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Lo ricordo come fosse ieri, ma son passati ormai così tanti anni… Quel vecchio, e allora mi pareva assai vecchio, si presentò mite ed affabile alla mia porta. Chiese venia, prima di tutto per non essersi preannunciato, per non avermi chiesto un appuntamento. «Ma non ne ho avuto proprio il modo, vengo da così lontano e per così tanto tempo l’ho cercata…» erano state le sue parole.
Vestito in modo che allora mi parve stravagante, di certo non elegante: maglia a maniche corte di un rosso liso dal tempo e uno strano simbolo ricamato sul petto, grossomodo sopra il cuore. Simbolo che oggi non saprei più descrivere, ma che un noto marchio di abbigliamento sportivo a volte mi ricorda.
Mi porse subito il pacco, avvolto in carta e spago sigillato da un banale piombino bulinato, quindi nient’affatto straordinario.
A parte le sue prime parole, non sono in grado di evocare con precisione quanto mi disse, perché parlava in un modo singolare, cosa di cui era consapevole e per la quale si scusava, e che ho dimenticato, ma che ora ho la sensazione fosse il gergo che oggi usiamo tutti, nel nostro presente.
Ah, se solo avessi capito! Quante domande gli avrei posto! E invece lo lasciai andare, accontentandomi di una spiegazione del tutto insoddisfacente: che il pacco era per me, ma non in quanto me medesimo, bensì per il luogo di cui ero proprietario, questa casa che da generazioni appartiene alla mia famiglia. Provai a domandarne il perché, ma lui mi rispose in modo vago: era prettamente una questione geografica e che proprio lì, dove eravamo in quel momento, nell’ampio salone al pian terreno, avrei dovuto tenere l’oggetto che il pacco conteneva. Conosceva forse mio nonno Arturo, notaio in Modena che nel salone della villa teneva la sua sala di rappresentanza? No, non lo conosceva, né del resto quell’oggetto aveva mai avuto, prima, a che fare con me o miei ascendenti.
Interrompendomi, e di ciò scusandosi in modo più rammaricato di quanto la buona educazione imponesse, mi pregò di aprire l’involto e tirar fuori quel piccolo omaggio solo un po’ dopo che lui se ne fosse andato. C’erano semplici istruzioni d’uso e conservazione all’interno del pacco, non dovevo quindi preoccuparmi di nulla e nient’altro di utile lui poteva aggiungere sulla natura dell’oggetto. Ricordo che fece, inoltre, una breve ma enfatica dissertazione sul fatto che era proprio un omaggio, per il quale nulla dovevo a chicchessia e che, anzi, avrei dovuto essere, io, ripagato per il servizio che avrei svolto in quanto custode dell’oggetto, ma che, pure per una forma adeguata di ricompensa, proprio non si era trovato il modo…
E così, timido e gentile come si era presentato, si congedò da me e dalla mia casa. E mai più lo rividi, né sentii parlare di qualcuno che gli somigliasse.
Ho impiegato anni a comprendere la funzionalità di quell’oggetto, e ancora non ho capito perché sia stato scelto io come custode, e cosa possa, e debba io fare, oggi che in modo così radicale l’Oggetto ha mutato il proprio funzionamento, nonché il suono che di tale funzionamento è assieme principio e natura.
Già: il suono… Quanto mi ha turbato (oggi sono disposto ad ammettere che mi ha anche terrorizzato, e ancora non sapevo a quale più grande terrore sarei stato esposto nel momento in cui avesse smesso di spaventarmi in quella forma).
Quel giorno attesi qualche ora, poi, parendomi trascorso un tempo congruo alla richiesta che lo strano ospite aveva avanzato, tagliai lo spago e aprii l’involto. Conteneva un cubo di materiale che non avevo mai visto prima: bianco, ruvido e stranamente caldo al tatto. Interrotto orizzontalmente a metà da un taglio assiale, che rivelò essere la divisione fra due semi gusci che potei separare facilmente scoprendo all’interno di quella madre perfettamente sagomata sul contenuto, un orologio a pendolo in ottone. Ma era il contenitore che continuava a calamitare la mia attenzione e a strabiliarmi. Ad uno sguardo più attento, nel biancore di quel materiale leggerissimo ne vidi la trama: tante piccole sfere che parevano saldate tra loro. Scoprii successivamente che si trattava di polistirolo espanso. Per molto tempo, in seguito, l’ho creduto “portato dal futuro” dal misterioso ospite di quel giorno. Non era così e queste sono state soltanto suggestioni: sebbene a quel tempo fosse ancora molto di là dall’entrare nell’uso comune, il polistirolo era già stato scoperto almeno un secolo prima, e quell’omino, o chi per lui, aveva potuto, non so come, produrre al tempo della visita che mi fece, quello straordinario involucro usato come conchiglia protettiva per il trasporto dell’orologio.
