Monte Carpegna, agosto 1242
Con il fagotto di stracci tra le mani, il vecchio dentro il tabarro salì il ripido sentiero nella selva e raggiunse il valico.
Esausto, fece una pausa per riprendere il fiato. Girò il capo a destra e a manca: nessuno. Levato il cappuccio, inspirò l’aria fresca del mattino.
Oh, quale sorte meschina! Come confidare nella clemenza del Signore dopo un tale peccato? Ma l’onore della famiglia, e quello di Fulvia, imponevano il sacrificio.
Evitò di proseguire nei campi assolati, dove chiunque avrebbe potuto vederlo.
E, che Domineddio non volesse, riconoscerlo.
Nascosto nell’ombra del tabarro, riprese il cammino. Seguì una traccia di animali nella boscaglia, lungo una gola che conduceva alla sorgente.
La campana della Cella del Monte annunciò la seconda ora.
Era quasi arrivato. Immaginò il domino Pellegrino e i conversi assorti in preghiera.
Il bosco fremeva dei gorgheggi degli uccelli e del fruscio del vento. Presto, doveva fare presto.
«Sono un peccatore, e sconterò il fio con il rimorso in vita, e con l’inferno da morto» mormorò.
Un gorgoglio che pareva un sussurro lo guidò alla fonte.
Ma dove lasciarlo?
Non sull’erba, e neppure tra i massi. Forse, su di un albero, ma sempre accanto alla sorgente, dove qualcuno lo avrebbe trovato.
Un melo! I frutti erano acerbi, ma i conversi, di solito, molto golosi. Deposto a terra il fagotto, provò ad appendersi a un ramo: gli parve robusto, e abbastanza in alto per impedire gli attacchi delle fiere.
Annodò lo straccio più lungo e lasciò il cesto che penzolava come una culla al trave di un solaio.
Con il fagotto di stracci tra le mani, il vecchio dentro il tabarro salì il ripido sentiero nella selva e raggiunse il valico.
Esausto, fece una pausa per riprendere il fiato. Girò il capo a destra e a manca: nessuno. Levato il cappuccio, inspirò l’aria fresca del mattino.
Oh, quale sorte meschina! Come confidare nella clemenza del Signore dopo un tale peccato? Ma l’onore della famiglia, e quello di Fulvia, imponevano il sacrificio.
Evitò di proseguire nei campi assolati, dove chiunque avrebbe potuto vederlo.
E, che Domineddio non volesse, riconoscerlo.
Nascosto nell’ombra del tabarro, riprese il cammino. Seguì una traccia di animali nella boscaglia, lungo una gola che conduceva alla sorgente.
La campana della Cella del Monte annunciò la seconda ora.
Era quasi arrivato. Immaginò il domino Pellegrino e i conversi assorti in preghiera.
Il bosco fremeva dei gorgheggi degli uccelli e del fruscio del vento. Presto, doveva fare presto.
«Sono un peccatore, e sconterò il fio con il rimorso in vita, e con l’inferno da morto» mormorò.
Un gorgoglio che pareva un sussurro lo guidò alla fonte.
Ma dove lasciarlo?
Non sull’erba, e neppure tra i massi. Forse, su di un albero, ma sempre accanto alla sorgente, dove qualcuno lo avrebbe trovato.
Un melo! I frutti erano acerbi, ma i conversi, di solito, molto golosi. Deposto a terra il fagotto, provò ad appendersi a un ramo: gli parve robusto, e abbastanza in alto per impedire gli attacchi delle fiere.
Annodò lo straccio più lungo e lasciò il cesto che penzolava come una culla al trave di un solaio.