Il tramonto dell'Occidente, di Oswald Spengler

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Io non ho ancora letto quest'opera di Spengler... anche perché è "bella tosta", circa 1500 pagine :D ma in ogni caso qualcuno di voi l'ha letta? Se qualcuno l'ha letta potrebbe esprimere un commento a tal proposito in questo topic? Fare una specie di introduzione a questa grande... opera; per chi come me non l'ha ancora letta, ma ne è interessato diciamo.
Comunque mi piacerebbe che questa discussione fosse anche una discussione sull'Occidente in generale; ossia: l'Occidente, ai giorni nostri, sta tramontando? Sono in crisi i valori dell'Occidente... cristiani o meno? Sta avvenendo, come dicono, un'islamizzazione dell'Occidente? Cosa ne pensate? Grazie :)         
Forse, a mio modesto parere, l'Occidente ha toccato "l'apice della disfatta", se si può dire così, il massimo della sua decadenza, nella seconda guerra mondiale; comunque ho trovato una frase molto interessante al riguardo su Wikipedia, che dice così:

"Quello che teme Spengler, oltre alla crisi della spiritualità e della religiosità, sono le nuove forme politiche nascenti, come la democrazia e il socialismo, che alterano i rapporti "naturali", o piuttosto tradizionali, di potere."





P.S. Forse la discussione va in Agorà, non lo so; nel caso, chi di dovere provvederà a spostarla :D              
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"Quando sogno io non ho più corpo, volto né pensiero; quando sogno volo via leggero sopra a tutti voi e torno uomo."
Enrico Ruggeri, Diverso dagli altri

Re: Il tramonto dell'Occidente, di Oswald Spengler

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Letturina leggera eh? :D

Non posso esserti di molto aiuto: ho provato a iniziarlo (avevo trovato un'edizione in offerta su Kindle, tempo fa), ma non sono andato oltre l'introduzione e un centinaio di pagine: testo troppo speculativo per i miei gusti.

Sono un amante della Storia, ma non della Filosofia della Storia.
Io sono più empirico, preferisco un approccio "bottom-up", per usare un inglesismo di moda. Non cerco di trovare un significato teleologico nella successione degli eventi, perché non credo ce ne sia uno. Semplicemente mi interessa studiarne l'evoluzione.

Il tramonto dell'Occidente cerca di dare una visione "top-down" della Storia, proponendo modelli e possibili significati.
Si nota tantissimo il contesto in cui è stato scritto (durante la Prima Guerra Mondiale o giù di lì, se non ricordo male). C'è un pessimismo di fondo evidente già fin dalle prime pagine.
Ho inoltre un ricordo confuso di un mix di "concetti ancora validi" e "concetti invecchiati male", nel senso che parevano già datati e figli di quella precisa epoca, ma la mia memoria fa cilecca e il fatto che il testo non fosse propriamente chiarissimo (per me) non aiuta.

Mi spiace di non poterti aiutare di più.
Se ti piace costruire ipotesi e modelli sull'evoluzione della civiltà può essere una lettura interessante. Ma, a mio parere, non è un "libro della buonanotte" da tenere sul comodino. :asd:
Va letto con attenzione, e probabilmente studiato, per essere capito. Io non ce l'ho fatta e l'ho mollato.

Re: Il tramonto dell'Occidente, di Oswald Spengler

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Il tramonto dell'Occidente è uno di quei libri che tutti citano ma che nessuno ha letto, vista la mole del suddetto. E' uno dei testi fondamentali della cosiddetta Rivoluzione conservatrice europea (i cui esponenti principali furono Martin Heidegger, Ernst Junger, Carl Schmitt e l'italiano Julius Evola), dalla quale si svilupparono gli embrioni del fascismo e del nazismo. Il nume tutelare di tutto ciò fu, ovviamente, Friedrich Nietzsche con il suo peculiare disprezzo per il mondo moderno che considerava decadente e corrotto (se qualcuno sta pensando a Putin, ha perfettamente ragione).
Uno dei concetti fondamentali espressi da Spengler è il fatto che le civiltà non seguono un percorso lineare e progressivo (teoria che ritroviamo nel positivismo, nello scientismo, e nella visione escatologica del cristianesimo cattolico), bensì uno sviluppo circolare e ciclico (l'eterno ritorno dell'eguale di nicciana memoria), attraverso il quale si passa da un'iniziale età dell'oro a un'inevitabile decadenza, e così via per l'eternità.
Durante i famigerati anni di piombo, chi si fosse avventurato a chiedere in prestito tale testo in una biblioteca sarebbe stato automaticamente schedato dalla Digos. In seguito, Roberto Calasso sdoganò gli autori della rivoluzione conservatrice (compreso il nazi-chic René Guénon), inserendoli nel catalogo Adelphi. E' curioso notare la coincidenza che ha portato, in anni recenti, Il tramonto dell'Occidente a divenire un feticcio di Aleksandr Dugin, ideologo di Putin, nonché di Steve Bannon, sulfureo maitre à penser di Donald Trump: curioso, no? E' toujours l'eterno ritorno dell'eguale.
A ogni modo, ci sarebbero ancora milioni di cose da dire sull'argomento.

Re: Il tramonto dell'Occidente, di Oswald Spengler

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Il libro non l'ho letto, però visto che ti interessa anche:
Daniel P. wrote: una discussione sull'Occidente in generale; ossia: l'Occidente, ai giorni nostri, sta tramontando?
secondo me l'Occidente, con tutti i suoi limiti e difetti, è ancora la parte di mondo in cui si vive meglio, sia dal punto di vista materiale che da quello dei diritti, e la prova è che la grande maggioranza dei flussi migratori avviene verso l'Europa occidentale e il Nord America. 
Quando vedremo barconi carichi di svedesi, francesi, tedeschi e canadesi che cercheranno di sbarcare in Africa, Cina, India e Russia, vorrà dire che l'Occidente è tramontato, ma mi sembra un giorno ancora lontano.

L'Eterno Ritorno mi è sempre sembrato un'idea forse suggestiva ma senza alcun fondamento: non sono mai esistite età dell'oro, né corsi e ricorsi, questa visione della Storia un po' da giostrina, che fa un giro e poi ricomincia uguale da capo è davvero assai poco convincente. 
La Storia, se proprio vogliamo trovare una metafora, sembra più una salita faticosa, con tratti ripidi, spianate, contropendenze, ma una direzione sembra averla, (poi chi lo sa, eh...)
Emiliano S. wrote: compreso il nazi-chic René Guénon)
Di Guenon invece mi è capitato di leggere "Il Re del Mondo" (confesso che lo lessi per curiosità, per la canzone omonima di Battiato). Per poterne dare un giudizio con cognizione di causa bisognerebbe conoscere almeno cinque o sei lingue morte (sanscrito, aramaico, ebraico, persiano antico, greco antico, etc.) perché le sue affermazioni derivano (deriverebbero) da uno studio comparato degli antichi testi sacri di vari popoli, che andrebbe verificato nelle rispettive lingue originali. 
Insomma alla fine del libro si rimane con l'interrogativo: serio studio sincretistico o fantasioso guazzabuglio? L'impressione personale è la seconda.

Re: Il tramonto dell'Occidente, di Oswald Spengler

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Emiliano S. wrote: Rivoluzione conservatrice europea (i cui esponenti principali furono Martin Heidegger, Ernst Junger, Carl Schmitt e l'italiano Julius Evola), dalla quale si svilupparono gli embrioni del fascismo e del nazismo.
Interessante. Se hai voglia Emiliano S., spiegami ancora meglio questo punto. Grazie.
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Re: Il tramonto dell'Occidente, di Oswald Spengler

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La Rivoluzione conservatrice nasce sulle ceneri fumanti della Prima guerra mondiale in seguito alla quale crollano gli Imperi centrali, e la Russia zarista viene travolta dalle orde bolsceviche. E' la fine del mondo tradizionale, con le sue monarchie d'ascendenza divina e le società gerarchiche dominate dalle caste guerriere e sacerdotali; in effetti, è il compimento di Kali Yuga (l'età nera degli Hindù), cominciata con la pace di Westfalia, e perpetratasi con la Rivoluzione francese che ha determinato l'avvento dello stato borghese e della deriva industriale.
Scrittori sofisticati come Ernst Junger o dadaisti filosofi come Julius Evola, forgiatisi nelle tempeste d'acciaio della Grande guerra, divengono animatori di un cenacolo controrivoluzionario (il cui padre nobile è il reazionario ultracattolico Joseph de Maistre) che cerca di risvegliare lo spirito europeo tradizionale per ripristinare il cosmos originario in contrapposizione al caos ctonio causato dalla massa informe del Terzo e del Quarto stato.
A tale controrivoluzione, che si sviluppa in ambienti germanofoni, aderiscono romanzieri come Thomas Mann, filosofi come Martin Heidegger (atterrito dall'angoscioso mistero dell'epoché dell'Essere, nonché ossessionato dal ritorno alla luminosità della Grecia classica), o giuristi come Carl Schmitt (spregiatore delle democrazie e acerrimo avversario di Hans Kelsen, teorico della Repubblica di Weimar).
Spengler si inserisce in questo milieu culturale a cui contribuisce con la sua monumentale opera Il tramonto dell'Occidente che ripercorre l'ascesa e la caduta ciclica di svariate civiltà; inoltre, introduce i concetti di Kultur (ossia il patrimonio artistico-culturale delle società tradizionali, connotato da una profondità metafisica ormai perduta) e di Zivilisation (ovvero il sapere tecnico-scientifico che caratterizza le società moderne e che possiede una mera valenza quantitativa e fenomenica). Tali questioni sono riprese e sviluppate, in contesti sapienziali e fondamentalmente esoterici, dal francese René Guénon e dall'italiano Julius Evola che, pur non riscuotendo grande credito in contesti italici, è di casa presso l'Herrenklub di Berlino.

Re: Il tramonto dell'Occidente, di Oswald Spengler

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Io preferisco la visione dell'antropologia culturale, molto più abbordabile per un lettore aspecifico e tuttavia perfettamente calate nella nostra contemporaneità con una visione oggettiva rara da trovare. Jared Diamond per iniziare e l'imperdibile trilogia di Harari, molto ma molto interessante anche come spunti per ucronie e distopie varie...

Re: Il tramonto dell'Occidente, di Oswald Spengler

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@Emiliano S.
La Digos nasce solo nel 1978, alla fine degli anni di piombo.  Prima in Polizia c'erano i famigerati Uffici Politici a occuparsi di terrorismo ed eversione.  
Ma dio buonino, associare Martine Heidegger a Spengler o a Evola significa NON aver mai letto un rigo di Heidegger. La critica politica di Heidegger è rivolta contro la società della tecnica e il Tramonto dell'Occidente nel pensiero di Heidegger è legato all'aver l'Occidente, lungo la sua storia millenaria, di volta in volta rinnegato l'Essere per abbracciare l'Ente. Ogni forma di conoscenza o struttura di pensiero creata della tradizione occidentale a partire dal Mito passando dalla filosofia platonica al cristianesimo per finire con la Scienza Moderna (soprattutto con lei) rinnega l'Essere per identificarsi con l'Ente, abbracciare l'Ente. La visione di Heidegger è intimamente filosofica, esistenziale e non metafisica, e poi storica.
Non trasformiamo il più geniale e originale pensatore del Novecento e forse della Storia umana in una macchietta imbevuta di nazionalsocialismo in formato wikipedia che discorre della cecità dell'Occidente con concetti da talk show. 
La profondità e vastità del pensiero di Heidegger è paragonabile a quella di Platone, basta prendersi in mano uno dei suoi scritti.  

