Il posto vuoto
Il caldo era arrivato presto quell’estate. Gavino stava seduto fuori, al bar di Trudu, la schiena contro il muro scrostato, una gamba piegata sull’altra. Un sorriso storto gli tagliava il volto, più abitudine che allegria. Sopra di lui una tenda a strisce filtrava il sole. Tra le mani una birra ghiacciata.
Le sedie di plastica intrecciata cigolavano sotto i corpi sudati dei ragazzi. Nessuno parlava molto. Il jukebox suonava “La partita di pallone” e “In ginocchio da te”. Le stesse canzoni di sempre.
Gavino ascoltava, gli occhi socchiusi, accentuando una ruga sulla fronte. Al suo fianco, il tabellone dei gelati colorava l’afa: piaceri ghiacciati mescolati all’odore dell’asfalto e al profumo del forno di ziu Padore . Luisa, sua figlia, passava con il cesto del pane in testa, che portava in un negozio vicino. Gavino la guardava passare atteggiandosi, la bottiglia di birra in mano. Luisa aveva delle belle gambe. A volte sorrideva, a volte no.
Aurelio non si faceva vedere da un po’ .
Lui e Gavino erano cresciuti insieme, simili come due noccioli dello stesso frutto. Correvano nelle strade sterrate del paese, giocavano a biglie, lottavano per ridere, rubacchiavano uva e ciliegie dai campi intorno, si lanciavano nel letto asciutto del Riu Mannu a cacciare lucertole, visibili da lontano nel bianco accecante delle pietre di fiume.
Ma poi erano cresciuti. E Luisa, come una fioritura improvvisa, stava facendo la sua scelta silenziosa. Quella scelta sembrava oscillare fra loro due, come una pietra sospesa prima di essere lanciata in un fiume in piena.
Fino a poco tempo prima, anche Aurelio era al bar con loro. Poi non si era più visto. Gavino ancora non se lo perdonava del tutto, anche se non lo avrebbe mai ammesso. Davanti a nessuno. Ma non poteva mentire a se stesso.
Quella mattina, Luisa era passata come al solito con la cesta del pane. E aveva sorriso. Il più bel sorriso del mondo. Ma rivolto ad Aurelio. Che aveva sorriso a sua volta.
Gavino si era pietrificato dalla gelosia. Poi era arrivata la rabbia. Poi l’odio sordo.
Lo aveva affrontato: ─ Dì un po’: ma chi ti credi di essere?
Aurelio era rimasto calmo. Aveva cercato di andarsene, ma qualcuno lo aveva trattenuto. Gavino lo aveva colpito. Più volte. Si era fermato solo quando aveva visto il sangue uscire copioso dal sopracciglio spaccato. Ma non c’era stato onore nel fare questo. Gavino lo capì dagli sguardi degli altri.
Avevano passato la notte in cella di sicurezza, dai carabinieri. Il maresciallo Tarascu li guardò burbero la mattina, dietro i suoi baffoni grigi.
─ Non è la prima volte che al bar di Trudu fate storie, voi e la vostra cricca ─ disse offrendo loro un caffè dalla cucina della caserma. ─ Conosco i vostri genitori. Gente onesta, Sempre al lavoro. Voi sempre al bar. Altre volte ho chiuso un occhio, per rispetto delle vostre famiglie. Se adesso scrivo la denuncia, va avanti. Bisogna mettere un rimedio.
Gavino e Aurelio avevano ascoltato in silenzio.
─ E quale sarebbe il rimedio, maresciallo? ─ sbottò Gavino, con tono sprezzante.
─ Arruolatevi nell’Arma. È l’unico rimedio. Vi do un giorno per pensarci. Ho già preparato i documenti. Se accettate, tornate domani.
Uscirono a capo chino, senza guardarsi. Avrebbero voluto parlarsi, come un tempo, ma ognuno di loro era troppo orgoglioso per farlo. Da quel momento presero due strade diverse.
Si era saputo subito in paese che Aurelio era tornato in caserma e aveva firmato la domanda. Da quel giorno non era più venuto al bar di Trudu.
