[MI184] 54° - Costruttori di Mondi
La scelta - Pt. 13
Le avevo regalato un paio di piantine bonsai adatte a vivere in appartamento, complete di un manuale con indicazioni tecniche per la coltivazione e un piccolo kit di strumenti per la manutenzione.
Non era raro che, quando ero da lei e non facevamo altro, si dedicasse alla cura e alla potatura di quelle minuscole piante.
La osservavo applicarsi con concentrazione a quelle operazioni minuziose: era un’attività che trovava molto gratificante e che, diceva, aveva il potere di rilassarla.
Nella coltivazione di un bonsai, affermava, c’era qualcosa di affine alla disciplina filosofica dello Zen.
“Il bonsai non prevede competizione né destinazione. È un percorso, un viaggio senza meta.” - mi aveva detto, citando il frontespizio del manuale che le avevo regalato.
In effetti, guardarla lavorare pazientemente su quelle piccole piante rilassava anche me. Si affaccendava a potare rametti e foglioline o ad armare i rami con filo metallico e stagnola per modellarne lo sviluppo secondo un disegno che aveva in mente.
In una di quelle sere, tornammo a parlare di quanto era successo in macchina, con il gioco della leva del cambio.
- Allora, con tua moglie quella cosa in macchina hai detto che non l’avete mai fatta, giusto?
- No, una cosa così proprio no.
- Bene. Finalmente abbiamo qualcosa di solo nostro, fatto insieme.
- Ok, è solo nostra, - risposi sorridendo. - Ma perché tieni tanto ad avere un tuo primato nelle cose di sesso che facciamo? È davvero così importante per te? - chiesi, più per fare conversazione che per reale curiosità.
Rimase pensosa per qualche istante, continuando il lavoro su una delle piantine.
Poi rispose: - Perché tu puoi restare con me solo finché riesco a darti cose diverse da quelle che ti dà tua moglie.
La risposta mi sorprese: era più impegnativa di quanto mi aspettassi.
- Ma davvero credi questo? Pensi che stiamo insieme solo perché nel sesso facciamo cose diverse da quelle che faccio con mia moglie?
Non alzò la testa, continuò il suo lavoro mentre parlava.
- Sì, per questo. Anche se dici a te stesso che non è così.
- Oh, Gesù! Adesso sai anche cosa dico a me stesso? - risi.
Sollevò il capo e incrociò il mio sguardo.
- Io ho capito una cosa di te.
- Brava! E cosa?
- Che tu ami tua moglie e con me ci stai solo per il sesso che facciamo, anche se con lei hai già fatto le stesse cose.
- E quindi, per quale motivo, dimmi?
- Perché io sono un diversivo, un modo per fare cose già fatte con un corpo diverso da quello che hai a casa.
- Cioè, starei con te solo per un diversivo? Non ti sembra di esagerare?
- È così. Non ti annoi con me perché sono imprevedibile. Ti do cose che non ti aspetti. Questo ti stimola, ti tiene in tensione.
- Non posso credere che mi reputi così superficiale. Sarei arido, quasi meschino.
- No, sei uguale agli altri uomini. Vi piace illudervi di essere nobili e profondi, ma non potete sfuggire alla vostra natura biologica.
- Caspita, ti sei data alla psicoantropologia maschile? E come avresti capito tutte queste cose di me?
- Da quando mi hai visto spogliarmi alla finestra di casa dei miei e hai cercato il modo di conoscermi.
Quella frase non me l’aspettavo. Rimasi di sasso.
- Ma cosa stai dicendo? Che storia è questa della finestra e di te che ti spogliavi? Di che parli?
Fece una risata sferzante.
- Sai benissimo di che parlo. Vuoi continuare la commedia o, per una volta, possiamo giocare a carte scoperte? Davvero hai creduto che non avessi capito chi eri?
Ero nei guai, con spilli che mi danzavano nel cervello. Uno tsunami di pensieri ansiosi mi vorticava in mente.
