[CN24] Ritorno a casa - Costruttori di Mondi
La scelta Pt.11
Qualche volta accadeva che, a fine lavoro, all’uscita dall’Istituto di Medicina Legale, Roberta mi chiedesse di darle uno strappo fino a casa dei genitori, per fermarsi a cena da loro.
In quel frangente, non sostavo come un tempo nel parcheggio del supermercato nei pressi di casa loro, ma, provenendo dal cavalcavia di Corso Dante, svoltavo a destra nel controviale di Corso Unione Sovietica e mi arrestavo a pochi metri dall’imbocco della via in cui l’avevo vista per la prima volta alla sua finestra.
Come sempre in quelle situazioni, scendeva dall’auto, girava intorno al retro e si fermava davanti al mio finestrino per darmi l’ultimo bacio di saluto.
Era una cosa che mi faceva sorridere intimamente, un suo vezzo da ragazzina che aveva mantenuto; rispondevo con calore al suo bacio, poi attendevo che scomparisse oltre l’angolo della via, diretta alla casa dei genitori.
Le cose tra noi procedevano regolarmente da quasi due anni.
Nel Natale precedente mi aveva regalato un introvabile Swatch Chrono Roller Ball, un modello assai amato dai collezionisti di quel genere di orologi che, da qualche anno, erano divenuti di moda a livello di massa, ma anche tra i più snob dei consumatori.
Era nato un mercato per il collezionismo e quello che mi aveva donato, in quel momento, veniva venduto al pubblico al costo di centoventimila lire.
Ma, essendo stato prodotto in tiratura limitata, per la sua rarità aveva raggiunto il valore di mezzo milione di lire fra gli appassionati.
Anche i più raffinati manager e professionisti esibivano al polso uno Swatch, dandosi un tono anticonformista, con lo stesso sussiego di chi indossava un costoso Rolex Oyster Perpetual.
In un mio recente viaggio a New York, avevo trovato un punto vendita Swatch al 711 di Fifth Avenue, preso d’assalto da una lunga fila di acquirenti.
Fanatici dell’orologio di plastica attendevano all’ingresso per accaparrarsi qualche nuovo modello uscito in anteprima negli States, ancora non distribuito in Europa.
Era incredibile che un oggetto in plastica, da poche decine di lire, fosse divenuto in breve tempo un oggetto “cult” in un vasto numero di paesi europei e anche oltreoceano.
Tra le altre cose, davanti a quel negozio newyorkese, avevo notato diversi clienti di lingua italiana, lì per vacanza o in viaggio di lavoro come me.
Quel cronometro lo avevo poi portato al polso per diversi anni.
Quando me lo aveva regalato, sul biglietto che accompagnava la confezione, aveva scritto: – Ogni volta che guarderai l’ora, ricorderai che ti amo in ogni secondo della tua vita. – Una frase che mi aveva commosso.
Dal canto mio, avevo ricambiato donandole un anello in oro bianco, assai raffinato, con un importante rubino rosso.
Emozionata, lo aveva messo al dito immediatamente.
– Bellissimo, amore, non dovevi. Grazie davvero – aveva detto. – È un regalo davvero prezioso, una cosa importante. Un anello è un legame, sai? Una promessa per sempre.
Poi mi aveva messo le braccia al collo e mi aveva baciato, traboccante di riconoscenza.
Le nostre cose di diletto, archiviata l’idea del partouze a tre per la sua complicata realizzazione pratica, si erano arricchite di nuove fantasie.
Nuove per lei, poiché erano giochi che avevo largamente sperimentato nella mia vita matrimoniale e che riproponevo a lei, che ne era digiuna.
Si trattava di giochi di ruolo soft-SM, ovvero un sadomaso leggero e privo di reale violenza.
Cose che, a suo tempo, avevano dato un ulteriore pizzico di pepe al mio sesso coniugale.
Il tutto era nato durante un episodio di molti anni prima, nei miei primi cinque anni di matrimonio.
Era un pomeriggio d’estate; ricordavo che mia moglie indossava un corto vestito di garza nero con dei pois color malva, chiuso sul davanti con bottoncini a perla dello stesso colore.
Era decisamente attraente, con una folta chioma bruna, quell’incarnato che la faceva apparire lievemente abbronzata anche in inverno, un viso dall’espressione sensuale che lasciava intuire un temperamento passionale.
Stavo seduto in poltrona nel nostro salotto e lei mi sedeva sulle ginocchia.
Eravamo presi da una discussione accesa, di cui, in verità, non ricordo più l’argomento, ma si trattava di un battibecco, nulla di prossimo a una litigata.
Lei insisteva nel contraddire una cosa che affermavo, facendolo solo per il vezzo di provocarmi, ben conscia di non avere ragione.
A un certo punto, spazientito da quella pantomima, avevo preso, con finta fermezza, a sbottonarle la sequenza dei bottoncini del vestito, mettendole a nudo i seni, privi di reggiseno.
Lei si dimenava, simulando di sottrarsi a quell’atto di prevaricazione.
– Cosa pensi di fare? – aveva detto con tono di sfida, tra il serio e il faceto.
– Di punirti, perché sei una cattiva ragazza – avevo risposto nello stesso tono semiserio.
Poi avevo preso a darle leggere sberle sui seni, colpendo i capezzoli.
Dopo i primi colpi, certamente non dolorosi, i capezzoli si erano eretti e lei aveva cambiato espressione; gli occhi le erano divenuti profondi e liquidi.
– Ti ho fatto male? – le avevo chiesto.
– No. Continua, ti prego – aveva risposto con voce torbida.