Re: Il tramonto dell'Occidente, di Oswald Spengler

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Gaetano Intile wrote: @Emiliano S.
La Digos nasce solo nel 1978, alla fine degli anni di piombo.  Prima in Polizia c'erano i famigerati Uffici Politici a occuparsi di terrorismo ed eversione.  
Ma dio buonino, associare Martine Heidegger a Spengler o a Evola significa NON aver mai letto un rigo di Heidegger. La critica politica di Heidegger è rivolta contro la società della tecnica e il Tramonto dell'Occidente nel pensiero di Heidegger è legato all'aver l'Occidente, lungo la sua storia millenaria, di volta in volta rinnegato l'Essere per abbracciare l'Ente. Ogni forma di conoscenza o struttura di pensiero creata della tradizione occidentale a partire dal Mito passando dalla filosofia platonica al cristianesimo per finire con la Scienza Moderna (soprattutto con lei) rinnega l'Essere per identificarsi con l'Ente, abbracciare l'Ente. La visione di Heidegger è intimamente filosofica, esistenziale e non metafisica, e poi storica.
Non trasformiamo il più geniale e originale pensatore del Novecento e forse della Storia umana in una macchietta imbevuta di nazionalsocialismo in formato wikipedia che discorre della cecità dell'Occidente con concetti da talk show. 
La profondità e vastità del pensiero di Heidegger è paragonabile a quella di Platone, basta prendersi in mano uno dei suoi scritti.  
Perdona l'ignoranza; ma con "Ente" cosa intendi?
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Re: Il tramonto dell'Occidente, di Oswald Spengler

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Ente è ciò che è, e che per questo Esser-ci possiede l'Essere, ma non è l'Essere. Ente è l'uomo e tutte le cose, dalla sedia alle cellule agli atomi alle galassie. L'universo è un Ente o una molteplicità di Enti. 

Re: Il tramonto dell'Occidente, di Oswald Spengler

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Gaetano Intile wrote: Ente è ciò che è, e che per questo Esser-ci possiede l'Essere, ma non è l'Essere. Ente è l'uomo e tutte le cose, dalla sedia alle cellule agli atomi alle galassie. L'universo è un Ente o una molteplicità di Enti. 
Quindi possiamo dire che l'Ente è ogni elemento della natura?
Ma nella tua frase "rinnega l'Essere per identificarsi con l'Ente" c'entra Dio? Cioè "per identificarsi con Dio"? Scusa se sto andando fuori strada... :D  :hm:
E perché la visione di Heidegger è filosofica, esistenziale, poi storica, ma non metafisica?


Questi discorsi mi interessano :D  :P
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Re: Il tramonto dell'Occidente, di Oswald Spengler

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Gaetano Intile wrote: @Daniel P. 
E come mai questo interesse per la filosofia?
Non lo so, perché mi piace :D perché rimango affascinato da certe frasi... :)  perché credo che fare filosofia aiuti a vivere meglio... e credo anche perché stimoli il cervello...  :D  :P  :)                     

Il primo libro di filosofia/psicologia che lessi fu La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica di Umberto Galimberti.
Hai mai letto qualche suo libro?


Però non mi hai risposto al quesito che ti avevo posto prima :(                                  
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Re: Il tramonto dell'Occidente, di Oswald Spengler

