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Marco amava passeggiare di notte
Marco amava passeggiare di notte, alla penombra arancione dei lampioni, in special modo lungo le strade di periferia. I palazzoni squadrati, sotto le stelle, lo guardavano bonari da serrande abbassate a metà come palpebre di finestre sonnolente. Persino il fruscio delle macchine sembrava il russare di venti lontani.
Com’era diverso, di notte. Marco poteva attraversare i cortili interni dei parchi residenziali e fermarsi ad annotare mentalmente le scritte sui muri, o giocare a indovinare l’età dei condomini dal volume dei televisori ancora accesi, il loro sesso dalla biancheria lasciata appesa all’umido della sera. Spiava, dalle grate esterne delle cantinole, corridoi illuminati da neon e ingombri di ogni sorta di cianfrusaglia. Da quella si poteva capire se lì ci abitassero bambini, sportivi, amanti del mare o della montagna, ciclisti, musicisti, radioamatori. A dirla tutta anche blatte e topi. Molte erano le cose che l’archeologia degli scantinati gli svelava.
Se incontrava gente, si trattava di anziani proprietari di cani, o di qualcuno uscito di casa in ciabatte per buttare la spazzatura. Li salutava con un cenno del capo e quelli ricambiavano per poi strascicare indietro verso casa, coi pensieri già poggiati sul cuscino.
Insomma, nessuna gang armata, niente che lo intimorisse: la periferia è pericolosa di giorno, coi tossici che ti vengono a rompere i coglioni per pochi spicci, e guai a curiosare, ma di notte rivela un volto gentile.
Così Marco se ne andava, le spalle coperte dallo sguardo della luna, a rovistare tra le vite della gente semplice. Di rimanere a casa a chattare su Instagram, come facevano gli altri, postando storie e controllando ossessivamente reazioni e visualizzazioni, proprio non ne aveva voglia. I suoi scantinati, almeno, erano veri, li guardava coi suoi occhi.
Fabio non era dello stesso avviso. Secondo lui negare realtà al virtuale, oramai, era sintomo di scarso realismo. Il passeggino senza una ruota che Marco aveva visto dalla grata del palazzo n. 7/A di via Einstein – sosteneva - è meno reale della foto in cui Fabio si paracaduta nella centrale di Zaporizhzhia sotto attacco. Tante visualizzazioni a una. Poco importa che fosse un fotomontaggio fatto male, e pure senza consapevolezza politica. Invece, quelle di Marco, erano visioni fugaci, non se ne conservava traccia, non c’era contatore o misuratore che tenesse conto del successo dell’esperienza appena fatta. Dove dunque andavano mai a finire le sue passeggiate? Svaporavano. Esse est percepi, ripeteva Fabio, fresco di lezione.
«Come fai a giudicare se non vieni almeno una volta a vedere?», aveva detto Marco all’amico, usciti da scuola. Era più un argomento retorico che un invito vero: Fabio di quella cosa non ne voleva sapere.
«È una cosa da strambi», gli aveva infatti risposto. E mentre diceva così tradiva una doppia irritazione. Fabio era stanco di doversi risentire in sua vece a certe allusioni dei compagni. Sembrava che Marco si compiacesse a fare l’eccentrico, o quantomeno che non si curasse affatto della considerazione degli altri. Ma soprattutto, di girare di notte per quei posti di merda Fabio aveva paura. Aveva allora rilanciato: «Perché non facciamo il contrario? Esci tu con me, una volta tanto. Fai sta cosa nuova, vieni in mezzo alla gente!»
Marco, in mezzo alla gente, provava un disagio che non sapeva spiegare. Una sorta di male fisico che gli prendeva allo stomaco e alle gambe. Altro che pericoli della periferia, era delle persone comuni che Marco aveva timore. Ma come spiegarlo a Fabio, se non riusciva a spiegarlo per bene nemmeno a se stesso?
«Ok», aveva detto, stupendo l’amico. Era stanco di inventarsi scuse, soprattutto nei propri confronti.
Si erano allora dati appuntamento per la sera stessa. Era un sabato. Si sarebbero incontrati al BarAonda, lungo il viale dei locali. Poi si erano salutati, ognuno incamminandosi verso la fermata del proprio autobus, con umori opposti.
Il marciapiede antistante al bar era un allevamento di polli in batteria. Avanzando nel cicaleccio generale, Marco evitava gli sguardi.
I ragazzi, affastellati in gruppetti, gli sembravano diversi. Al mattino mostravano smorfie di sonno e assumevano espressioni imbarazzate alle interrogazioni. Ora invece c’era su loro come una patina di malizia, un che di stregonesco negli sguardi. Subivano la trasformazione inversa a quella dei rioni: candidi di giorno, luciferini la sera. Da dove la prendevano quella sicurezza con cui si stagliavano tra i neon dei locali e gli altri simili, messi in cerchio a ridere come pronti per il Sabba? Marco non ci era abituato. Le loro risate alludevano a qualcosa che a lui era precluso, che non conosceva bene, che non capiva.
