Il debito sotto il sole
Ritornare indietro. Antonio Chirchesu aveva sempre avuto paura di tornare al suo paese, Luggestra, (*) buttato come un mucchio di pietre contorte che si protraevano con indolenza sui fianchi della montagna come una lucertola: Luggestra.
Cercava di non pensarci ma non poteva. Non era un tarlo ipotetico che lo attanagliava ma un vero, seppur tenue rimbombo che sentiva nella sua testa ormai da un paio d'anni. Tamburi lontani, forse lo erano, lo chiamavano, lo chiamavano. Sapeva di cosa si trattava. Sperava di esserne immune, aveva scoperto di non esserlo. Non poteva spiegarlo agli altri.
Aveva guardato con affetto sua moglie, era andato a trovare i figli che abitavano in un altro quartiere della città, si era dimostrato insolitamente affettuoso con tutti e la cosa aveva destato curiosità. Non aveva avuto il coraggio di parlare, sapeva che non avrebbero capito, non gli avrebbero creduto. Il suo ostentato affetto era un ultimo saluto.
Aveva inventato una scusa per tornare a Luggestra, seguire la demolizione della casa dei suoi vecchi, ormai in rovina e pericolante. Sarebbe stato via qualche giorno, poteva permetterselo adesso che era in pensione. Sapeva che la moglie non avrebbe avuto nessuna intenzione di accompagnarlo, era stata una sola volta a Luggestra e si era sentita male a vedere tanta desolazione e isolamento. I figli nemmeno a parlarne e forse era meglio così. Per quello che doveva fare meglio essere soli.
Si era abituato al suono in testa, foriero di una antica sentenza. Aveva scoperto che se pensava nel suo arcaico dialetto, cosa che ormai non faceva più da decenni, il suono dentro la testa pareva assumeva una conformazione diversa, più profonda, come a volerlo rassicurare prima del colpo mortale, come faceva l’Accabadora. (**)
Antonio aveva sorriso amaramente. Sapeva che nessuna medicina, nessuna scienza lo avrebbe mai liberato da quel suono, dal suo significato, dall’adempiersi di questo.
Scese dalla corriera nella piccola piazza di Luggestra, grande come un cortile, con un bar, un tavolo e due sedie fuori sotto un telone a strisce bianche e verdi. Due vecchi bevevano una birra e fumavano il sigaro. Lo guardarono fissi. Gli parve di riconoscerli ed era sicuro che anche loro lo avessero riconosciuto; fece un lieve movimento del capo come saluto, risposero allo stesso modo. Ed era meglio non avviare nessun discorso, non avrebbe giovato a niente, non era una rimpatriata.
Il rumore nella sua testa era appena aumentato d’intensità. Sentiva una vena della tempia pulsare.
Pensò che poteva morire all’improvviso, come era successo a suo padre, ma poi scosse il capo. Si diede un colpetto alla testa, come a rimproverarsi. I due vecchi non staccavano lo sguardo da lui. Antonio li guardò e sorrise annuendo. Loro non sorrisero, rimasero immobili.
La pensione dove andò era davvero povera, ma pulita.
La ragazza che lo accolse sorridente lo scambiò per un escursionista straniero e gli parlò in inglese, ma il sorriso le scomparve quando Antonio le rivolse la parola in dialetto. Poveretta, l’aveva delusa. Le consegnò i documenti ed era sicuro che appena fosse uscito avrebbe chiesto a qualcuno chi mai fosse. Qualcuno glielo avrebbe detto, forse, se superava la paura.