Poco tempo dopo, una mattina sul tardi, Gavino era seduto al bar, masticando una sigaretta spenta, ridendo per qualche storia che si raccontava. Lo vide alla fermata della corriera, con i genitori e una valigia di cartone.
Nel bar calò il silenzio. I ragazzi guardavano in attesa, come se dovesse accadere qualcosa di straordinario.
Aurelio baciò sua madre, poi suo padre, e salì sulla corriera, sedendosi in fondo.
Mentre il pullman partiva, i ragazzi lo fischiarono — con la crudeltà e la paura degli adolescenti che vedono uno di loro prendere una strada che non capiscono. Nessuno lo salutò. Gavino lo seguì con lo sguardo finché il bus sparì nella polvere gialla della strada, come nel deserto. All’ultimo istante Aurelio si voltò e incrociò il suo sguardo. Gavino lo abbassò. Rimase immobile in un angolo. Per la prima volta, non riuscì a finire la sua birra.
Il giorno dopo salì sulla montagna, da solo. Da lì, sotto il cielo rovente, guardò il paese. Tutto era al suo posto, tranne uno: il posto di Aurelio. Ed era vuoto. Pensò: Se ne è andato davvero. Come una sedia non occupata a una festa. Anche il bar sembrava vuoto, nonostante la solita gente.
Il tempo passava uguale a se stesso: giornate di sole e polvere, chiacchiere stanche, sere in cui non succedeva nulla. Gavino ci stava dentro come in un vestito troppo largo. La sua giovinezza era ancora lì, ma già puzzava di muffa. Luisa passava ancora, ma non si fermava. O forse guardava solo l’assenza.
I mesi passarono in silenzio, come si consumano le scarpe dei poveri.
Venne un’altra primavera. Il bar era sempre lì, immobile, come un cane che aspetta un padrone che non tornerà mai. Gavino masticava una sigaretta spenta, guardava la polvere sollevarsi sotto le ruote della corriera. Poco prima era passata Luisa, col cesto del pane, lo sguardo fisso, le labbra strette.
La corriera si fermò. Ne scesero una donna vestita di nero, un vecchio col bastone. Poi, lo videro tutti: Aurelio.
Era tornato in licenza. Divisa nera da carabiniere, scarpe lucide, una valigia nuova. Camminava dritto. Il volto era il suo, ma più scavato, lo sguardo più vigile.
Il bar di Trudu si fermò per un istante. Il jukebox taceva. Si sentiva il ronzio di una mosca intorno a un bicchiere vuoto sul bancone.
Passò la camionetta dei carabinieri, si fermarono. Gli dissero qualcosa, gli sorrisero. Era uno di loro.
Gavino sentì gli occhi inumidirsi. Non voleva sapere perché. Non si asciugò le lacrime. Si alzò, uscì dal bar. Scosse la testa, sorrise, si schiarì la voce: ─ Aure’…
─ Gavì…
─ Ti sei fatto proprio carabiniere, allora.
Aurelio sorrise. ─ Sì. Ma sono sempre io.
Si abbracciarono.
─ Io invece non sono più lo stesso, Aurè. E forse non ero davvero io, quello di prima.
Si guardarono. Dal bar uscirono gli altri ragazzi e tutti si avvicinarono per abbracciare Aurelio.
Passò Luisa, senza il cesto del pane. Aveva saputo che Aurelio era tornato. Passò lentamente, senza fermarsi. Sorrise verso di loro.
─ Era tutto per te ─ disse Gavino all’amico ritrovato. ─ Te lo meriti. È giusto così. Mi raccomando: chiamami come testimone quando farete il matrimonio.
I due si riabbracciarono ancora, tra l’allegria di tutti.
Quella notte Gavino tornò sulla montagna. Un posto che conosceva bene. L’ albero secco, le pietre calde di sole. Si sedette e guardò le luci in basso. Il bar, il forno, la strada.
Pensò a com’erano stati. A com’era adesso.
Aurelio era tornato, ma non era più uno di loro.
Si accese una sigaretta. Restò lì finché non arrivò il primo vento freddo. Poi si alzò. Tornando indietro, guardò la strada. Era la stessa. Ma lui, forse, non era più del tutto lo stesso.