Rimossi il pendolo dalla matrice che lo conteneva e sotto trovai un piccolo biglietto che in minuscoli caratteri tipografici, riportava:
“Porre e mantenere questo segnatempo in posizione verticale
Azionare il pendolo con una leggera spinta laterale e non tentare mai di fermarlo
Non richiede ricarica
Non richiede messa a punto dell’orario
Ascoltare con attenzione ogni suono che emetterà.”
Null’altro che questo. Allora mi sembrò scritto in modo strano e di nuovo devo ripetere che ciò che a quel tempo pareva bizzarro, oggi suona in modo perfetto… Ma pure queste sono suggestioni e non è più tempo di perdersi in dettagli simili.
Ispezionai l’orologio, che misurava circa trenta centimetri in altezza su una base di venti per dieci centimetri circa. L’aspetto era quello di un normale orologio a pendolo da soprammobile, probabilmente antico ma molto ben tenuto e che pareva, questo sì, perfettamente conforme alle mode del periodo, senza alcun elemento di quella straordinarietà propria di colui che aveva eseguito la consegna, nonché del leggerissimo contenitore bianco. Il pendolo, però, sembrava fuso o battuto in unico foglio, non aveva aperture di sorta, chiavi di ricarica, né parti in movimento oltre al piccolo pendolo sottostante il quadrante bianco in madreperla con guscio in vetro, ore indicate da numeri romani e le due lancette, a forma di picche diversamente allungate, in metallo brunito.
Decisi di seguire alla lettera quelle scarne istruzioni, senza domandarmi altro e da allora il pendolo si trova qui nel salone, sull’ampia mensola che sovrasta il grande camino, oggi dismesso. Mosso delicatamente, il pendolo partì e tutto ciò che si poteva ascoltare era il delicato battere ritmico ad ogni oscillazione. Ricordo in modo distinto che a quel punto mi sembrò di averne abbastanza e rimandai al futuro i tentativi di comprendere, nonché ogni possibile conclusione sopra gli avvenimenti di quel giorno.
In modo del tutto incongruo m’illusi che fosse finita lì, mentre ancora oggi provo l’eco d’un brivido per ciò che udii quella prima notte.
Un rumore sordo, e mi sveglio di soprassalto. Potrei averlo sognato, eppure sento che non è uno dei miei incubi ricorrenti. Tendo l’orecchio mentre mi tocco il volto, e mi pizzico, non fossi anch’io, ora, in forma di uno di quei fantasmi che mi fan visita ogni notte.
Ma posso muovermi, quindi son proprio desto e resto in ascolto, certo che ciò che udirò è reale. Come da un lontano temporale, un rombo cupo e discontinuo giunge e riempie la stanza. Ma non viene da fuori. Mi alzo, vado alla finestra e scosto le tende: la notte è tersa, la luna è quasi piena. Viene da sotto…
Già: quei sogni incomprensibili, che da tempo mi tormentavano… Forse anche loro erano una sorta di profezia. Negli anni qualcosa, vagamente, ho compreso. Alcuni di quei fantasmi li ho riconosciuti, ma troppi mi sono rimasti estranei. Sapere, ed esserne proprio certo, che sono tutte persone realmente esistite, e che il loro pianto, il dolore, lo sgomento incredulo e disperato hanno realmente afflitto anime vive, pesa su di me come una montagna.
Scendo. E si fa strada in me quella frase di chiusura delle istruzioni: “Ascoltare con attenzione ogni suono che emetterà.”
Viene dal salone, quel rombo di cavalli al galoppo? Quel mormorio sordo di temporale lontano? Quella voce roca e diabolica che mi chiama? Sono davanti alla porta del salone: ancora un istante per desiderare di non essere lì, non aver mai abitato questo luogo, non aver mai ricevuto quella visita. Ancora un secondo per sentire un rivolo di sudore scendermi dalla tempia, una morsa che stringe lo stomaco e le membra che tremano. Spalanco la porta. E il suono è lì che m’attende: proviene dal maledetto pendolo che mi attrae a sé e vince il mio impulso a fuggire. È un suono che è ruggito, ma anche rombo, e anche pianto e stridore di denti. C’è tutto il male del mondo in questo suono, che so mai sentito da orecchio umano.
Maledetto vecchio! Cosa nascondevano i tuoi modi gentili! Dove sei? Che cosa hai portato in questa casa?
Io non so perché, non già io, ma proprio questo salone sia stato il luogo dell’Oggetto. Eppure, così è stato e ogni notte, da quella notte, ho atteso nuovi suoni, nuove grida, nuovo pianto. E tuoni, e scoppi, e frastuono di catastrofi, confondendo i miei fantasmi, i miei piccoli fantasmi di uomo da nulla, con i fantasmi del mondo e con le profezie che il mondo attendeva.
Oggi tengo per certo che il Pendolo è lo strumento attraverso cui qualcosa, o Qualcuno, doveva annunciare il destino del mondo, per avvisare gli uomini di guardarsi da tale destino. E io dovevo essere il messaggero di questa profezia.