Camminò per le vie del paese che erano cambiate, ora al posto della polvere c’erano via acciottolate e asfalto. Molte case nella via principale erano palesemente abbandonate e in rovina. Arrivò in piazza di chiesa e si calò in una via piccola e scura, circondata da muretti a secco. Arrivò a un cancello di legno a pezzi, chiuso da un lucchetto arrugginito. Scavalcò a fatica dei detriti e si ritrovò in un cortile circondato dalle mura cadenti di una costruzione a due piani, dalle porte e finestre in legno sventrate e penzolanti. Era tornato a casa. In quello che da bambino gli era sembrata una piazza, dove entrava e usciva tanta gente e suo padre con il carro aggiogato ai buoi, ora a stento si muoveva per i calcinacci sparsi a ogni passo, travi di legno marce invase da erbacce di ogni tipo che avevano proliferato e invaso tutto negli anni.
Qualcuno lo osservava. In un angolo vicino alle rovine della stalla una donna vecchia, alta, imponente, vestita di nero. Per un po’ finse di non vederla, poi si girò all’improvviso, la donna si avvolse i lembi del fazzoletto intorno alla bocca, chinò riluttante lo sguardo e se ne andò.
Il giorno dopo Antonio ritornò.
Rivide la vecchia. Sembrava aspettarlo.
─ So chi sei ─ disse la donna.
─ Anche io so chi siete, zia Antrioca.
─ Sei Antonio Chirchesu, figlio di Ignazio.
Antonio annuì. In quel momento il lieve martellamento nel suo cervello diminuì. Si portò una mano alla testa.
─ Anche il mio Pascale lo sentiva ─ disse la vecchia.
─ Dov’è?
─ È morto.
─ Mi dispiace. I vostri figli?
─ Stanno bene. Grazie a lui. Sai perché.
─ Gli altri? ─ chiese Antonio.
─ Tutti i discendenti di quel gruppo di scomunicati hanno pagato. E altri ─ aggiunse con uno sguardo cupo ─ sono tornati a saldare il loro debito.
─ Sì. Io sono tornato. Sono stato chiamato.
─ Doveva succedere.
─ Doveva. Chi non è morto come sta?
─ Era meglio se moriva per come è diventato. Non andare a trovarli, non saresti benvenuto.
─ Lo so. Non ci vado, chiedevo. Manco da molto.
─ Credevi che la scomunica non ti avrebbe trovato se te ne andavi?
─ No. Volevo provare a essere felice.
─ Difficile. Ho saputo che hai moglie, figli.
─ Sì.
─ Tu hai il sangue di chi ha agito male a suo tempo, la scomunica cadrà anche sui tuoi figli. Che lo sappiano o meno.
─ Farò come ha fatto zio Pascale. Scioglierò la mia scomunica e loro saranno liberi.
Zia Antrioca annuì sorridendo con tristezza. ─ Il mio Pascale aveva coraggio e voleva il nostro bene. Anche tu sei come lui. Devi sapere che ti ammiro.
─ Spero di essere coraggioso come lui.
─ Devi andare da prete Gadoni.
─ Allora prete Gadoni è ancora vivo?
─ Ha passato cento anni da poco. Vive nel suo palazzo e ogni giorno recita il rosario dal balcone, guardando a valle il sole che sorge sul mare.
Antonio si recò nel palazzo di prete Gadoni, che chiamarlo palazzo era eccessivo. Una delle più vecchie e rovinate case di Luggestra, con un piano rialzato e balconi barocchi di ferro arrugginito.
La sua vecchia perpetua, zia Dionigia, che lo accudiva da una vita, sembrava spaventata a vedersi davanti un estraneo. Si rassicurò sentendolo parlare in dialetto e saputo che era Antonio capì tutto il resto.
Lo annunciò al vecchio prete che stava seduto come un patriarca su una poltrona con un bastone in mano, immobile come una statua. La perpetua gli sussurrò qualcosa all’orecchio. Antonio percepì che diceva il suo nome. Don Gadoni lo guardò a fatica, annuì. La perpetua uscì. I due si fissarono in faccia in silenzio.
─ Quel mio predecessore… ha lasciato il segno ─ disse don Gadoni con voce triste. ─ Perché vieni da me, Antonio Chirchesu?