Come si entra in un cerchio a ridere? Mentre pensava queste cose, si sentì toccare da dietro: era Fabio, che lo tirava verso il suo gruppetto.
Adesso era in cerchio anche Marco, ma non ci sapeva stare. Fabio lo presentò ai suoi amici, questi gli sorridevano, parlavano, di tanto in tanto cacciavano di tasca i cellulari per mostrare video, ridevano. Marco invece non parlava, e se ogni tanto accennava a una risata lo faceva fingendo. Quando era tra i palazzoni di periferia poteva rubare suggestioni senza dover rendere nulla in cambio. Nel cerchio, invece, ci si aspettava interagisse. Ma che doveva dire? Cosa doveva raccontare?
Quegli altri si cavavano di impaccio ricorrendo alle foto o alle storie di Instagram, riproducendo in loop il video del gatto che articola il suono “coglioooone”. Bastava questo al ragazzo che gli si era presentato come Alessio per riuscire a far ridere la tipa brunetta, Marzia, di quel riso allusivo che a Marco provocava inquietudine.
Sì, per stare in cerchio bisognava diventare un po’ idioti, o non avere pudore di esserlo; doveva essere questo il patto faustiano. Tant’è che persino Fabio, che scemo normalmente non era, si prestava al gioco e faceva lo spaccone, sempre sotto gli occhi compiaciuti di Marzia, mostrando le foto della palestra, poi addirittura calandosi a fare le flessioni, mentre qualcuno faceva il video.
Venti minuti. Tanto aveva resistito Marco in compagnia degli amici di Fabio. Senza dir niente, mentre quest’ultimo era faccia al marciapiede, era scivolato nella calca e si era messo a camminare. Non per andare in un luogo preciso, quanto per allontanarsi da lì.
Quand’è così si tende a seguire sempre gli stessi percorsi, e alla fine, anche quella sera, quella che avrebbe dovuto fare eccezione, Marco si era ritrovato ad attraversare i complessi condominiali ben noti, a leggere le scritte imparate a memoria, a sentirsi protetto dal silenzio del cemento.
Nessuno che potesse osservarlo, nessuna aspettativa sul fatto di dover parlare e interagire, nessuna voce a incalzarlo. Tranne la sua, quella che lo stava interrogando e accusando: possibile mai gli risultasse un’impresa ciò che per il resto del mondo è svago? Trovava pace nell’amicizia degli arredi urbani: aveva ragione Fabio, era uno strambo.
Eppure, che noia gli argomenti dei suoi coetanei. E che poesia scovava a volte nei particolari che non ti aspetti di un muro scrostato… Uno strambo, di sicuro, davvero uno strambo.
All’altezza del parcheggio di Porta Nuova si imbatté nella barbonessa.
La incontrava non di rado da quelle parti. L’aveva ribattezzata così, in testa sua, per via dei suoi modi quasi aristocratici. Era una senza tetto a suo modo riservata; altri li vedevi urlare o trascinarsi barcollando, lei no. Aveva una sua panchina e vi sistemava le cose con ordine, piegando gli indumenti e disponendo il cibo con criterio.
Certo, era pur sempre una senza tetto, e certi comportamenti, giocoforza, di aristocratico non avevano nulla. Come calarsi le braghe e orinare in un’aiuola.
Probabilmente non si era accorta di Marco, altrimenti avrebbe atteso che passasse oltre. Tant’è, ora gli mostrava il sedere.
Marco si voltò, allontanandosi dallo spiazzo. Aveva una sua personale etica, riguardo alle passeggiate notturne: se voleva essere accolto dai quartieri, non doveva disturbarli. Poteva curiosare indisturbato finché lo avesse fatto con rispetto.
E però…
Però quella sera per la testa gli girava un rimprovero che non gli dava pace.
L’aveva fatto, e adesso si sentiva un ladro. Mentre trottava verso il centro, le serrande a mezza altezza dei palazzoni sembravano guardarlo accigliate.
Era davvero di nuovo in centro che stava andando? Era lì che voleva andare? Stava tradendo i suoi palazzi?
Era lì che doveva andare, piuttosto! È con gli altri ragazzi che deve stare un diciassettenne, non con le panchine e i barboni, Cristo santo! E così rimproverandosi, Marco accelerava il passo nel timore di non ritrovare più la comitiva, e che ciò che aveva fatto fosse vano.