Ma l’unica cosa che ho saputo fare, fin da subito e per moltissimi anni, è stato appuntare, catalogare minuziosamente, oltre che cercare di comprendere ogni incomprensibile suono. Ho capito che ogni notturno rumore dell'Oggetto era fatto di innumerevoli suoni, che col tempo ho imparato a suddividere, isolando ogni singola fonte. Pianti, risa isteriche, suppliche, rantoli. E bombe, spari, rombi d’aerei in picchiata. E cingoli, e truppe in marcia. Ma anche membra percosse, e lame che penetrano carni, e cuori che di colpo s’arrestano provocando silenzi colmi d’indicibile frastuono.
E qualcosa ho riconosciuto, potendo così dedurre con ragionevole certezza che quell’oggetto sapeva predire il futuro. Il futuro del mondo: una cosa troppo grande per un piccolo uomo come me, ultimo discendente di un’antica famiglia nobile, che desiderava solo vivere una vita appartata, fatta di attento uso delle poche risorse rimastegli, dedicata a poco studio, pace e isolamento dal mondo nell’antica villa di famiglia. Nei dintorni mi chiamano “l’orso”, o “il vecchio decrepito e pazzo”, benché in paese non mi vedano da anni. Ma non m’importa né mai m’è importato.
Perché il grottesco non è l’immagine che qui hanno di me, bensì il fatto che io non abbia capito nulla di utile. Sono solo arrivato a esercitare un tragico potere di riconoscimento postumo di ogni profezia. E in quei suoni notturni, a cadenze apparentemente disordinate, ho riconosciuto, ma solo dopo, stermini, stragi, guerre. Di recente la certezza di aver già udito quei suoni è divenuta totale, allorquando miseri scampoli ho iniziato a riconoscere, perché da qualche decennio è più facile udire il rumore delle catastrofi, riprese in diretta dai mezzi d’informazione. Ora, rumori che io già conosco da tempo accompagnano ogni giorno la cronaca. Da quel pomeriggio dell’undici settembre 2001: mentre le televisioni trasmettevano immagini che paralizzavano il mondo, ciò che stava paralizzando me erano i suoni, che via via riconoscevo. Me li aveva portati, mesi prima, il pendolo! Il maledetto Oggetto che piangeva e urlava; gemeva e ruggiva. Scoppiava, rombava, franava. E nel momento in cui riascoltavo quei suoni in televisione diveniva chiara in tutto il suo orrore la profezia: data, luogo, evento…
Ma non ho imparato subito a interpretare ciò che quel mostruoso Segnatempo annunciava. Mostruoso, eppur grandioso e benevolo, perché doveva pur avere un senso il suo svelare così limpidamente ciò che sarebbe accaduto.
A cosa è servito? – Mi domando. Cosa avrei potuto fare comprendendo in tempo il significato di ogni notturno messaggio? E Chi mandava, qui, tali segnali?
Ultimamente, pur col sonno afflitto quasi tutte le notti dai rombi del salone, mi pareva che quei suoni di guerra e di morte si stessero facendo un po’ più flebili. Guerra è sempre, da tempo immemore, ma, così come ai tempi della Seconda Guerra Mondiale le mie notti di ancor giovane depositario di segreti incomprensibili erano tormentate senza pietà dal fragore continuo e cupo del pendolo, ora, così tanto tempo dopo, mi pareva di poter trarre buoni auspici da suoni che sempre meno parevano tuoni.
Ma poi ho sentito, in modo cristallino, il rumore dei cingoli a Kyiv, e spari, e bombe, e bombe che rispondevano ad altre bombe. Per mesi, poi per anni.
E ancora, tempo dopo, altri spari e scoppi; urla e pianti; fragore di bombe, e altri cingoli, che abbattono case e frollano terre un tempo sacre e che per questo hanno portato uomini a darsi la morte a vicenda, perché in troppi luoghi del mondo la cruda terra viene fatta valere più di tutte le vite che possono abitarla.
Adesso ho imparato a comprendere quella lingua composta da tutti i suoni del dolore e della distruzione, ma non posso fare nulla. Ora so cosa sta per capitare, ma non posso fare nulla. Quando era tempo non ho compreso i segnali che quel Meraviglioso Oggetto propagava. Ora è tardi, troppo tardi. Non c’è più tempo, perché l’orologio si è fermato. Da numerose notti non emette più alcun suono e io so cosa ciò vuol dire.
È un’estate calda, questa del 2024, e la gente del paese parte per le vacanze. Famiglie felici, o che cercano d’esserlo, prendono viaggio, sulle loro macchine senza freni, che inquinano e scaricano lenta morte dalle loro marmitte.
Fanno bene, perché tanto non moriremo avvelenati dai nostri gas di scarico, né dai pesticidi con i quali fertilizziamo i nostri alimenti. Non dagli antibiotici con cui imbottiamo la carne viva di cui ci nutriamo, non dai liquami che sversiamo nei fiumi e nei mari.
L’Orologio ormai tace e la gente parte per le vacanze di questa estate.
L’ultima estate del mondo.