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@Daniel P. 
Ciao, ti rispondo subito.
Allora, Galimberti certo lo conosco, di suo ho letto Il tramonto dell'Occidente nella lettura di Heidegger e di Jaspers, Psichiatria e fenomenologia, che poi è la sua unica opera originale, Psiche e Techne, e Il Corpo, che insieme a Psichiatria e fenomenologia è secondo me l'opera più interessante e tra loro sono un po' legate. Ah, meno di un mese fa ho assistito a una sua conferenza dal vivo, era a dieci metri da me, certo non è un ragazzino ma è ancora lucidissimo. Ho assistito anche a una conferenza di Emanuele Severino, saranno mille anni fa. Ma lui era davvero di un altro pianeta, oltre il sublime. L'ultimo grande filosofo italiano con Bontempelli. 
Galimberti mi ha spinto ha esplorare la psichiatria, ho scoperto Eugenio Borgna ad esempio, che è uno psichiatra e un saggista favoloso. 
Quanto al quesito provo ad allargare il campo e ti offro qualche elemento in più.
Il linguaggio filosofico è ormai un illustre sconosciuto, relegato alle università o a qualche aula di liceo. Ma forse è sempre stato così. Quindi per iniziare a guardare la realtà attraverso le lenti della filosofia ci si deve appropriare almeno di tre termini e dei relativi concetti che esprimono, anzi quattro, che sono fondamentali e servono da passepartout.
I tre termini sono: Empirico, Trascendente e Trascendentale. E in realtà il mondo moderno ne ha imposto un quarto: il Nichilismo, su cui tornerò alla fine.
L'Empirico non è altro se non il contenuto dell'esperienza percettiva, che quindi ha sempre una particolare posizione rispetto alle coordinate del tempo e dello spazio.
Passo agli esempi... Io ho dei fruttuosissimi alberi di cachi nel mio giardino: gli alberi sono oggetti empirici, perché possono essere visti e toccati posizionandosi in un determinato luogo dello spazio, quello appunto dove si trova il giardino, e in un determinato periodo di tempo, quello durante il quale i detti alberi esistono. Allo stesso modo, un sentimento provato in una qualsiasi circostanza è empirico, perché avvertito da una percezione della propria interiorità vissuta in un determinato momento del tempo. Di conseguenza un concetto è empirico quando la sua formulazione astratta rinvia, anche tramite altre astrazioni, a un elemento percettivo. Considera dunque, il concetto di empirico come legato alle nostre percezioni, ai nostri sensi e all'estensione di essi.
Ci aggiungo che le tre nozioni di empirico, trascendente e trascendentale devono essere comprese nella loro articolazione unitaria perché ciascuna di esse possa venir compresa nella sua specificità. Ciascuna di queste tre nozioni, cioè, può essere compresa in se stessa soltanto all’interno di una comprensione della sua intrinseca relazione con la totalità formata da essa e dalle altre.
L’empirico, infatti, se inteso empiricamente, non mostra di che cosa consista la sua empiricità, non si rende comprensibile come tale. L’empirico, cioè, può essere compreso come empirico soltanto in maniera non empirica. Come appare l’empirico, infatti, se viene inteso esclusivamente attraverso la sua empiricità? Appare come dato immediato della coscienza. Consideriamo un qualsiasi oggetto empirico, ad esempio i cachi del mio giardino. Essi sembrano dati alla percezione: in condizioni ambientali normali, una persona dotate di normali facoltà percettive che si trovi nel mio giardino al cui interno crescono i miei cachi, e guardi nel posto dove essi si trovano, non può che vederli, e non può far agire la sua vista in modo da percepire, al loro posto, nello stesso luogo spaziale, una melograno o degli albicocchi. Esso sembra costituito nell’immediatezza: chi li vede nel giardino, li riconosce come alberi nel momento stesso in cui li vede, e li riconosce come cachi non appena vede penderne i loti, i frutti, dai rami.
Ciò che è empirico viene chiamato anche fatto. Questo termine, benché sia usato come sinonimo di dato, ha una portata semantica più appropriata alla realtà di ciò a cui è riferito: in quanto participio passato del verbo fare, indica non una datità (cioè il modo in cui un oggetto si rivela alla conoscenza), ma il risultato di una costruzione della prassi. Il fatto, cioè, è fatto dalla storia, sotto un duplice aspetto: la storia ne produce il contenuto, e dalla storia derivano le costellazioni mentali in riferimento alle quali le percezioni ne ritagliano la configurazione dai suoi sfondi. Il mio albero infatti è stato portato dall'Asia qualche secolo addietro, quando le condizioni socio economiche europee hanno consentito l'aprirsi di commerci da e verso l'Estremo Oriente. L'albero stesso è frutto di migliaia di anni di ibridazioni che da una forma selvatico l'hanno portato a essere addomesticato e ad essere quel che è. Quindi il mio albero presuppone una determinata concatenazione di fatti storici.
La storia, d’altra parte, sgorga dall’antropologia e vi si inscrive. È anche vero che l’antropologia è plasmata dalla storia e vi si inscrive. Questi due lati debbono essere contemporaneamente ammessi. L’uomo vive immerso nei fatti storici, ed è lui stesso un fatto storico. È anche il fare da cui i fatti, e lui stesso come fatto, sono fatti. L’empirico è il prodotto di questa dialettica antropologica. Al di fuori di essa, e di una appropriata comprensione di essa, l’empirico non si rende intellegibile nel suo spessore di realtà, la realtà che non empiricamente lo ha generato, e mostra soltanto la sua superficie percettivamente rilevabile. Questa superficie, proprio perché astratta dalla realtà di cui è l’ultima manifestazione, appare come datità. Assumerla come tale è la scelta originaria di ogni empirismo, una scelta che tuttavia non è empiristica, bensì metafisica. La scelta di prendere il fatto come dato di fatto non è un dato di fatto, ma è appunto uno scegliere, un fare, un oltrepassare la datità. La scelta metafisica dell’empirismo è di fare del fatto un dato, passivizzando rispetto ad esso il pensiero e la comprensione. Spero di esser stato chiaro.
Quanto al Trascendente, esso è invece ciò che trascende la dimensione spazio-temporale del mondo empirico, vale a dire ciò che sussiste oltre di esso. È dunque l’aldilà non raggiungibile, neppure in linea di principio, lungo la sequenza delle concatenazioni fattuali. La trascendenza così intesa è, sul piano logico, una contraddizione in termini. Il problema se la trascendenza esista o meno secondo la sua pura definizione, quindi, non si pone neppure. Una questione di fatto sull’esistenza o sulla non esistenza si pone infatti per tutto ciò la cui esistenza non sia incompatibile con la logica del linguaggio, È ad esempio molto improbabile che esista sul nostro attuale pianeta una città in cui durante lo scorso anno non sia stato commesso neppure un reato. Si potrebbe tuttavia ricercare se per caso esista, perché la definizione di città e la definizione di rispetto della legge penale non sono incompatibili. Non si potrebbe invece nemmeno cercare, senza cadere nell’assurdo, un triangolo quadrato. Ma la trascendenza è come un triangolo quadrato, che se è quadrato non è più triangolo e viceversa. Trascendenza è infatti ciò che è aldilà o al di fuori di ogni spazio. Ma queste espressioni sono contraddittorie, perché “aldilà” e “ al di fuori” sono determinazioni spaziali, e hanno senso solo se riferite a entità nello spazio. Si può essere “al di fuori di questa stanza”, “al di là del sistema solare”, non si può essere “al di là dello spazio”. Analogo discorso per ciò che è “al di là del tempo”. D’altra parte se la trascendenza non è “al di là dello spazio (e del tempo)” non è più trascendenza ma immanenza. La trascendenza è in ogni caso inconcepibile, se la si concepisce diventa immanente. Come ha potuto essere allora il trascendente concepito lungo tutta la storia umana fino ad oggi? Si è riusciti a pensare il trascendente solo perché lo si è concepito non in modo trascendente, che sarebbe impossibile, ma in modo empirico. Nella misura in cui è stato pensato, il trascendente è stato pensato come iperuranio o paradiso o aldilà o olimpo, cioè come un sovramondo, immagine trasfigurata del mondo sensibile, una specie di attico nobile del grande palazzo dell’empirico. Il trascendente, in altri termini, non può essere posto che come raddoppiamento idealizzato dell’empirico, come un empirico del piano di sopra privo dei difetti dell’empirico del piano terra della nostra fattuale esperienza. Lo sapeva Platone quando, nel Parmenide (il suo dialogo destinato, a differenza degli altri, più ai dotti che alla divulgazione), mostra come le idee poste in modo trascendente vengano necessariamente o rese inintellegibili o rese intellegibili solo in modo empirico. Lo sapeva Hegel quando, nella sua Fenomenologia dello Spirito, mostra come la coscienza scettica, che non crede in nulla che non sia una particolarità empirica, e la coscienza duplicata, che crede nell’intrasmutabile, siano ciascuna l’altra faccia dell’altra, e si generino l’una dall’altra. Tiro una parentesi: per chi è abituato alle ricostruzioni usualmente adoperate della storia della filosofia, che attribuiscono a Platone la trascendenza delle idee e ad Hegel la logicizzazione della storia, le cose appena dette appariranno straordinarie. Per sincerarsi che sono vere, però, basta leggere i testi di Platone e di Hegel a cui ho fatto riferimento. D’altra parte, il fatto che appaia generalmente incredibile un Platone negatore della trascendenza delle idee, così come un Hegel negatore del panlogismo dei fatti, non è che un aspetto della scomparsa della conoscenza filosofica. Chiusa parentesi. Il trascendente, dunque, non è mai davvero concepito secondo la sua definizione linguistica, che è come tale inconcepibile, ma è sempre concepito come un altro empirico sovrastante il nostro empirico. Questo sovraempirico è riempito di esigenze antropologiche, sia ontologiche che psicologiche, storicamente non legittimabili su base immanentistica, ed è tale suo contenuto che gli assicura una solida consistenza storica. I contenuti psicologici proiettati sul trascendente, che trascendente non è se non come sovraempirico, veicolano privilegi classisti, chiusure sociali e istanze repressive che hanno fatto la violenza crudele delle religioni da quando sono nate fino ad adesso, Mito compreso. Ma sul trascendente sono stati proiettati anche contenuti genuinamente ontologici, che rendono così filosoficamente ricche di insegnamenti anche metafisiche compiutamente teologali, come, ad esempio, quelle di Agostino o di Eriugena. A questo proposito la tesi di Hegel è che certi saperi basati su assolutezze trascendenti non sono falsi saperi, nonostante che la trascendenza della loro assolutezza sia falsa, e non sono neppure veri saperi: sono piuttosto saperi apparenti, nel senso che un contenuto realmente umano vi appare nella forma illusoria di un ente extraumano. Non so se mi sono spiegato. Il trascendente e l’empirico, quando vengono contrapposti l’uno all’altro, costituiscono una falsa opposizione, perché l’empirico considerato solo empiricamente ha un vuoto di significato che rinvia al trascendente come unico suo possibile riempimento, ed il trascendente ha invece un vuoto di contenuto che rinvia all’empirico come unica sua possibile consistenza. Questo reciproco rinvio, d’altra parte, non è comprensibile che da un punto di vista che non sia né empirico né trascendente, ma trascendentale.
Ed eccoci così al terzo concetto: il trascendentale. Delle tre questa può essere considerata la nozione più filosofica, e per questo più comunemente oscura e più facilmente equivocabile e distorcibile. Darne una definizione rigorosa serve solo fino a un certo punto a renderla comprensibile, in quanto tale definizione ha un significato soltanto nella dimensione aperta dalla filosofia, dimensione alla quale la stragrande maggioranza dell'umanità è esistenzialmente estranea. Partiamo comunque da una definizione formalmente precisa. Trascendentale è la condizione universale del manifestarsi della realtà come tale. Ossia, è la forma della rivelazione della cose nella loro compiuta realtà. Il trascendentale non esiste, nel senso in cui esistono gli enti, ma è l’essere di tutte le cose che esistono. (Quanto a una definizione del concetto di essere, contrapposto a ente - ciò che esiste -, lo rinvio molto brevemente in basso, nel trattare del nichilismo. Il tempo è trascendentale, perché gli eventi non si manifestano come eventi reali se non nella loro collocazione temporale. La libertà è trascendentale, perché gli eventi non si generano come tali, nella loro realtà, se non in quanto libere creazioni o assunzioni dell’uomo. La finitudine è trascendentale, perché le cose non si manifestano se non entro i limiti che, nel renderle finite, ne determinano le specifiche realtà. La giustizia è trascendentale, perché le cose umane si manifestano sempre in una reciprocità di relazioni la cui complessiva configurazione è sempre valutabile come giusta o non giusta. E cos'è la filosofia, se non esperienza del trascendentale?