Arrivato al BarAonda, il gruppo era ancora lì, inalterato. Si avvicinò a Fabio pensando di dover giustificare la sua scomparsa, ma non ce ne fu bisogno: non se ne era accorto.
Di nuovo nel cerchio. Di nuovo la sensazione di non saper cosa dire e come dirlo.
Provò a imitare il rituale. Cacciò il cellulare di tasca. «Guardate qua», balbettò. Sentiva che a fare quei gesti fosse un altro, e lui guardava da fuori. Anche il gruppo, ora, poteva ammirare il culo della barbonessa che piscia nell’aiuola, mandato a loop. Qualcuno ridacchiò. Qualcun altro disse a Marco che ci doveva fare una storia. Marco la fece.
Poi, d’un tratto, Alessio tese il braccio e attorno a lui si formò un capannello. Marco sulle prime pensò si trattasse di erba, perché i tre o quattro che lo attorniavano stavano curvi e nascondevano con le schiene cosa avesse in mano. Ogni tanto mandavano grida di stupore o bestemmiavano. Sembravano voler tenere lontano Marzia. No, non poteva essere erba, era sempre quel maledetto cellulare, sempre dei video, a quanto pare più interessanti del suo, che per qualche strana ragione non volevano mostrare a tutti. Fabio, ad esempio, non era tra gli iniziati, per cui Marco si stupì quando lo invitarono a guardare.
Erano filmati di gente che si ammazzava. Suicidi che, nell’andarsene all’altro mondo, avevano sentito l’esigenza di filmarsi. Chi si sparava in bocca, facendosi esplodere il cranio, chi si tagliava i polsi e aspettava, chi si lanciava dal settimo piano. Si trattava di un gruppo russo illegale di Telegram, disse Alessio.
«Porca M******, hai visto questo!»
«D** cane!»
Poi qualcuno con voce in capitolo intimò di mettere via quella roba e il gruppo, compreso Marzia, compreso Fabio, si rifece compatto attorno ai sani stupidi argomenti consueti. Tranne Marco, che se ne era di nuovo scappato.
La storia non era rimasta online che una mezz’ora, l’aveva cancellata appena allontanatosi dal gruppo. E lui non aveva poi un gran seguito, su Instagram. Cionondimeno, adesso che non vi si recava più con animo quieto, Marco capiva come le strade della periferia potessero spaventare. Ogni angolo in penombra poteva nascondere un’insidia, da quando le cose non lo guardavano più con benevolenza.
Attraversò i cortili come un impostore. Tutto si era fatto più tetro, la sua oasi di pace era perduta.
Arrivato al parcheggio, la rivide, la barbonessa. È a quel punto che decise di tornare a casa. Mentre si voltava, a Marco parve che lei gli sorridesse, e questo gli fece ancora più male.
Marco amava passeggiare di notte, alla penombra arancione dei lampioni, in special modo lungo le strade di periferia. I palazzoni squadrati, sotto le stelle, lo guardavano bonari da serrande abbassate a metà come palpebre di finestre sonnolente. Persino il fruscio delle macchine sembrava il russare di venti lontani.
Com’era diverso, di notte. Marco poteva attraversare i cortili interni dei parchi residenziali e fermarsi ad annotare mentalmente le scritte sui muri, o giocare a indovinare l’età dei condomini dal volume dei televisori ancora accesi, il loro sesso dalla biancheria lasciata appesa all’umido della sera. Spiava, dalle grate esterne delle cantinole, corridoi illuminati da neon e ingombri di ogni sorta di cianfrusaglia. Da quella si poteva capire se lì ci abitassero bambini, sportivi, amanti del mare o della montagna, ciclisti, musicisti, radioamatori. A dirla tutta anche blatte e topi. Molte erano le cose che l’archeologia degli scantinati gli svelava.
Se incontrava gente, si trattava di anziani proprietari di cani, o di qualcuno uscito di casa in ciabatte per buttare la spazzatura. Li salutava con un cenno del capo e quelli ricambiavano per poi strascicare indietro verso casa, coi pensieri già poggiati sul cuscino.
Insomma, nessuna gang armata, niente che lo intimorisse: la periferia è pericolosa di giorno, coi tossici che ti vengono a rompere i coglioni per pochi spicci, e guai a curiosare, ma di notte rivela un volto gentile.
Così Marco se ne andava, le spalle coperte dallo sguardo della luna, a rovistare tra le vite della gente semplice. Di rimanere a casa a chattare su Instagram, come facevano gli altri, postando storie e controllando ossessivamente reazioni e visualizzazioni, proprio non ne aveva voglia. I suoi scantinati, almeno, erano veri, li guardava coi suoi occhi.