─ Perché sciogliate la scomunica di quel prete prima di voi.
Don Gadoni annuì. ─ Sono passati solo centocinquanta anni. Non sono passate sette generazioni. Perché pensi che io lo farò?
─ Quello che un prete lega in terra viene legato in cielo. Quello che un prete scioglie in terra viene sciolto in cielo.
Don Gadoni annuì un'altra volta, pensieroso. ─ Sei disposto alle conseguenze?
─ Purché i miei figli non paghino anche loro.
─ Non pagheranno. Pagherai tu. Sei disposto?
─ Si, prete Gadoni.
Non fu facile convincere il giovane prete della chiesa a cedere momentaneamente l’altare al vecchio don Gadoni per una preghiera privata, come gli era stato detto da alcune pie donne, fra le quali zia Antrioca e la perpetua zia Dionigia. Ma alla fine lo convinsero.
─ Purché niente venga spostato come l’ultima volta. In particolare il Santissimo, che deve stare in un angolo.
Quando Don Gadoni, Antonio e pochissime anziane donne entrarono in chiesa sprangarono le porte e la prima cosa che fu fatta fu rimettere il Santissimo al suo posto centrale sull’altare, dove era sempre stato da duemila anni. Don Gadoni recitò una preghiera di riparazione e perdono per i tempi e gli uomini moderni che avevano relegato il Santissimo in un angolo, affinché fosse dimenticato e assieme a lui fosse dimenticata la speranza.
Poi indossò la stola viola del dolore e della Morte e cominciò a pregare in ginocchio, rivolto al Santissimo.
Pregava in latino, le donne rispondevano con un mesto sussurro. Antonio stava in ginocchio al suo fianco e non capiva o meglio, capiva, ma non avrebbe saputo tradurre. E non aveva importanza. Per la prima volta dopo più di due anni sentì la mente liberarsi da quel tenue suono insistente dentro la sua testa, qualcosa usciva dal suo petto, come una pietra, un pegno che era stato deposto nel sangue di un suo trisavolo e che lui sapeva di avere dentro. Un pegno che bisognava restituire.
Antonio era felice. I suoi figli non sapevano niente, non avrebbero avuto quel pegno dentro di loro, non avrebbero sentito nessun suono, perché lui aveva deciso di restituire il pegno, offrendo la sua vita pur di salvare i figli da una condanna di cui erano inconsapevoli.
Un giorno avrebbero saputo. Aveva scritto tutto. Non era sicuro che avrebbero capito, ma sperava di si, con il tempo. E forse sarebbero venuti a vivere a Luggestra, l’ultimo paese del mondo. Aveva scritto anche alla moglie. Parole di perdono per non averle spiegato fin dall’inizio della scomunica che pendeva sul suo capo, questa condanna arcaica che lei non avrebbe potuto concepire né comprendere. Antonio chiedeva perdono per il suo egoismo e per aver cercato di illudersi di poter essere felice.
Ora vedeva tanta luce intorno a sé, una bella giornata di sole come quando era bambino e suo padre che entrava con il carro dentro il cortile della loro casa. Anche suo padre aveva sentito il suono nella sua testa, ne era sicuro, ma aveva voluto comunque vivere con quel tormento, pover’uomo, nonostante fosse morto ancora giovane. Non aveva avuto il coraggio di togliersi il pegno dall’anima e lo aveva condannato a farlo lui. Ma Antonio gli voleva ancora più bene per questo. Suo padre e lui, ognuno a suo modo, si erano comunque sacrificati per i loro figli.
Quella scomunica per sette generazioni si era interrotta.
(*) Luggestra. Significa lucertola.
(**) Accabbadora. Significa “colei che finisce”. In una Sardegna arcaica, alcuni riferiscono fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, era una donna che aveva la funzione, tacitamente riconosciuta, di porre fine alle sofferenze di malati terminali su richiesta dei familiari e della stessa persona malata.