Questi scarni perché, la cui esplicitazione argomentativa è il succo della filosofia, sollecitano intanto una prima intuizione del piano su cui la filosofia stessa si svolge. Si tratta di un accesso meno lineare di quello ad altre discipline, in quanto, se è vero che per comprendere il significato della filosofia è necessario comprendere il trascendentale, è anche vero che per comprendere il significato del trascendentale è necessario rappresentarsi il piano della filosofia. Filosofia è esperienza del trascendentale. Il trascendentale non è né trascendente né empirico, ed è la spiegazione del generarsi del trascendente e dell’empirico. Il tempo, ad esempio, non è certo trascendente, in quanto l’idea del trascendente è l’essere al di là del tempo, ed il tempo non può certo essere al di là di se stesso. Ma il tempo non è neanche empirico, in quanto non è un contenuto dell’esperienza percettiva, essendone la forma: non posso dire che lì c’è il tavolo, lì c’è la sedia, lì c’è la parete, lì c’è la finestra, e lì c’è il tempo, come se fosse un oggetto tra i tanti, e quindi empirico. Perché è la forma in cui tutti si dispiegano, ed è proprio per ciò trascendentale.
L’empirico è il prodotto del trascendentale, di cui però non esprime, empiricamente considerato, se non il riflesso (questo, detto incidentalmente, è il senso veritativo del mito platonico della caverna). Ad esempio: ogni oggetto empirico è temporalmente costituito, ma non manifesta la sua temporalità costitutiva a una considerazione meramente empirica, cioè come datità sensibile. Il ciliegio di un giardino sta nel giardino durante un certo tempo, (non c’era, ad esempio, un secolo fa, ed un secolo fa non c’era nemmeno il giardino, anch’esso empirico e dunque temporale). Ma ciò che vedo e tocco del ciliegio sono le sue ciliegie, il loro colore rosso, le foglie, la legnosità del tronco, non certo il tempo del suo dispiegarsi. L’intuizione della temporalità costitutiva del ciliegio è una sua intuizione ideale, non empirica, è una intuizione della trascendentalità propria dell’empirico.
L’empirico, che è sempre formato dal trascendentale, non sempre, anzi raramente, lo esprime con una certa compiutezza. Ciò rende più difficile rilevare la presenza del trascendentale nell’empirico, e l’incapacità di rilevarlo è la sorgente generativa del trascendente. Il trascendente è posto infatti come un trascendentale al di là del trascendentale dell’empirico non riconosciuto come tale. Ma poiché non è logicamente concepibile un trascendentale al di là della forma trascendentale dell’empirico, i suoi termini sono sempre contradditoriamente tratti dall’empirico contenuto nel suo non riconosciuto perimetro trascendentale. È come se, non conoscendo la struttura scheletrica (il trascendentale) che tiene eretto un corpo (l’empirico), lo si immaginasse sorretto da grandi braccia invisibili (il trascendente), sul modello delle braccia visibili (l’empirico dal cui raddoppiamento trasfigurato si genera il trascendente) che sostengono gli oggetti.
Ora, esiste un quarto concetto con cui l'umanità ha a che fare da millenni, ma che negli ultimi due secoli sembra prendere il sopravvento: il nichilismo.
Il rifiuto del trascendentale è il nichilismo. Del trascendentale, bada bene, non del trascendente. Nichilismo, infatti, è l’assunzione di un esistere senza essere. Ma, poiché l’essere dell’esistere è il trascendentale, in quanto condizione universale della realtà, quindi del suo essere (distinto dall’esistere), il nichilismo, in quanto negazione dell’essere dell’esistere, non è che il rifiuto di assumere la realtà nella sua trascendentalità. Esistere ed essere, che nel linguaggio ordinario sono sinonimi, non lo sono nel linguaggio filosofico, ed anzi la dimensione propria della filosofia è stata anticamente aperta da Parmenide proprio attraverso la distinzione tra esistere ed essere.
Esistere significa apparire nella dimensione empirica. Un albero, un fiume, una casa, una città esistono in quanto sono rinvenibili nell’esperienza. Essere è la permanenza ed il significato universali dell’esistere. Il nulla è il non essere, non il non esistere. Un asino con le ali non esiste, in quanto non rinvenibile empiricamente. Un’azienda che mira soltanto al profitto monetario, e che quindi non assicura alcuna stabilità ai suoi lavoratori, ritenuti sempre licenziabili, ed alcun significato umano al loro lavoro, fatto oggetto soltanto di sfruttamento, e che è instabile nel suo stesso assetto organizzativo e territoriale, rimesso sempre in gioco in rapporto alle convenienze di mercato, una tale azienda certo esiste, ma come nulla di essere.
Il nichilismo è quella condizione esistenziale e storica entro la quale l’essere è considerato nulla, in conseguenza del fatto che il nulla è stato scambiato per essere. La pseudofilosofia odierna, quando pensa al nichilismo, pensa a Nietzsche, per il quale il nichilismo nasce con la morte di Dio, si completa con la negazione dell’idealità sovrasensibile quale dimensione dei valori, ed apre così la strada al suo superamento nella trasvalutazione di tutti i valori attraverso il dire di sì alla vita sensibile. Secondo Nietzsche, inoltre, il germe remoto del nichilismo sta nella contrapposizione platonico-parmenidea del divenire, portatore del nulla, all’idealità sovrasensibile, paradigma dell’essere. Tale idealità, infatti, è destinata, non appena pensata in termini razionali, a dissolversi in un divenire non accettato come essere proprio perché originariamente concepito in riferimento ad essa, generando così la situazione del nichilismo. Ma Nietzsche non considera che l’adesione all’idealità trascendentale dell’essere, come viene argomentata nella tradizione filosofica a partire da Parmenide e Platone, è in realtà la configurazione non nichilistica dell’esistenza. Il germe nascosto del nichilismo sta invece nella credenza in entità trascendenti, che, destituendo di significato proprio l’immanenza antropologica, assume come essere di tale immanenza quelle nullità empiriche che, per tale credenza, rappresentano la trascendenza. Non dunque la morte del Dio trascendente apre lo spazio del nichilismo, ma, al contrario, proprio la sua vita nella credenza umana. Si è detto come il trascendente, costituito come riempimento di senso di un empirico che ne è stato svuotato perché assunto senza trascendentalità, sia tuttavia privo di ogni consistenza che non sia empirica. Per questo ogni divinità trascendente che compare nella storia vi si rappresenta non, per così dire, in proprio, ma attraverso un empiricissimo clero che la mette avanti come sua legittimazione. Ogni clero è un nulla (almeno nella misura in cui non si declericalizza esprimendo la trascendentalità), scambiato però dai suoi fedeli per essere, in quanto rappresentante dell’essere divino (un impensabile che trae pensabilità proprio dal clero che, nel rappresentarlo, lo fa consistere). Ma il nulla scambiato per essere è la vera base del nichilismo, di cui la riduzione dell’essere al nulla è una semplice conseguenza. E poiché ciò che fa scambiare per essere la nullità di ogni organizzazione clericale è la credenza in un Dio trascendente, è appunto la vita, non la morte, di questo Dio, ad aprire la strada al nichilismo.
La morte del Dio trascendente, d’altro canto, dilata la voragine del nichilismo, perché avviene storicamente non mediante un recupero dell’essere trascendentale, ma spostando il meccanismo dello scambiare il nulla per essere (scambio che è la sostanza del nichilismo) dal quel nulla che è rappresentato dal clero e dall’etica autoritario-repressiva, a quell’altro nulla che è rappresentato dal potere della ricchezza monetaria e dalla forza della tecnica. La genialità filosofica di Jacobi ha indicato la voragine del nichilismo, fin dall’inizio dell’Ottocento, nella concezione romantica che, dissolvendo la sostanzialità del reale nell’attività soggettiva, ha trasformato la soggettività in forza produttiva di sempre nuovi fenomeni attraverso l’annichilimento dei precedenti. Hegel, accettando la soggettività creatrice come spazio indispensabile alla libertà, ha indicato la via per mantenerla sostanziale, concependola non più romanticamente, ma logicamente, entro categorie che siano limiti trascendentali al suo dispiegarsi. Ma la sintesi filosofica di Hegel è stata espulsa dalla prassi storica che, sfociando nel capitalismo e nella tecnica, è diventata demiurgia nichilistica. L’epoca moderna, comunque se ne vogliano fissare i limiti cronologici sempre convenzionali, è caratterizzata dalla concezione della libertà come autodeterminazione della soggettività individuale (concezione diventata per noi ovvia, ma estranea alle epoche precedenti, che avevano inteso in altri modi la condizione libera), e dall’obiettivo di emancipare la soggettività individuale da tutte le autorità e le comunità capaci di soffocarne la creatività nel pensiero e nella prassi. La modernità è cioè come tale emancipatoria, e coincide nel suo concetto con i caratteri giuridici, politici, economici e scientifici della cosiddetta civiltà occidentale, distinta dall’Occidente come spazio geografico e come storia complessiva svoltasi entro tale spazio. Da quando, nel 1979, Jean François Lyotard ha pubblicato il suo storico saggio “La condizione postmoderna”, ha cominciato a diffondersi la consapevolezza che la modernità è tramontata, e viviamo nel postmoderno. Ma che cosa deve intendersi per postmoderno? Lyotard, che ne ha in un certo senso coniato il termine sostantivo, traendolo da una aggettivazione data negli anni precedenti, a cominciare da Touraine, alla cosiddetta società postindustriale, lo ha concepito, in sostanza, come un nuovo statuto del sapere. Il sapere premoderno era costituito da quelle che lui ha chiamato “grandi narrazioni”, perché raccontano un senso complessivo e finalistico della storia umana, o “metanarrazioni”, perché erano riferite a molteplici narrazioni specifiche di fatti particolari come intepretazioni veritative di esse. Il sapere moderno si è legato alla potenza pragmatica di una nuova scienza capace di dominare l’empirico attraverso il linguaggio matematico e tecnico, la scienza moderna, appunto. Questa scienza si è all’inizio inscritta nell’obiettivo emancipatorio della modernità falsificando tutte le metanarrazioni premoderne soffocatrici della libera soggettività individuale, rivelando e poi creando nuovi fatti incompatibili con esse. Tale inscrizione è stata tuttavia opera di altre narrazioni, da quella baconiana a quella illuministica, da quella positivistica a quella popperiana, che hanno legittimato le scoperte scientifiche come epopea di disvelamento delle cose e di liberazione dell’uomo. Ma anche questa narrazioni si sono via via rivelate infondate. È così nata quella incredulità generale nei confronti della metanarrazioni che secondo Lyotard definisce il postmoderno. La caduta di ogni valenza legittimatoria delle grandi narrazioni cambia lo statuto del sapere. Il postmoderno è un modo di concepire il sapere oltre ogni metafisica, oltre ogni teoria di legittimazione, oltre ogni idea di formazione dello spirito, in cui il sapere diventa trattamento operativo delle informazioni. Sviluppando queste considerazioni e andando oltre Lyotard stesso, si può dire che il postmoderno è una forma di legittimazione del sapere attraverso la potenza produttrice delle cose. Esso giunge così agli antipodi del platonismo, che legittimava il potere attraverso il sapere del bene collettivo. Una volta distrutti i nessi coesivi della società dalla mercificazione capitalistica della vita, è scomparsa l’idea stessa del bene, degradato a utile particolare, e del sapere, degradato a potenza. Ciò che ha la potenza di imporsi, nella produzione, nella distribuzione e nella circolazione, e di fabbricare immagini collettive, diventa perciò stesso credibile. Le informazione stesse che lo sostengono sono fabbricate, mentre la potenza sistemica esclude dalla circolazione informazioni difformi.
La realtà scompare così nel compiuto nichilismo, che la sostituisce con l’effettività sempre flessibile, anche nell’esistenza umana. Postmoderno non è, insomma, che un altro nome per il nichilismo compiuto, che a sua volta non è che un altro nome per il capitalismo assoluto, che non è altro se non una veste, l'ultima e più potente, della metafisica. La potenza nichilistica del capitalismo, d’altra parte, non ha dovuto superare grosse resistenze, perché le idealità che hanno preceduto il capitalismo assoluto, da quella cristiana a quella marxista, erano trascendenze già in loro stesse potenzialmente nichilistiche. Non è possibile, infatti, credere in un Dio che non impone alcuna lotta concreta contro le ingiustizie del mondo, ed essere poi in grado di lottare contro le ingiustizie che più hanno colonizzato le menti, quelle insite nella potenza del capitale. Non è possibile credere nell’identità tra storia e progresso, identità che è implicita nel marxismo storicamente esistito, e poi essere in grado di contrastare, almeno sul piano intellettuale e morale, il capitalismo assoluto, che è un portato della storia e una sua potenza effettiva. E per concludere, cosa rimane? Il tentativo razionale di spiegare la trascendentalità dell'empirico non attraverso gli enti, tra cui il divino, non attraverso il trascendente, ma attraverso l'Essere trascendentale dell'Empirico.
E quindi ricordati: empirico, trascendente e trascendentale come elementi basilari della filosofia.