- Non so di cosa stai parlando. Chi sarei, secondo te?
Tentavo, o meglio, annaspavo, cercando di arginare l’inarginabile.
- Sei quello della BMW che quella mattina è arrivato sotto casa mia, facendo scappare quel maiale che si masturbava guardandomi alla finestra.
Sapeva tutto. Aveva capito fin dall’inizio.
- Quella era la stessa macchina che vedevo passare nella via oltre la ferrovia e fermarsi davanti alla tua azienda.
- Certo, non sapevo ancora chi fossi, ma quando ti ho sentito al telefono mi è sorto il dubbio. È diventato certezza quando sei venuto a prendermi con la stessa auto al nostro primo appuntamento, per la cioccolata insieme.
Fece una pausa puntandomi lo sguardo con un sorriso di malcelato trionfo.
Non riuscivo a sostenere il suo sguardo. Cercai una sigaretta e me la accesi, con un tremito nervoso mentre tenevo l’accendino. Decisi di controbattere, provando a passare all’attacco.
- Quindi possiamo dire che ti sei presa gioco di me fin dal primo momento. Davvero brava, complimenti.
Fece un sorriso sprezzante.
Perché, tu invece? Con l’invito alla cioccolata, tutto azzimato, profumato ed elegante, e poi la rosa regalata alla fine per fare colpo con la ragazzina, sapendo già cosa avevo fatto alla finestra. Tu saresti quello che ha giocato pulito? - Non le avevo mai visto occhi tanto freddi.
- Ok, va bene. Se vuoi che scopriamo le carte, facciamolo. Raccontami chi era quello della 127 sotto casa tua e perché hai voluto conoscermi.
Posò la piccola tronchesina che usava per potare il bonsai e si sedette di fronte a me, dall’altro lato del tavolo.
- Era uno di cui non sapevo nemmeno il nome. Me ne aveva detto uno, ma di certo era falso. Ero minorenne e lui aveva quasi cinquant’anni, non voleva rischi.
- Come l’hai conosciuto?
- In un cinema, mi ha abbordata lì. Sedeva nel posto accanto al mio. Era un film per adulti; mostravo più anni della mia età e alla cassa non avevano fatto storie. Avevo pagato il biglietto ed ero entrata.
- Ti eri seduta accanto a lui?
- No, era un posto centrale con diverse poltrone vuote, poi sono state occupate e lui si è seduto al mio fianco.
- Come mai sei andata a vedere quel film da sola?
- Ero curiosa, non avevo mai visto un film porno. Non avevo nessuna amica maggiorenne, o che lo sembrasse, con cui andarci.
- Beh, sei stata coraggiosa.
- Quando ero alla cassa mi sentivo mancare, temevo mi avrebbero cacciata, ma non è successo.
- Non ci saranno state molte donne in quella sala.
- Infatti, c’era qualche coppia, ma la maggior parte erano maschi soli. Me l’aspettavo e la cosa mi metteva in imbarazzo. Sembrava che tutti mi fissassero. L’ambiente della sala era opprimente, sapeva di cose sporche. Puzzava di latrina, per la vicinanza dei bagni del locale e di candeggina; era evidente che ogni tanto la passassero sul pavimento, tra le corsie delle poltrone, per eliminare lo sperma lasciato da quelli che si masturbavano guardando il film. Fissavo lo schermo vuoto per non incontrare lo sguardo di nessuno. Poi le luci si sono spente, il film è iniziato e non ci ho più pensato.
Fece una pausa, abbassando lo sguardo, giocherellando con l’anello al dito che le avevo regalato a Natale.
- Ti è piaciuto vedere quelle scene di sesso esplicito? - chiesi, con finto interesse.
- No, quei primi piani a schermo pieno di parti anatomiche – vagine spalancate e peni che le penetravano – non riuscivano a eccitarmi. Era carne senza storia, o sostenuta da una trama puerile, più simile a un documentario ginecologico che a qualcosa di erotico.