Le avevo infilato la mano nelle mutandine, constatando una decisa crescita d’umidità.
Avevamo finito col fare l’amore sul tappeto, prendendoci con una foga d’animali, consci d’aver aperto un nuovo sentiero da esplorare nelle nostre cose intime.
In seguito, ovviamente, non ci eravamo mai addentrati nella variegata paraphernalia del mondo sadomaso: niente catene, staffili, collari in pelle o clamp per capezzoli, solo materiale d’uso comune adattabile ad altro uso e reperibile in casa.
Non è che fossimo esattamente due chierichetti in odor di sagrestia; in passato avevamo già fatto sovente del sesso “movimentato”, cosa che, per altro, presumevo accadesse a ogni coppia.
Si trattava di quello che, per la maggiore o minore intensità impiegata, può rientrare nel cosiddetto “rough sex”, nelle cui pratiche possono entrare elementi di aggressività, dominanza e sottomissione, condivisi da entrambi, che includano atti come sculacciate, tirare i capelli e stimolazioni fisiche più accese rispetto al sesso che normalmente si fa. Così, con Roberta, iniziammo a esplorare qualcosa in questa direzione.
Lei, entusiasta, acquistò in un sexy shop un frustino da dressage con punta in pelle morbida; io procurai alcuni metri di sagola in nylon da vela e due confezioni di mollette da stendere, quelle in legno, più resistenti e anche più ecologiche di quelle in plastica.
I nostri giochi contemplavano che venisse bendata e posta nuda, al centro del letto, con gambe e braccia stese a croce e fermate con la sagola agli angoli del giaciglio.
Il gioco aveva la sua attrattiva nel fatto di sentirsi del tutto esposta alla mia mercé, senza sapere cosa le avrei fatto e dove.
Cosa che richiedeva, ovviamente, grande affiatamento tra noi e totale fiducia.
Iniziavo con prolungate carezze e baci profondi, per portarla a un totale relax e iniziare a far crescere il climax, poi le applicavo una molletta su ogni capezzolo e sollecitavo con lievi colpi di frustino i seni o il sesso, totalmente dischiuso in quella posizione.
Non c’era alcuna violenza reale, solo il turbamento dato da quel gioco insolito.
A ogni colpo di frustino seguiva una vellicazione soave attuata dalla mia lingua e dalle labbra, per creare quello stato di tensione crescente, dove dolore e piacere, condividendo le stesse terminazioni nervose, si fondevano, conducendola alla soglia dell’orgasmo.
Ero assai attento che i nostri giochi fossero improntati alla ricerca accurata di piacere per lei, calibrando ogni mio atto al fine di procurarglielo.
Questo perché, in realtà, del mio piacere m’importava assai poco.
Io, il mio piacere, lo conoscevo e l’avevo esperito in ogni sua possibile variabile; non era di me che m’importava, non del mio godimento, ma del suo.
La mia eccitazione nasceva dalla quantità di piacere che ero in grado di procurarle.
Vederla gioire al di là dei suoi limiti consueti, riuscire ad aprirle nuove e sconosciute strade per giungere all’estasi era il mio compenso più grande.
Quando terminavamo di fare sesso, paghi, con i corpi imperlati di sudore e umori, vedere il suo viso in fiamme e il suo sguardo velato dal torpore per i ripetuti acmi di godimento subiti, mi sentivo invadere da una soddisfazione incontenibile.
Il fatuo orgoglio del maschio, ne ero conscio.
Talvolta, la notte, mi accadeva di rivivere col pensiero i momenti più caldi di quei nostri incontri; allora, acceso, continuavo a rivoltarmi nel letto, incapace di trovare sonno.
Mi tornavano in mente le parole de La peste di Camus che ben illustravano quello stato d’animo d’un amante: “ A quell’ora tutti dormono ed è rassicurante, poiché il grande desiderio di un cuore inquieto è possedere ininterrottamente l’essere amato o poterlo far piombare, quando giunge il tempo dell’assenza, in un sogno senza sogni che abbia fine solo il giorno del ricongiungimento. “
Mi accadeva di trascorrere la notte in una sorta di febbre dei sensi, senza chiudere occhio fino alle prime luci dell’alba.
Allora attendevo che si facessero le cinque e mezza del mattino, poi scivolavo fuori dalle lenzuola, attento a non svegliare mia moglie, facevo una doccia per togliermi la stanchezza della notte in bianco, mi vestivo e alle sei ero in strada in macchina.
Nella prima panetteria che trovavo aperta, acquistavo dei cornetti ripieni di crema, ancora caldi; prima delle sette suonavo al suo campanello di casa.
Mi apriva mezza nuda, intontita di sonno, con l’aria stupita per quella visita tanto insolita a quell’ora; non le davo tempo di dire nulla, le serravo la bocca con un bacio turbinoso.
Finivamo nel suo letto, ancora caldo di lei; il suo corpo aveva l’odore sensuale della notte, il suo sesso gli umori fragranti non soppressi dal detergente intimo; mi saziavo del suo sapore con foga famelica.
Facevamo l’amore per alcune ore, poi, sfiniti, preparavamo due cappuccini e facevamo colazione con le brioches che avevo portato, affamati come belve.
Ridevamo, euforici di quella pazzia che ci consumava, rendendoci, in quei momenti, indifferenti al mondo.
Lei chiamava l’ufficio con una scusa per prendersi la mattinata libera e io facevo l’identica cosa con la mia azienda.
Tornavamo a letto e ci donavamo ancora del piacere, poi fissavamo la sveglia per le dodici del mattino e dormivamo, abbracciati e felici, fino al suo trillo.
(Continua)
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