Re: Il tramonto dell'Occidente, di Oswald Spengler

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Gaetano Intile wrote: @Daniel P. 
Ciao, ti rispondo subito.
Allora, Galimberti certo lo conosco, di suo ho letto Il tramonto dell'Occidente nella lettura di Heidegger e di Jaspers, Psichiatria e fenomenologia, che poi è la sua unica opera originale, Psiche e Techne, e Il Corpo, che insieme a Psichiatria e fenomenologia è secondo me l'opera più interessante e tra loro sono un po' legate. Ah, meno di un mese fa ho assistito a una sua conferenza dal vivo, era a dieci metri da me, certo non è un ragazzino ma è ancora lucidissimo. Ho assistito anche a una conferenza di Emanuele Severino, saranno mille anni fa. Ma lui era davvero di un altro pianeta, oltre il sublime. L'ultimo grande filosofo italiano con Bontempelli. 
Galimberti mi ha spinto ha esplorare la psichiatria, ho scoperto Eugenio Borgna ad esempio, che è uno psichiatra e un saggista favoloso. 
Quanto al quesito provo ad allargare il campo e ti offro qualche elemento in più.
Il linguaggio filosofico è ormai un illustre sconosciuto, relegato alle università o a qualche aula di liceo. Ma forse è sempre stato così. Quindi per iniziare a guardare la realtà attraverso le lenti della filosofia ci si deve appropriare almeno di tre termini e dei relativi concetti che esprimono, anzi quattro, che sono fondamentali e servono da passepartout.
I tre termini sono: Empirico, Trascendente e Trascendentale. E in realtà il mondo moderno ne ha imposto un quarto: il Nichilismo, su cui tornerò alla fine.
L'Empirico non è altro se non il contenuto dell'esperienza percettiva, che quindi ha sempre una particolare posizione rispetto alle coordinate del tempo e dello spazio.
Passo agli esempi... Io ho dei fruttuosissimi alberi di cachi nel mio giardino: gli alberi sono oggetti empirici, perché possono essere visti e toccati posizionandosi in un determinato luogo dello spazio, quello appunto dove si trova il giardino, e in un determinato periodo di tempo, quello durante il quale i detti alberi esistono. Allo stesso modo, un sentimento provato in una qualsiasi circostanza è empirico, perché avvertito da una percezione della propria interiorità vissuta in un determinato momento del tempo. Di conseguenza un concetto è empirico quando la sua formulazione astratta rinvia, anche tramite altre astrazioni, a un elemento percettivo. Considera dunque, il concetto di empirico come legato alle nostre percezioni, ai nostri sensi e all'estensione di essi.
Ci aggiungo che le tre nozioni di empirico, trascendente e trascendentale devono essere comprese nella loro articolazione unitaria perché ciascuna di esse possa venir compresa nella sua specificità. Ciascuna di queste tre nozioni, cioè, può essere compresa in se stessa soltanto all’interno di una comprensione della sua intrinseca relazione con la totalità formata da essa e dalle altre.
L’empirico, infatti, se inteso empiricamente, non mostra di che cosa consista la sua empiricità, non si rende comprensibile come tale. L’empirico, cioè, può essere compreso come empirico soltanto in maniera non empirica. Come appare l’empirico, infatti, se viene inteso esclusivamente attraverso la sua empiricità? Appare come dato immediato della coscienza. Consideriamo un qualsiasi oggetto empirico, ad esempio i cachi del mio giardino. Essi sembrano dati alla percezione: in condizioni ambientali normali, una persona dotate di normali facoltà percettive che si trovi nel mio giardino al cui interno crescono i miei cachi, e guardi nel posto dove essi si trovano, non può che vederli, e non può far agire la sua vista in modo da percepire, al loro posto, nello stesso luogo spaziale, una melograno o degli albicocchi. Esso sembra costituito nell’immediatezza: chi li vede nel giardino, li riconosce come alberi nel momento stesso in cui li vede, e li riconosce come cachi non appena vede penderne i loti, i frutti, dai rami.
Ciò che è empirico viene chiamato anche fatto. Questo termine, benché sia usato come sinonimo di dato, ha una portata semantica più appropriata alla realtà di ciò a cui è riferito: in quanto participio passato del verbo fare, indica non una datità (cioè il modo in cui un oggetto si rivela alla conoscenza), ma il risultato di una costruzione della prassi. Il fatto, cioè, è fatto dalla storia, sotto un duplice aspetto: la storia ne produce il contenuto, e dalla storia derivano le costellazioni mentali in riferimento alle quali le percezioni ne ritagliano la configurazione dai suoi sfondi. Il mio albero infatti è stato portato dall'Asia qualche secolo addietro, quando le condizioni socio economiche europee hanno consentito l'aprirsi di commerci da e verso l'Estremo Oriente. L'albero stesso è frutto di migliaia di anni di ibridazioni che da una forma selvatico l'hanno portato a essere addomesticato e ad essere quel che è. Quindi il mio albero presuppone una determinata concatenazione di fatti storici.
La storia, d’altra parte, sgorga dall’antropologia e vi si inscrive. È anche vero che l’antropologia è plasmata dalla storia e vi si inscrive. Questi due lati debbono essere contemporaneamente ammessi. L’uomo vive immerso nei fatti storici, ed è lui stesso un fatto storico. È anche il fare da cui i fatti, e lui stesso come fatto, sono fatti. L’empirico è il prodotto di questa dialettica antropologica. Al di fuori di essa, e di una appropriata comprensione di essa, l’empirico non si rende intellegibile nel suo spessore di realtà, la realtà che non empiricamente lo ha generato, e mostra soltanto la sua superficie percettivamente rilevabile. Questa superficie, proprio perché astratta dalla realtà di cui è l’ultima manifestazione, appare come datità. Assumerla come tale è la scelta originaria di ogni empirismo, una scelta che tuttavia non è empiristica, bensì metafisica. La scelta di prendere il fatto come dato di fatto non è un dato di fatto, ma è appunto uno scegliere, un fare, un oltrepassare la datità. La scelta metafisica dell’empirismo è di fare del fatto un dato, passivizzando rispetto ad esso il pensiero e la comprensione. Spero di esser stato chiaro.
Quanto al Trascendente, esso è invece ciò che trascende la dimensione spazio-temporale del mondo empirico, vale a dire ciò che sussiste oltre di esso. È dunque l’aldilà non raggiungibile, neppure in linea di principio, lungo la sequenza delle concatenazioni fattuali. La trascendenza così intesa è, sul piano logico, una contraddizione in termini. Il problema se la trascendenza esista o meno secondo la sua pura definizione, quindi, non si pone neppure. Una questione di fatto sull’esistenza o sulla non esistenza si pone infatti per tutto ciò la cui esistenza non sia incompatibile con la logica del linguaggio, È ad esempio molto improbabile che esista sul nostro attuale pianeta una città in cui durante lo scorso anno non sia stato commesso neppure un reato. Si potrebbe tuttavia ricercare se per caso esista, perché la definizione di città e la definizione di rispetto della legge penale non sono incompatibili. Non si potrebbe invece nemmeno cercare, senza cadere nell’assurdo, un triangolo quadrato. Ma la trascendenza è come un triangolo quadrato, che se è quadrato non è più triangolo e viceversa. Trascendenza è infatti ciò che è aldilà o al di fuori di ogni spazio. Ma queste espressioni sono contraddittorie, perché “aldilà” e “ al di fuori” sono determinazioni spaziali, e hanno senso solo se riferite a entità nello spazio. Si può essere “al di fuori di questa stanza”, “al di là del sistema solare”, non si può essere “al di là dello spazio”. Analogo discorso per ciò che è “al di là del tempo”. D’altra parte se la trascendenza non è “al di là dello spazio (e del tempo)” non è più trascendenza ma immanenza. La trascendenza è in ogni caso inconcepibile, se la si concepisce diventa immanente. Come ha potuto essere allora il trascendente concepito lungo tutta la storia umana fino ad oggi? Si è riusciti a pensare il trascendente solo perché lo si è concepito non in modo trascendente, che sarebbe impossibile, ma in modo empirico. Nella misura in cui è stato pensato, il trascendente è stato pensato come iperuranio o paradiso o aldilà o olimpo, cioè come un sovramondo, immagine trasfigurata del mondo sensibile, una specie di attico nobile del grande palazzo dell’empirico. Il trascendente, in altri termini, non può essere posto che come raddoppiamento idealizzato dell’empirico, come un empirico del piano di sopra privo dei difetti dell’empirico del piano terra della nostra fattuale esperienza. Lo sapeva Platone quando, nel Parmenide (il suo dialogo destinato, a differenza degli altri, più ai dotti che alla divulgazione), mostra come le idee poste in modo trascendente vengano necessariamente o rese inintellegibili o rese intellegibili solo in modo empirico. Lo sapeva Hegel quando, nella sua Fenomenologia dello Spirito, mostra come la coscienza scettica, che non crede in nulla che non sia una particolarità empirica, e la coscienza duplicata, che crede nell’intrasmutabile, siano ciascuna l’altra faccia dell’altra, e si generino l’una dall’altra. Tiro una parentesi: per chi è abituato alle ricostruzioni usualmente adoperate della storia della filosofia, che attribuiscono a Platone la trascendenza delle idee e ad Hegel la logicizzazione della storia, le cose appena dette appariranno straordinarie. Per sincerarsi che sono vere, però, basta leggere i testi di Platone e di Hegel a cui ho fatto riferimento. D’altra parte, il fatto che appaia generalmente incredibile un Platone negatore della trascendenza delle idee, così come un Hegel negatore del panlogismo dei fatti, non è che un aspetto della scomparsa della conoscenza filosofica. Chiusa parentesi. Il trascendente, dunque, non è mai davvero concepito secondo la sua definizione linguistica, che è come tale inconcepibile, ma è sempre concepito come un altro empirico sovrastante il nostro empirico. Questo sovraempirico è riempito di esigenze antropologiche, sia ontologiche che psicologiche, storicamente non legittimabili su base immanentistica, ed è tale suo contenuto che gli assicura una solida consistenza storica. I contenuti psicologici proiettati sul trascendente, che trascendente non è se non come sovraempirico, veicolano privilegi classisti, chiusure sociali e istanze repressive che hanno fatto la violenza crudele delle religioni da quando sono nate fino ad adesso, Mito compreso. Ma sul trascendente sono stati proiettati anche contenuti genuinamente ontologici, che rendono così filosoficamente ricche di insegnamenti anche metafisiche compiutamente teologali, come, ad esempio, quelle di Agostino o di Eriugena. A questo proposito la tesi di Hegel è che certi saperi basati su assolutezze trascendenti non sono falsi saperi, nonostante che la trascendenza della loro assolutezza sia falsa, e non sono neppure veri saperi: sono piuttosto saperi apparenti, nel senso che un contenuto realmente umano vi appare nella forma illusoria di un ente extraumano. Non so se mi sono spiegato. Il trascendente e l’empirico, quando vengono contrapposti l’uno all’altro, costituiscono una falsa opposizione, perché l’empirico considerato solo empiricamente ha un vuoto di significato che rinvia al trascendente come unico suo possibile riempimento, ed il trascendente ha invece un vuoto di contenuto che rinvia all’empirico come unica sua possibile consistenza. Questo reciproco rinvio, d’altra parte, non è comprensibile che da un punto di vista che non sia né empirico né trascendente, ma trascendentale.
Ed eccoci così al terzo concetto: il trascendentale. Delle tre questa può essere considerata la nozione più filosofica, e per questo più comunemente oscura e più facilmente equivocabile e distorcibile. Darne una definizione rigorosa serve solo fino a un certo punto a renderla comprensibile, in quanto tale definizione ha un significato soltanto nella dimensione aperta dalla filosofia, dimensione alla quale la stragrande maggioranza dell'umanità è esistenzialmente estranea. Partiamo comunque da una definizione formalmente precisa. Trascendentale è la condizione universale del manifestarsi della realtà come tale. Ossia, è la forma della rivelazione della cose nella loro compiuta realtà. Il trascendentale non esiste, nel senso in cui esistono gli enti, ma è l’essere di tutte le cose che esistono. (Quanto a una definizione del concetto di essere, contrapposto a ente - ciò che esiste -, lo rinvio molto brevemente in basso, nel trattare del nichilismo. Il tempo è trascendentale, perché gli eventi non si manifestano come eventi reali se non nella loro collocazione temporale. La libertà è trascendentale, perché gli eventi non si generano come tali, nella loro realtà, se non in quanto libere creazioni o assunzioni dell’uomo. La finitudine è trascendentale, perché le cose non si manifestano se non entro i limiti che, nel renderle finite, ne determinano le specifiche realtà. La giustizia è trascendentale, perché le cose umane si manifestano sempre in una reciprocità di relazioni la cui complessiva configurazione è sempre valutabile come giusta o non giusta. E cos'è la filosofia, se non esperienza del trascendentale?