- Poi cosa è successo con quel tizio?
- A un certo punto, ha strusciato la sua gamba contro la mia. Vedendo che non dicevo nulla, ha preso coraggio, mi ha messo una mano sul ginocchio e ha risalito lungo la coscia sotto la gonna.
- E tu non hai detto niente?
Ero bloccata, non osavo muovermi. Era la prima volta che un uomo adulto mi toccava.
-Potevi dargli una sberla, insultarlo, dirgli di smettere. Avresti richiamato l’attenzione degli spettatori intorno. Probabilmente si sarebbe alzato e sarebbe uscito dal locale.
- Non l’ho fatto. Mi vergognavo, non volevo che gli altri sapessero cosa stava facendo. Mi sentivo in colpa, come se l’avessi provocato. Volevo alzarmi e andare via, ma mi tremavano le gambe, non avevo la forza di muovermi.
- L’hai lasciato fare?
- Sì. Mi ha scostato le mutandine e mi ha toccata. Sapeva come farlo.
- Poi cos’è accaduto?
Mi ha fatto bagnare e sono venuta. Era la prima volta che qualcuno mi faceva avere un orgasmo.
- Quindi ti è piaciuto?
- No, ma sono venuta lo stesso.
- Come è arrivato fino sotto le tue finestre? Lo hai rivisto?
- Quella sera mi ha aspettata fuori dal cinema. Mi ha detto che gli piacevo molto e mi ha chiesto se avevo piacere di fare due passi per conoscerci.
- Sei andata con lui?
- Sì. Avevo paura, ma ero curiosa di sapere chi fosse. Era gentile, non mi sembrava pericoloso.
- Cosa vi siete detti?
- Poco e niente. Non ci teneva a farmi sapere chi fosse, né io a farmi conoscere da lui. Stava facendosi buio, era inverno. Ci siamo trovati in un vicolo deserto. Lì mi ha baciata e mi ha toccata di nuovo, poi ha tirato fuori il sesso dai pantaloni e mi ha chiesto di prenderglielo in bocca.
- E tu gli hai fatto un pompino lì per strada?
- No. A parte che era un vicolo chiuso tra due fabbriche, senza portoni o finestre, e non passava nessuno. Ho provato a prenderglielo in bocca, ma non l’avevo mai fatto, non sapevo proprio cosa fare. Aveva un sapore strano, salato, odorava di selvatico.
- Lo immagino. A quel tempo non sapevi nemmeno baciare, lo ricordo bene.
- Allora lui mi ha preso la mano e l’ha guidata sul suo sesso per masturbarlo, ma ero maldestra. Non è nemmeno riuscito a venire.
- Capito. Bella esperienza per iniziare col sesso. Poi vi siete rivisti?
- Una sola volta. Voleva portarmi in una soffitta di un amico per scoparmi, ma gli ho detto che non se ne faceva niente. È stata quella volta che gli è venuta l’idea di farmi spogliare alla finestra, mentre lui mi guardava dalla macchina.
- Sì, so cosa faceva. Ma fammi capire: quello che facevi ti piaceva? Non credo che ti saresti prestata a tutto se la cosa non ti piacesse.
- Sì, ma non nel modo che pensi.
- E in che modo, allora?
- Era una questione di potere.
- Potere? Che significa?
Fece una lunga pausa, come se non le fosse facile parlare di quelle cose.
- Avevo scoperto di avere un potere sugli uomini, - riprese. - Di poterli controllare attraverso il desiderio del mio corpo. Era una sensazione nuova che mi gratificava, dava un valore a ciò che ero.
- Quindi, parlando di me, mi staresti controllando?
- Non esattamente. In realtà, è il tuo bisogno di sesso a controllarti, a controllare i tuoi pensieri e il tuo corpo.
- Quindi sarei una specie di malato o drogato di te?
