sotto molti punti di vista! La reputazione, per esempio.»
«Beh, in effetti» disse Gregorio. «Che se venissero fuori tutte quelle piccole, come dire? Irregolarità della selezione… Intendiamoci, non che alla fine noi si abbia avuti chissà che vantaggi, però…»
«Però i soldi li avete presi, questo direbbero tutti» fece Teresa.
«E certo, perché sono malelingue, gente cattiva» disse Marisa.
«Senza contare i danni di stanotte» fece Gregorio.
«Eh sì. Ai portoni, al bar di Gianni, al cane del maresciallo che c’era tanto affezionato…»
«Giusto!» disse Sergio «Che se poi dovessimo cercare i responsabili, eh mi dispiace tanto, ma non siamo noi, né i nostri ragazzi, povere creature!»
«Vittime! Sì, vittime noi e loro!» strillò Marisa. «Vittime di un raggiro di gente senza scrupoli, che si approfitta della buona fede delle persone! Che fa credere di… com’è che dicevano? Un progetto innovativo in campo farmacologico, per il bene dell’umanità. Roba da pazzi!... Ma cos’è questa puzza? Ah, già Danielina, apri per favore, che mi viene da vomitare.»
Teresa aprì la finestra e tornò a sedere. «Per questo dobbiamo farci sentire. Per mettere le cose in chiaro, ognuna al suo posto.»
«Certo! Perché ci spetterà pure qualcosa dopo tutto questo.»
«Giusto, sì!»
«Assolutamente.»
Due mesi dopo, i tredici metri e settanta dell’Ellemment Palazzo Superior, camper extra lusso, fecero il loro ingresso a Sant’Adelmo e si fermarono proprio al centro della piazzetta.
Il logo della Futura Humanitas splendeva d’oro sulla fiancata bianco perla.
Gregorio spense il motore e restò un attimo a fissare il vuoto sorridendo.
«Che c’è?» chiese Sergio.
«Procacciatori. Senti come suona bene.»
«Non te lo saresti mai aspettato, eh?»
«Sì, invece. In fondo, essere dalla stessa parte conviene a tutti» disse. «E poi siamo i migliori.»
Si girò verso il retro: «Pronte, ragazze?»
«Un attimo, solo un po’ di profumo» fece Marisa. «Ne vuoi, Teresa?»
Lei sorrise, fece no con la testa e aprì il portellone.
«Aspetta, cara» disse Gregorio. «Ti aiuto a scendere.»
Nella sala capitolare, il sindaco, dottor Antonio Stradella e signora, li attendeva con tutta la giunta comunale tra corbeille di rose bianche e il festoso tintinnio di cristalli e bollicine. E quando li vide andò loro incontro con il più radioso dei sorrisi, seguito da uno scroscio di applausi.
«Benvenuti, è un onore che abbiate scelto proprio i giovani di Sant’Adelmo per un progetto di tale importanza.»
Sergio annuì benevolo, stringendo la mano che quello gli tendeva.
«È stata una scelta difficile, ma ponderata, frutto di selezioni molto severe» disse. «Ma alla fine, la Futura Humanitas ha visto in voi, in tutti voi, l’occasione per dare una svolta epocale alla ricerca medica.»
«E allora, brindiamo!» esultò il sindaco.
«Al futuro!» disse Gregorio alzando il calice.
«Al futuro!» gridarono tutti insieme.