Questi scarni perché, la cui esplicitazione argomentativa è il succo della filosofia, sollecitano intanto una prima intuizione del piano su cui la filosofia stessa si svolge. Si tratta di un accesso meno lineare di quello ad altre discipline, in quanto, se è vero che per comprendere il significato della filosofia è necessario comprendere il trascendentale, è anche vero che per comprendere il significato del trascendentale è necessario rappresentarsi il piano della filosofia. Filosofia è esperienza del trascendentale. Il trascendentale non è né trascendente né empirico, ed è la spiegazione del generarsi del trascendente e dell’empirico. Il tempo, ad esempio, non è certo trascendente, in quanto l’idea del trascendente è l’essere al di là del tempo, ed il tempo non può certo essere al di là di se stesso. Ma il tempo non è neanche empirico, in quanto non è un contenuto dell’esperienza percettiva, essendone la forma: non posso dire che lì c’è il tavolo, lì c’è la sedia, lì c’è la parete, lì c’è la finestra, e lì c’è il tempo, come se fosse un oggetto tra i tanti, e quindi empirico. Perché è la forma in cui tutti si dispiegano, ed è proprio per ciò trascendentale.
L’empirico è il prodotto del trascendentale, di cui però non esprime, empiricamente considerato, se non il riflesso (questo, detto incidentalmente, è il senso veritativo del mito platonico della caverna). Ad esempio: ogni oggetto empirico è temporalmente costituito, ma non manifesta la sua temporalità costitutiva a una considerazione meramente empirica, cioè come datità sensibile. Il ciliegio di un giardino sta nel giardino durante un certo tempo, (non c’era, ad esempio, un secolo fa, ed un secolo fa non c’era nemmeno il giardino, anch’esso empirico e dunque temporale). Ma ciò che vedo e tocco del ciliegio sono le sue ciliegie, il loro colore rosso, le foglie, la legnosità del tronco, non certo il tempo del suo dispiegarsi. L’intuizione della temporalità costitutiva del ciliegio è una sua intuizione ideale, non empirica, è una intuizione della trascendentalità propria dell’empirico.
L’empirico, che è sempre formato dal trascendentale, non sempre, anzi raramente, lo esprime con una certa compiutezza. Ciò rende più difficile rilevare la presenza del trascendentale nell’empirico, e l’incapacità di rilevarlo è la sorgente generativa del trascendente. Il trascendente è posto infatti come un trascendentale al di là del trascendentale dell’empirico non riconosciuto come tale. Ma poiché non è logicamente concepibile un trascendentale al di là della forma trascendentale dell’empirico, i suoi termini sono sempre contradditoriamente tratti dall’empirico contenuto nel suo non riconosciuto perimetro trascendentale. È come se, non conoscendo la struttura scheletrica (il trascendentale) che tiene eretto un corpo (l’empirico), lo si immaginasse sorretto da grandi braccia invisibili (il trascendente), sul modello delle braccia visibili (l’empirico dal cui raddoppiamento trasfigurato si genera il trascendente) che sostengono gli oggetti.
Ora, esiste un quarto concetto con cui l'umanità ha a che fare da millenni, ma che negli ultimi due secoli sembra prendere il sopravvento: il nichilismo.
Il rifiuto del trascendentale è il nichilismo. Del trascendentale, bada bene, non del trascendente. Nichilismo, infatti, è l’assunzione di un esistere senza essere. Ma, poiché l’essere dell’esistere è il trascendentale, in quanto condizione universale della realtà, quindi del suo essere (distinto dall’esistere), il nichilismo, in quanto negazione dell’essere dell’esistere, non è che il rifiuto di assumere la realtà nella sua trascendentalità. Esistere ed essere, che nel linguaggio ordinario sono sinonimi, non lo sono nel linguaggio filosofico, ed anzi la dimensione propria della filosofia è stata anticamente aperta da Parmenide proprio attraverso la distinzione tra esistere ed essere.
Esistere significa apparire nella dimensione empirica. Un albero, un fiume, una casa, una città esistono in quanto sono rinvenibili nell’esperienza. Essere è la permanenza ed il significato universali dell’esistere. Il nulla è il non essere, non il non esistere. Un asino con le ali non esiste, in quanto non rinvenibile empiricamente. Un’azienda che mira soltanto al profitto monetario, e che quindi non assicura alcuna stabilità ai suoi lavoratori, ritenuti sempre licenziabili, ed alcun significato umano al loro lavoro, fatto oggetto soltanto di sfruttamento, e che è instabile nel suo stesso assetto organizzativo e territoriale, rimesso sempre in gioco in rapporto alle convenienze di mercato, una tale azienda certo esiste, ma come nulla di essere.
Il nichilismo è quella condizione esistenziale e storica entro la quale l’essere è considerato nulla, in conseguenza del fatto che il nulla è stato scambiato per essere. La pseudofilosofia odierna, quando pensa al nichilismo, pensa a Nietzsche, per il quale il nichilismo nasce con la morte di Dio, si completa con la negazione dell’idealità sovrasensibile quale dimensione dei valori, ed apre così la strada al suo superamento nella trasvalutazione di tutti i valori attraverso il dire di sì alla vita sensibile. Secondo Nietzsche, inoltre, il germe remoto del nichilismo sta nella contrapposizione platonico-parmenidea del divenire, portatore del nulla, all’idealità sovrasensibile, paradigma dell’essere. Tale idealità, infatti, è destinata, non appena pensata in termini razionali, a dissolversi in un divenire non accettato come essere proprio perché originariamente concepito in riferimento ad essa, generando così la situazione del nichilismo. Ma Nietzsche non considera che l’adesione all’idealità trascendentale dell’essere, come viene argomentata nella tradizione filosofica a partire da Parmenide e Platone, è in realtà la configurazione non nichilistica dell’esistenza. Il germe nascosto del nichilismo sta invece nella credenza in entità trascendenti, che, destituendo di significato proprio l’immanenza antropologica, assume come essere di tale immanenza quelle nullità empiriche che, per tale credenza, rappresentano la trascendenza. Non dunque la morte del Dio trascendente apre lo spazio del nichilismo, ma, al contrario, proprio la sua vita nella credenza umana. Si è detto come il trascendente, costituito come riempimento di senso di un empirico che ne è stato svuotato perché assunto senza trascendentalità, sia tuttavia privo di ogni consistenza che non sia empirica. Per questo ogni divinità trascendente che compare nella storia vi si rappresenta non, per così dire, in proprio, ma attraverso un empiricissimo clero che la mette avanti come sua legittimazione. Ogni clero è un nulla (almeno nella misura in cui non si declericalizza esprimendo la trascendentalità), scambiato però dai suoi fedeli per essere, in quanto rappresentante dell’essere divino (un impensabile che trae pensabilità proprio dal clero che, nel rappresentarlo, lo fa consistere). Ma il nulla scambiato per essere è la vera base del nichilismo, di cui la riduzione dell’essere al nulla è una semplice conseguenza. E poiché ciò che fa scambiare per essere la nullità di ogni organizzazione clericale è la credenza in un Dio trascendente, è appunto la vita, non la morte, di questo Dio, ad aprire la strada al nichilismo.
La morte del Dio trascendente, d’altro canto, dilata la voragine del nichilismo, perché avviene storicamente non mediante un recupero dell’essere trascendentale, ma spostando il meccanismo dello scambiare il nulla per essere (scambio che è la sostanza del nichilismo) dal quel nulla che è rappresentato dal clero e dall’etica autoritario-repressiva, a quell’altro nulla che è rappresentato dal potere della ricchezza monetaria e dalla forza della tecnica. La genialità filosofica di Jacobi ha indicato la voragine del nichilismo, fin dall’inizio dell’Ottocento, nella concezione romantica che, dissolvendo la sostanzialità del reale nell’attività soggettiva, ha trasformato la soggettività in forza produttiva di sempre nuovi fenomeni attraverso l’annichilimento dei precedenti. Hegel, accettando la soggettività creatrice come spazio indispensabile alla libertà, ha indicato la via per mantenerla sostanziale, concependola non più romanticamente, ma logicamente, entro categorie che siano limiti trascendentali al suo dispiegarsi. Ma la sintesi filosofica di Hegel è stata espulsa dalla prassi storica che, sfociando nel capitalismo e nella tecnica, è diventata demiurgia nichilistica. L’epoca moderna, comunque se ne vogliano fissare i limiti cronologici sempre convenzionali, è caratterizzata dalla concezione della libertà come autodeterminazione della soggettività individuale (concezione diventata per noi ovvia, ma estranea alle epoche precedenti, che avevano inteso in altri modi la condizione libera), e dall’obiettivo di emancipare la soggettività individuale da tutte le autorità e le comunità capaci di soffocarne la creatività nel pensiero e nella prassi. La modernità è cioè come tale emancipatoria, e coincide nel suo concetto con i caratteri giuridici, politici, economici e scientifici della cosiddetta civiltà occidentale, distinta dall’Occidente come spazio geografico e come storia complessiva svoltasi entro tale spazio. Da quando, nel 1979, Jean François Lyotard ha pubblicato il suo storico saggio “La condizione postmoderna”, ha cominciato a diffondersi la consapevolezza che la modernità è tramontata, e viviamo nel postmoderno. Ma che cosa deve intendersi per postmoderno? Lyotard, che ne ha in un certo senso coniato il termine sostantivo, traendolo da una aggettivazione data negli anni precedenti, a cominciare da Touraine, alla cosiddetta società postindustriale, lo ha concepito, in sostanza, come un nuovo statuto del sapere. Il sapere premoderno era costituito da quelle che lui ha chiamato “grandi narrazioni”, perché raccontano un senso complessivo e finalistico della storia umana, o “metanarrazioni”, perché erano riferite a molteplici narrazioni specifiche di fatti particolari come intepretazioni veritative di esse. Il sapere moderno si è legato alla potenza pragmatica di una nuova scienza capace di dominare l’empirico attraverso il linguaggio matematico e tecnico, la scienza moderna, appunto. Questa scienza si è all’inizio inscritta nell’obiettivo emancipatorio della modernità falsificando tutte le metanarrazioni premoderne soffocatrici della libera soggettività individuale, rivelando e poi creando nuovi fatti incompatibili con esse. Tale inscrizione è stata tuttavia opera di altre narrazioni, da quella baconiana a quella illuministica, da quella positivistica a quella popperiana, che hanno legittimato le scoperte scientifiche come epopea di disvelamento delle cose e di liberazione dell’uomo. Ma anche questa narrazioni si sono via via rivelate infondate. È così nata quella incredulità generale nei confronti della metanarrazioni che secondo Lyotard definisce il postmoderno. La caduta di ogni valenza legittimatoria delle grandi narrazioni cambia lo statuto del sapere. Il postmoderno è un modo di concepire il sapere oltre ogni metafisica, oltre ogni teoria di legittimazione, oltre ogni idea di formazione dello spirito, in cui il sapere diventa trattamento operativo delle informazioni. Sviluppando queste considerazioni e andando oltre Lyotard stesso, si può dire che il postmoderno è una forma di legittimazione del sapere attraverso la potenza produttrice delle cose. Esso giunge così agli antipodi del platonismo, che legittimava il potere attraverso il sapere del bene collettivo. Una volta distrutti i nessi coesivi della società dalla mercificazione capitalistica della vita, è scomparsa l’idea stessa del bene, degradato a utile particolare, e del sapere, degradato a potenza. Ciò che ha la potenza di imporsi, nella produzione, nella distribuzione e nella circolazione, e di fabbricare immagini collettive, diventa perciò stesso credibile. Le informazione stesse che lo sostengono sono fabbricate, mentre la potenza sistemica esclude dalla circolazione informazioni difformi.
La realtà scompare così nel compiuto nichilismo, che la sostituisce con l’effettività sempre flessibile, anche nell’esistenza umana. Postmoderno non è, insomma, che un altro nome per il nichilismo compiuto, che a sua volta non è che un altro nome per il capitalismo assoluto, che non è altro se non una veste, l'ultima e più potente, della metafisica. La potenza nichilistica del capitalismo, d’altra parte, non ha dovuto superare grosse resistenze, perché le idealità che hanno preceduto il capitalismo assoluto, da quella cristiana a quella marxista, erano trascendenze già in loro stesse potenzialmente nichilistiche. Non è possibile, infatti, credere in un Dio che non impone alcuna lotta concreta contro le ingiustizie del mondo, ed essere poi in grado di lottare contro le ingiustizie che più hanno colonizzato le menti, quelle insite nella potenza del capitale. Non è possibile credere nell’identità tra storia e progresso, identità che è implicita nel marxismo storicamente esistito, e poi essere in grado di contrastare, almeno sul piano intellettuale e morale, il capitalismo assoluto, che è un portato della storia e una sua potenza effettiva. E per concludere, cosa rimane? Il tentativo razionale di spiegare la trascendentalità dell'empirico non attraverso gli enti, tra cui il divino, non attraverso il trascendente, ma attraverso l'Essere trascendentale dell'Empirico.
E quindi ricordati: empirico, trascendente e trascendentale come elementi basilari della filosofia.
Era lungo... (ma Il tramonto dell'Occidente ancora di più :lol: ) comunque l'ho letto tutto questo tuo messaggio e ti ringrazio :)                     
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"Quando sogno io non ho più corpo, volto né pensiero; quando sogno volo via leggero sopra a tutti voi e torno uomo."
Enrico Ruggeri, Diverso dagli altri