- Non di me, ma del tuo desiderio di me. È come una droga: per mantenere l’effetto, devi sempre aumentare la dose. L’abitudine ne attenua l’effetto, e per conservare il piacere deve rinnovarsi, crescendo d’intensità.
- Mi fai sentire come un drogato o un ossessionato.
Sorrise, ma non era un sorriso di scherno o trionfo, piuttosto di rassegnazione.
- Quando ti ho incontrato e ho capito chi eri, mi sei piaciuto molto. Ma ero troppo giovane e troppo ordinaria per te. Tu eri l’uomo adulto, navigato, il manager di livello. Così ho dovuto aspettare e cambiare per averti. E ti ho avuto col sesso, col mio corpo, - continuò senza pause. - Per averti ho dovuto diventare un’altra, fare sesso con te nei posti più improbabili, usare il profumo che usa tua moglie, averti come un regalo concesso, un lusso che non mi sarei potuta permettere diversamente. Se mi avessi incontrata per strada, se non fossi stata la spudorata che si spogliava a quella finestra, non mi avresti degnata di uno sguardo, perché non ti avrei interessata in nulla.
- Ma se ti piacevo, come dici, perché hai lasciato passare due anni prima di chiamarmi? Sarebbero bastati sei mesi. Mi hai detto che avresti voluto che fossi il primo a fare l’amore con te, ma lo hai fatto con un altro.
Rise, con un fondo amaro.
- Lo sai chi mi ha sverginata?
- No, e non credo mi interessi.
- Non importa, te lo dirò uguale: è stato un cetriolo.
Feci probabilmente un’espressione da idiota. - Stai scherzando, vero?
- No, è così. Mi sono sverginata da sola con un cetriolo comprato al banco della verdura del supermercato sotto casa.
- Dai, non ci credo.
- Credici pure. Ho deciso che, se fossi riuscita a fare l’amore con te, non potevo essere ancora vergine: non ti sarei piaciuta. Così ho cercato un cetriolo di forma adeguata, l’ho rivestito con un preservativo e mi sono penetrata nel bagno di casa. È stato più facile di quanto temessi, non mi ha fatto troppo male, solo qualche traccia di sangue sul preservativo. Sei tu il primo che mi ha scopata.
Non sapevo cosa dire. Tutta la storia mi sembrava incredibile, pur essendo certo che fosse vera.
- Ma spiegami la ragione di questo castello di simulazioni. Perché parlarne solo ora?
- Perché per averti dovevo lasciarti nella convinzione di aver deciso tutto tu. Di essere l’unico artefice della nostra unione, di avermi avuta col tuo fascino, di potermi avere quando vuoi.
- Non è vero, non è mai stato così.
- Smettila. È ancora così, lo sai bene. Tu non mi ami, mi vuoi come un giocattolo, la tua bambola del sesso, che possiedi senza amore. Tu mi vuoi per il sesso, e io devo dartelo senza farti annoiare, altrimenti ti perdo.
- Non è vero, io tengo a te. Le cose che fai per tenermi non sono importanti, ti vorrei uguale.
- Mi vuoi, ma non mi ami.
- Ti voglio bene, e lo sai.
- Certo. Si vuole bene anche al proprio cane. È così, ma l’amore vero è solo per tua moglie. Io posso avere il tuo cazzo, ma non il tuo amore.
- Non è come credi, stai sbagliando.
- Davvero? Ti avevo chiesto un “ti amo”, solo per sentirlo dalla tua voce, anche se non fosse vero. Lo ricordi?
- Certo che lo ricordo.
- Bene. Ricordi quante volte sei riuscito a dirmelo?
- No, non tengo il conto dei miei “ti amo”.
- Te lo dico io: tre volte. Tre volte in quasi due anni. Tutte l’ultima volta che abbiamo scopato in macchina, mentre volevi prendermi il culo.
Ero sconvolto. Non la riconoscevo, sembrava un’altra donna.
Una donna che conosceva di me più di quanto conoscessi io stesso.
(Continua)
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