Re: Il tramonto dell'Occidente, di Oswald Spengler

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@Gaetano Intile Ciao, non ti conosco e voglio darti il beneficio del dubbio, supponendo che possa essersi trattato di una svista. Oppure, forse, è stato un mio errore nel non riconoscere la tua dissertazione come una citazione del testo "Lo scettro della filosofia" di Massimo Bontempelli. Per chiarezza nei confronti di chi sta seguendo la discussione, ritengo opportuno riportare integralmente il passaggio originale, che a mio avviso risulta più chiaro e completo rispetto alla versione da te proposta, nella quale mancano alcuni elementi fondamentali alla comprensione del testo.

“La filosofia. Un tempo potevamo incontrarla, la filosofia, in qualche corso universitario o in qualche aula di liceo, in qualche libro circolante tra la gioventù istruita o in qualche pubblica discussione. Oggi non più. La cultura socialmente riconosciuta è o iperspecialismo arido o chiacchiera infondata. Ciò che nelle università si chiama filosofia è, nel migliore dei casi, ermeneutica di testi o citazione erudita di pensieri, senza più domanda e responsabilità del vero, senza più comprensione significante dell’orizzonte storico. Nei licei in disfacimento le prime discipline di cui è collassato l’insegnamento sono state la storia e la filosofia. Il fatto è che una società plasmata dalla dinamica autoreferenziale dell’economia del plusvalore tende a spegnere ogni forma di autocomprensione e di strutturazione di significati, perché soltanto un’esistenza priva di riflessione e significato può sottomettersi alle modalità di vita imposte dall’economia, altrimenti invivibili.
Nella società odierna, quindi, non ci sono più luoghi che custodiscano la filosofia e possano trasmetterne lo spirito da una generazione all’altra. La filosofia è diventata socialmente introvabile. Tesori di una sapienza di cui ancora oggi, ed anzi ancor più oggi, avremmo bisogno per ritrovare la via dove l’esistere possa avere valore, giacciono sepolti nell’oblio di testi divenuti indecifrabili.
Un Socrate che tornasse a parlarci nelle nostre strade, come in quelle dell’antica Atene, non sarebbe ritenuto politicamente pericoloso, e non verrebbe costretto a bere la cicuta, perché sarebbe evitato da tutti come uno scocciatore un po’ fuori di testa, e finirebbe investito da un’automobile nel caos del traffico urbano. Un Platone redivivo non troverebbe un editore per i suoi dialoghi. Un Hegel che scrivesse oggi le sue opere non insegnerebbe in un’università (a meno che non sposasse la figlia di un cattedratico), e rimarrebbe un signor nessuno. Fortunatamente per il nostro futuro, Platone ed Hegel sono vissuti in altre epoche, che hanno consentito loro di entrare nel pantheon della storia della filosofia, cosicché la loro sapienza, come quella di altri giganti del pensiero, rimane almeno potenzialmente a disposizione dei nostri posteri.
Soltanto potenzialmente, certo, perché la cultura del nostro tempo ha talmente annichilito la dimensione filosofica del pensiero, e quindi l’ambito stesso di una considerazione filosofica della realtà, che la filosofia è scomparsa dal suo orizzonte. Non è che non ci sia più attenzione per la filosofia. Se ne parla ancora, ne sono incuriosite cerchie più ampie di un tempo, e si propone persino di estenderne l’insegnamento a tutti gli istituti della scuola secondaria superiore. Ma la filosofia di cui si parla, e quella di cui si vuole estendere l’insegnamento, è un contenitore dei più disparati saperi o pseudosaperi (psicologici, sociologici, etnologici, epistemologici ecc. ecc.), a cui manca proprio una considerazione filosofica della realtà. Al di fuori della dimensione propria del pensiero filosofico, del suo specifico spazio conoscitivo, d’altra parte, gli stessi grandi testi, tramandati al nostro tempo dalla storia della filosofia, non possono che essere fraintesi. Circolano così Platoni immaginari che credono negli iperurani, Hegel immaginari che considerano razionale ogni fatto storico, per non parlare di altri profondissimi filosofi, come Proclo ed Eriugena, Cusano e Jacobi, a cui nessuno attinge più nemmeno nominalmente. La filosofia è uno spettro che parla una lingua dimenticata.
Eppure anche nella situazione odierna è possibile, per una persona disposta all’impegno necessario, assimilare gli elementi teorici indispensabili a comprendere la filosofia. Ad un giovane che chiedesse cosa occorre aver compreso per considerare la realtà da un punto di vista filosofico, si può rispondere con verità che basta aver compreso, nella loro intrinseca articolazione, tre sole nozioni, quelle cioè di empirico, trascendente  e trascendentale. Esse rappresentano, per usare in modo metaforico una nozione matematica, gli elementi fondamentali dello “spettro” della filosofia, in base ai quali è possibile ricostruire l’articolazione conoscitiva delle diverse posizioni filosofiche. Infatti chi sa che cosa significa l’empirico, che cosa significa il trascendente, e che cosa significa il trascendentale, è in grado di comprendere ogni filosofia. Chi invece ignora, o non assimila, o apprende in una rappresentazione distorta, una di queste tre nozioni, non può, in virtù della loro intrinseca interconnessione, mettere precisamente a fuoco neppure le altre due, e nessuna vera filosofia gli sarà mai chiara.
L’empirico. Empirico è, nella sua nozione risultante dalla storia della filosofia, tutto ciò che è costituito come contenuto dell’esperienza percettiva, e che ha quindi una sua particolare posizione in riferimento alle coordinate dello spazio e del tempo. Il ciliegio di un giardino è un oggetto empirico, perché può essere visto e toccato posizionandosi in un determinato luogo dello spazio, quello appunto dove si trova il giardino, e in un determinato periodo di tempo, quello durante il quale il ciliegio esiste. Un sentimento provato in una qualsiasi circostanza è empirico, perché avvertito da una percezione della propria interiorità vissuta in un determinato momento del tempo. Un concetto è empirico quando la sua formulazione astratta rinvia, anche tramite altre astrazioni, ad un elemento percettivo.
Si è detto che le tre nozioni di empirico, trascendente e trascendentale devono essere comprese nella loro articolazione unitaria perché ciascuna di esse possa venir compresa nella sua specificità. Ciascuna di queste tre nozioni, cioè, può essere compresa in se stessa soltanto all’interno di una comprensione della sua intrinseca relazione con la totalità formata da essa e dalle altre.
L’empirico, infatti, se inteso empiricamente, non mostra di che cosa consista la sua empiricità, non si rende comprensibile come tale. L’empirico, cioè, può essere compreso come empirico soltanto in maniera non empirica. Come appare l’empirico, infatti, se viene inteso esclusivamente attraverso la sua empiricità? Appare come dato immediato della coscienza. Consideriamo un qualsiasi oggetto empirico, ad esempio il ciliegio della precedente esemplificazione. Esso sembra dato alla percezione: in condizioni ambientali normali, una persona dotate di normali facoltà percettive che si trovi nel giardino al cui interno cresce il ciliegio, e guardi nel posto dove esso si trova, non può che vederlo, e non può far agire la sua vista in modo da percepire, al suo posto, nello stesso luogo spaziale, una quercia o una casa. Esso sembra costituito nell’immediatezza: chi lo vede nel giardino, lo riconosce come albero nel momento stesso in cui lo vede, e lo riconosce come ciliegio non appena vede penderne i frutti dai rami.
Ma le cose non stanno come sembrano. Marx osserva ironicamente, nell’”Ideologia tedesca”, a proposito della certezza sensibile del dato immediato posta da Feuerbach a fondamento di ogni verità, che lo stesso ciliegio che ogni mattina si offre alla certezza sensibile di Feuerbach dal suo giardino, vi si trova solo perché i ciliegi sono stati trapiantati in Germania dall’Asia qualche secolo prima grazie ad un’espansione dei commerci, perché c’è precedentemente stata una trasformazione sociale che ha portato a tale espansione dei commerci, e così via. Senza questo sviluppo storico, Feuerbach non vedrebbe là dove lo vede il suo ciliegio, che perciò non è affatto un dato, ma un posto, ovvero una costruzione storica.
Ciò che è empirico viene chiamato anche fatto. Questo termine, benché sia usato come sinonimo di dato, ha una portata semantica più appropriata alla realtà di ciò a cui è riferito: in quanto participio passato del verbo fare, indica non una datità, ma il risultato di una costruzione della prassi. Il fatto, cioè, è fatto dalla storia, sotto un duplice aspetto: la storia ne produce il contenuto, e dalla storia derivano le costellazioni mentali in riferimento alle quali le percezioni ne ritagliano la configurazione dai suoi sfondi.
La storia, d’altra parte, sgorga dall’antropologia e vi si inscrive. E’ anche vero che l’antropologia è plasmata dalla storia e vi si inscrive. Questi due lati debbono essere contemporaneamente ammessi. L’uomo vive immerso nei fatti storici, ed è lui stesso un fatto storico. E’ anche il fare da cui i fatti, e lui stesso come fatto, sono fatti. L’empirico è il prodotto di questa dialettica antropologica. Al di fuori di essa, e di una appropriata comprensione di essa, l’empirico non si rende intellegibile nel suo spessore di realtà, la realtà che non empiricamente lo ha generato, e mostra soltanto la sua superficie percettivamente rilevabile. Questa superficie, proprio perché astratta dalla realtà di cui è l’ultima manifestazione, appare come datità. Assumerla come tale è la scelta originaria di ogni empirismo, una scelta che tuttavia non è empiristica, bensì metafisica. La scelta di prendere il fatto come dato di fatto non è un dato di fatto, ma è appunto uno scegliere, un fare, un oltrepassare la datità. La scelta metafisica dell’empirismo è di fare del fatto un dato, passivizzando rispetto ad esso il pensiero e la comprensione.
Il trascendente. Trascendente è ciò che trascende la dimensione spazio-temporale del mondo empirico, vale a dire ciò che sussiste oltre di essa. E’ dunque l’aldilà non raggiungibile, neppure in linea di principio, lungo la sequenza delle  concatenazioni fattuali.
La trascendenza così intesa è, sul piano logico, una contraddizione in termini. Il problema se la trascendenza esista o meno secondo la sua pura definizione, quindi, non si pone neppure. Una questione di fatto sull’esistenza o sulla non esistenza si pone infatti per tutto ciò la cui esistenza non sia incompatibile con la logica del linguaggio, E’ ad esempio molto improbabile che esista sul nostro attuale pianeta una città in cui durante lo scorso anno non sia stato commesso neppure un reato. Si potrebbe tuttavia ricercare se per caso esista, perché la definizione di città e la definizione di rispetto della legge penale non sono incompatibili. Non si potrebbe invece nemmeno cercare, senza cadere nell’assurdo, un triangolo quadrato. Ma la trascendenza è come un triangolo quadrato, che se è quadrato non è più triangolo e viceversa. Trascendenza è infatti ciò che è aldilà o al di fuori di ogni spazio. Ma queste espressioni sono contraddittorie, perché “aldilà” e “ al di fuori” sono determinazioni spaziali, e hanno senso solo se riferite a entità nello spazio. Si può essere “al di fuori di questa stanza”, “al di là del sistema solare”, non si può essere “al di là dello spazio”. Analogo discorso per ciò che è “al di là del tempo”. D’altra parte se la trascendenza non è “al di là dello spazio (e del tempo)” non è più trascendenza ma immanenza. La trascendenza è in ogni caso inconcepibile.
Come ha potuto essere allora concepita lungo tutta la storia umana fino ad oggi? Si è riusciti a pensare il trascendente solo perché lo si è concepito non in modo trascendente, che sarebbe impossibile, ma in modo empirico. Nella misura in cui è stato pensato, il trascendente è stato pensato come iperuranio, cioè come un sovramondo, immagine trasfigurata del mondo sensibile, una specie di attico nobile del grande palazzo dell’empirico. Il trascendente, in altri termini, non può essere posto che come raddoppiamento idealizzato dell’empirico, come un empirico del piano di sopra privo dei difetti dell’empirico del piano terra della nostra fattuale esperienza. Lo sapeva Platone quando, nel Parmenide (il suo dialogo destinato, a differenza degli altri, più ai dotti che alla divulgazione), mostra come le idee poste in modo trascendente vengano necessariamente o rese inintellegibili o rese intellegibili solo in modo empirico. Lo sapeva Hegel quando, nella sua Fenomenologia dello Spirito, mostra come la coscienza scettica, che non crede in nulla che non sia una particolarità empirica, e la coscienza duplicata, che crede nell’intrasmutabile, siano ciascuna l’altra faccia dell’altra, e si generino l’una dall’altra. Per chi è abituato alle ricostruzioni usuali della storia della filosofia, che attribuiscono a Platone la trascendenza delle idee e ad Hegel la logicizzazione della storia, le cose appena dette appariranno sorprendenti. Per sincerarsi che sono vere, però, basta leggere i testi di Platone e di Hegel a cui si è fatto riferimento. D’altra parte, il fatto che appaia generalmente incredibile un Platone negatore della trascendenza delle idee, così come un Hegel negatore del panlogismo dei fatti, non è che un aspetto della scomparsa della conoscenza filosofica.
Il trascendente, dunque, non è mai davvero concepito secondo la sua definizione linguistica, che è come tale inconcepibile, ma è sempre concepito come un altro empirico sovrastante il nostro empirico. Questo sovraempirico è riempito di esigenze antropologiche, sia ontologiche che psicologiche, storicamente non legittimabili su base immanentistica, ed è tale suo contenuto che gli assicura una solida consistenza storica. I contenuti psicologici proiettati sul trascendente, che trascendente non è se non come sovraempirico, veicolano privilegi classisti, chiusure sociali ed istanze repressive che hanno fatto la violenza crudele delle religioni. Ma sul trascendente sono stati proiettati anche contenuti genuinamente ontologici, che rendono così filosoficamente ricche di insegnamenti anche metafisiche compiutamente teologali, come, ad esempio, quelle di Agostino o di Eriugena. A questo proposito è particolarmente appropriata la tesi di Hegel secondo la quale certi saperi basati su assolutezze trascendenti non sono falsi saperi, nonostante che la trascendenza della loro assolutezza sia falsa, e non sono neppure veri saperi: sono piuttosto saperi apparenti, nel senso che un contenuto realmente umano vi appare nella forma illusoria di un ente extraumano.
Il trascendente e l’empirico, quando vengono contrapposti l’uno all’altro, costituiscono una falsa opposizione, perché l’empirico considerato solo empiricamente ha un vuoto di significato che rinvia al trascendente come unico suo possibile riempimento, ed il trascendente ha un vuoto di contenuto che rinvia all’empirico come unica sua possibile consistenza. Questo reciproco rinvio, d’altra parte, non è comprensibile che da un punto di vista che non sia né empirico né trascendente, ma trascendentale.
Il trascendentale. Approdiamo così a quella che può essere considerata la nozione più genuinamente filosofica, e per questo più comunemente oscura e più facilmente equivocabile e distorcibile. Darne una definizione rigorosa serve solo fino ad un certo punto a renderla comprensibile, in quanto tale definizione ha un significato soltanto nella dimensione aperta dalla filosofia, dimensione alla quale molti intelletti sono esistenzialmente estranei.
Partiamo comunque da una definizione formalmente precisa. Trascendentale è la condizione universale del manifestarsi della realtà come tale. Ovvero è la forma della rivelazione della cose nella loro compiuta realtà. Il trascendentale non esiste, nel senso in cui esistono gli enti, ma è l’essere di tutte le cose che esistono, cioè la loro verità.
Il tempo è trascendentale, perché gli eventi non si manifestano come eventi reali se non nella loro collocazione temporale. La libertà è trascendentale, perché gli eventi non si generano come tali, nella loro realtà, se non in quanto libere creazioni o assunzioni dell’uomo. La finitudine è trascendentale, perché le cose non si manifestano se non entro i limiti che, nel renderle finite, ne determinano le specifiche realtà. La giustizia è trascendentale, perché le cose umane si manifestano sempre in una reciprocità di relazioni la cui complessiva configurazione è sempre valutabile come giusta o non giusta.
Questi succinti perché, la cui esplicitazione argomentativa è il succo genuino della filosofia, sollecitano intanto una prima intuizione del piano su cui la filosofia stessa si svolge. Si tratta di un accesso meno lineare di quello ad altre discipline, in quanto, se è vero che per comprendere il significato della filosofia è necessario comprendere il trascendentale, è anche vero che per comprendere il significato del trascendentale è necessario rappresentarsi il piano della filosofia. Filosofia è esperienza del trascendentale.
Il trascendentale non è né trascendente né empirico, ed è la spiegazione del generarsi del trascendente e dell’empirico. Il tempo, ad esempio, non è certo trascendente, in quanto l’idea del trascendente è l’essere al di là del tempo, ed il tempo non può certo essere al di là di se stesso. Ma il tempo non è neanche empirico, in quanto non è un contenuto dell’esperienza percettiva, essendone la forma: non posso dire che lì c’è il tavolo, lì c’è la sedia, lì c’è la parete, lì c’è la finestra, e lì c’è il tempo, come se fosse un oggetto tra i tanti, e quindi empirico. Perché è la forma in cui tutti si dispiegano, ed è proprio per ciò trascendentale.
L’empirico è il prodotto del trascendentale, di cui però non esprime, empiricamente considerato, se non il riflesso (questo, detto incidentalmente, è il senso veritativo del mito platonico della caverna). Ad esempio: ogni oggetto empirico è temporalmente costituito, ma non manifesta la sua temporalità costitutiva ad una considerazione meramente empirica, cioè come datità sensibile. Il ciliegio di un giardino sta nel giardino durante un certo tempo, (non c’era, ad esempio, un secolo fa, ed un secolo fa non c’era nemmeno il giardino, anch’esso empirico e dunque temporale). Ma ciò che vedo e tocco del ciliegio sono le sue ciliegie, il loro colore rosso, le foglie, la legnosità del tronco, non certo il tempo del suo dispiegarsi. L’intuizione della temporalità costitutiva del ciliegio è una sua intuizione ideale, non empirica, è una intuizione della trascendentalità propria dell’empirico.
L’empirico, che è sempre formato dal trascendentale, non sempre, anzi raramente, lo esprime con una certa compiutezza. Ciò rende più difficile rilevare la presenza del trascendentale nell’empirico, e l’incapacità di rilevarlo è la sorgente generativa del trascendente. Il trascendente è posto infatti come un trascendentale al di là del trascendentale dell’empirico non riconosciuto come tale. Ma poiché non è logicamente concepibile un trascendentale al di là della forma trascendentale dell’empirico, i suoi termini sono sempre contradditoriamente tratti dall’empirico contenuto nel suo non riconosciuto perimetro trascendentale. Il tentativo razionale di spiegare la trascendentalità dell'empirico non attraverso gli enti, È come se, non conoscendo la struttura scheletrica (il trascendentale) che tiene eretto un corpo (l’empirico), lo si immaginasse sorretto da grandi braccia invisibili (il trascendente), sul modello delle braccia visibili (l’empirico dal cui raddoppiamento trasfigurato si genera il trascendente) che sostengono gli oggetti.
Il nichilismo. Il rifiuto del trascendentale è il nichilismo. Nichilismo, infatti, è l’assunzione di un esistere senza essere. Ma, poiché l’essere dell’esistere è il trascendentale, in quanto condizione universale della realtà, quindi del suo essere (distinto dall’esistere), il nichilismo, una quanto negazione dell’essere dell’esistere, non è che  il rifiuto di assumere la realtà nella sua trascendentalità.
Esistere ed essere, che nel linguaggio ordinario sono sinonimi, non lo sono nel linguaggio filosofico, ed anzi la dimensione propria della filosofia è stata anticamente aperta da Parmenide proprio attraverso la distinzione tra esistere ed essere.
Esistere significa apparire nella dimensione empirica. Un albero, un fiume, una casa, una città esistono in quanto sono rinvenibili nell’esperienza. Essere è la permanenza ed il significato universali dell’esistere. Il nulla è il non essere, non il non esistere. Un asino con le ali non esiste, in quanto non rinvenibile empiricamente. Un’azienda che mira soltanto al profitto monetario, e che quindi non assicura alcuna stabilità ai suoi lavoratori, ritenuti sempre licenziabili, ed alcun significato umano al loro lavoro, fatto oggetto soltanto di sfruttamento, e che è instabile nel suo stesso assetto organizzativo e territoriale, rimesso sempre in gioco in rapporto alle convenienze di mercato, una tale azienda certo esiste, ma come nulla di essere.
Il nichilismo è quella condizione esistenziale e storica entro la quale l’essere è considerato nulla, in conseguenza del fatto che il nulla è stato scambiato per essere. La pseudofilosofia odierna, quando pensa al nichilismo, pensa a Nietzsche, per il quale il nichilismo nasce con la morte di Dio, si completa con la negazione dell’idealità sovrasensibile quale dimensione dei valori, ed apre così la strada al suo superamento nella trasvalutazione di tutti i valori attraverso il dire di sì alla vita sensibile. Secondo Nietzsche, inoltre, il germe remoto del nichilismo sta nella contrapposizione platonico-parmenidea del divenire, portatore del nulla, all’idealità sovrasensibile, paradigma dell’essere. Tale idealità, infatti, è destinata, non appena pensata in termini razionali, a dissolversi in un divenire non accettato come essere proprio perché originariamente concepito in riferimento ad essa, generando così la situazione del nichilismo.
Ma Nietzsche si sbaglia. L’adesione all’idealità trascendentale dell’essere, come viene argomentata nella tradizione filosofica a partire da Parmenide e Platone, è in realtà la configurazione non nichilistica dell’esistenza. Il germe nascosto del nichilismo sta invece nella credenza in entità trascendenti, che, destituendo di significato proprio l’immanenza antropologica, assume come essere di tale immanenza quelle nullità empiriche che, per tale credenza, rappresentano la trascendenza. Non dunque la morte del Dio trascendente apre lo spazio del nichilismo, ma, al contrario, proprio la sua vita nella credenza umana. Si è detto come il trascendente, costituito come riempimento di senso di un empirico che ne è stato svuotato perché assunto senza trascendentalità, sia tuttavia privo di ogni consistenza che non sia empirica. Per questo ogni divinità trascendente che compare nella storia vi si rappresenta non, per così dire, in proprio, ma attraverso un empiricissimo clero che la mette avanti come sua legittimazione. Ogni clero è un nulla (almeno nella misura in cui non si declericalizza esprimendo la trascendentalità), scambiato però dai suoi fedeli per essere, in quanto rappresentante dell’essere divino (un impensabile che trae pensabilità proprio dal clero che, nel rappresentarlo, lo fa consistere). Ma il nulla scambiato per essere è la vera base del nichilismo, di cui la riduzione dell’essere al nulla è una semplice conseguenza. E poiché ciò che fa scambiare per essere la nullità di ogni organizzazione clericale è la credenza in un Dio trascendente, è appunto la vita, non la morte, di questo Dio, ad aprire la strada al nichilismo.
La morte del Dio trascendente, d’altro canto, dilata la voragine del nichilismo, perché avviene storicamente non mediante un recupero dell’essere trascendentale, ma spostando il meccanismo dello scambiare il nulla per essere (scambio che è la sostanza del nichilismo) dal quel nulla che è rappresentato dal clero e dall’etica autoritario-repressiva, a quell’altro nulla che è rappresentato dal potere della ricchezza monetaria e dalla forza della tecnica. La genialità filosofica di Jacobi ha indicato la voragine del nichilismo, fin dall’inizio dell’Ottocento, nella concezione romantica che, dissolvendo la sostanzialità del reale nell’attività soggettiva, ha trasformato la soggettività in forza produttiva di sempre nuovi fenomeni attraverso l’annichilimento dei precedenti. Hegel, accettando la soggettività creatrice come spazio indispensabile alla libertà, ha indicato la via per mantenerla sostanziale, concependola non più romanticamente, ma logicamente, entro categorie che siano limiti  trascendentali al suo dispiegarsi. Ma la sintesi filosofica di Hegel è stata espulsa dalla prassi storica che, sfociando nel capitalismo e nella tecnica, è diventata demiurgia nichilistica.
Il postmoderno. L’epoca moderna, comunque se ne vogliano fissare i limiti cronologici sempre convenzionali, è caratterizzata dalla concezione della libertà come autodeterminazione della soggettività individuale (concezione diventata per noi ovvia, ma estranea alle epoche precedenti, che avevano inteso in altri modi la condizione libera), e dall’obiettivo di emancipare la soggettività individuale da tutte le autorità e le comunità capaci di soffocarne la creatività nel pensiero e nella prassi. La modernità è cioè come tale emancipatoria, e coincide nel suo concetto con i caratteri giuridici, politici, economici e scientifici della cosiddetta civiltà occidentale, distinta dall’Occidente come spazio geografico e come storia complessiva svoltasi entro tale spazio.
Da quando, nel 1979, Jean François Lyotard ha pubblicato il suo storico saggio “La condizione postmoderna”, ha cominciato a diffondersi la consapevolezza che la modernità è tramontata, e viviamo nel postmoderno. Ma che cosa deve intendersi per postmoderno? Lyotard, che ne ha in un certo senso coniato il termine sostantivo, traendolo da una aggettivazione data negli anni precedenti, a cominciare da Touraine, alla cosiddetta società postindustriale, lo ha concepito, in sostanza, come un nuovo statuto del sapere. Il sapere premoderno era costituito da quelle che lui ha chiamato “grandi narrazioni”, perché raccontano un senso complessivo e finalistico della storia umana, o “metanarrazioni”, perché erano riferite a molteplici narrazioni specifiche di fatti particolari come intepretazioni veritative di esse. Il sapere moderno si è legato alla potenza pragmatica di una nuova scienza capace di dominare l’empirico attraverso il linguaggio matematico e tecnico, la scienza moderna, appunto. Questa scienza si è all’inizio inscritta nell’obiettivo emancipatorio della modernità falsificando tutte le metanarrazioni premoderne soffocatrici della libera soggettività individuale, rivelando e poi creando nuovi fatti incompatibili con esse. Tale inscrizione è stata tuttavia opera di altre narrazioni, da quella baconiana a quella illuministica, da quella positivistica a quella popperiana, che hanno legittimato le scoperte scientifiche come epopea di disvelamento delle cose e di liberazione dell’uomo. Ma anche queste narrazioni si sono via via rivelate infondate. È così nata quella incredulità generale nei confronti della metanarrazioni che secondo Lyotard definisce il postmoderno. La caduta di ogni valenza legittimatoria delle grandi narrazioni cambia lo statuto del sapere. Il postmoderno è un modo di concepire il sapere oltre ogni metafisica, oltre ogni teoria di legittimazione, oltre ogni idea di formazione dello spirito, in cui il sapere diventa trattamento operativo delle informazioni.
Sviluppando queste considerazioni oltre Lyotard si può dire che il postmoderno è una forma di legittimazione del sapere attraverso la potenza produttrice delle cose. Esso giunge così agli antipodi del platonismo, che legittimava il potere attraverso il sapere del bene collettivo. Una volta distrutti i nessi coesivi della società dalla mercificazione capitalistica della vita, è scomparsa l’idea stessa del bene, degradato a utile particolare, e del sapere, degradato a potenza. Ciò che ha la potenza di imporsi, nella produzione, nella distribuzione e nella circolazione, e di fabbricare immagini collettive, diventa perciò stesso credibile. Le informazioni stesse che lo sostengono sono fabbricate, mentre la potenza sistemica esclude dalla circolazione informazioni difformi.
La realtà scompare così nel compiuto nichilismo, che la sostituisce con l’effettività sempre flessibile, anche nell’esistenza umana. Postmoderno non è, insomma, che un altro nome per il nichilismo compiuto, che a sua volta non è che un altro nome per il capitalismo assoluto. La potenza nichilistica del capitalismo, d’altra parte, non ha dovuto superare grosse resistenze, perché le idealità che hanno preceduto il capitalismo assoluto, da quella cristiana a quella marxista, erano trascendenze già in loro stesse potenzialmente nichilistiche. Non è possibile, infatti, credere in un Dio che non impone alcuna lotta concreta contro le ingiustizie del mondo, ed essere poi in grado di lottare contro le ingiustizie che più hanno colonizzato le menti, quelle insite nella potenza del capitale. Non è possibile credere nell’identità tra storia e progresso, identità che è implicita nel marxismo storicamente esistito, e poi essere in grado di contrastare, almeno sul piano intellettuale e morale, il capitalismo assoluto, che è un portato della storia e una sua potenza effettiva.”

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