Fabio non era dello stesso avviso. Secondo lui negare realtà al virtuale, oramai, era sintomo di scarso realismo. Il passeggino senza una ruota che Marco aveva visto dalla grata del palazzo n. 7/A di via Einstein – sosteneva - è meno reale della foto in cui Fabio si paracaduta nella centrale di Zaporizhzhia sotto attacco. Tante visualizzazioni a una. Poco importa che fosse un fotomontaggio fatto male, e pure senza consapevolezza politica. Invece, quelle di Marco, erano visioni fugaci, non se ne conservava traccia, non c’era contatore o misuratore che tenesse conto del successo dell’esperienza appena fatta. Dove dunque andavano mai a finire le sue passeggiate? Svaporavano. Esse est percepi, ripeteva Fabio, fresco di lezione.
«Come fai a giudicare se non vieni almeno una volta a vedere?», aveva detto Marco all’amico, usciti da scuola. Era più un argomento retorico che un invito vero: Fabio di quella cosa non ne voleva sapere.
«È una cosa da strambi», gli aveva infatti risposto. E mentre diceva così tradiva una doppia irritazione. Fabio era stanco di doversi risentire in sua vece a certe allusioni dei compagni. Sembrava che Marco si compiacesse a fare l’eccentrico, o quantomeno che non si curasse affatto della considerazione degli altri. Ma soprattutto, di girare di notte per quei posti di merda Fabio aveva paura. Aveva allora rilanciato: «Perché non facciamo il contrario? Esci tu con me, una volta tanto. Fai sta cosa nuova, vieni in mezzo alla gente!»
Marco, in mezzo alla gente, provava un disagio che non sapeva spiegare. Una sorta di male fisico che gli prendeva allo stomaco e alle gambe. Altro che pericoli della periferia, era delle persone comuni che Marco aveva timore. Ma come spiegarlo a Fabio, se non riusciva a spiegarlo per bene nemmeno a se stesso?
«Ok», aveva detto, stupendo l’amico. Era stanco di inventarsi scuse, soprattutto nei propri confronti.
Si erano allora dati appuntamento per la sera stessa. Era un sabato. Si sarebbero incontrati al BarAonda, lungo il viale dei locali. Poi si erano salutati, ognuno incamminandosi verso la fermata del proprio autobus, con umori opposti.
Il marciapiede antistante al bar era un allevamento di polli in batteria. Avanzando nel cicaleccio generale, Marco evitava gli sguardi.
I ragazzi, affastellati in gruppetti, gli sembravano diversi. Al mattino mostravano smorfie di sonno e assumevano espressioni imbarazzate alle interrogazioni. Ora invece c’era su loro come una patina di malizia, un che di stregonesco negli sguardi. Subivano la trasformazione inversa a quella dei rioni: candidi di giorno, luciferini la sera. Da dove la prendevano quella sicurezza con cui si stagliavano tra i neon dei locali e gli altri simili, messi in cerchio a ridere come pronti per il Sabba? Marco non ci era abituato. Le loro risate alludevano a qualcosa che a lui era precluso, che non conosceva bene, che non capiva.
Come si entra in un cerchio a ridere? Mentre pensava queste cose, si sentì toccare da dietro: era Fabio, che lo tirava verso il suo gruppetto.
Adesso era in cerchio anche Marco, ma non ci sapeva stare. Fabio lo presentò ai suoi amici, questi gli sorridevano, parlavano, di tanto in tanto cacciavano di tasca i cellulari per mostrare video, ridevano. Marco invece non parlava, e se ogni tanto accennava a una risata lo faceva fingendo. Quando era tra i palazzoni di periferia poteva rubare suggestioni senza dover rendere nulla in cambio. Nel cerchio, invece, ci si aspettava interagisse. Ma che doveva dire? Cosa doveva raccontare?
Quegli altri si cavavano di impaccio ricorrendo alle foto o alle storie di Instagram, riproducendo in loop il video del gatto che articola il suono “coglioooone”. Bastava questo al ragazzo che gli si era presentato come Alessio per riuscire a far ridere la tipa brunetta, Marzia, di quel riso allusivo che a Marco provocava inquietudine.
Sì, per stare in cerchio bisognava diventare un po’ idioti, o non avere pudore di esserlo; doveva essere questo il patto faustiano. Tant’è che persino Fabio, che scemo normalmente non era, si prestava al gioco e faceva lo spaccone, sempre sotto gli occhi compiaciuti di Marzia, mostrando le foto della palestra, poi addirittura calandosi a fare le flessioni, mentre qualcuno faceva il video.
Venti minuti. Tanto aveva resistito Marco in compagnia degli amici di Fabio. Senza dir niente, mentre quest’ultimo era faccia al marciapiede, era scivolato nella calca e si era messo a camminare. Non per andare in un luogo preciso, quanto per allontanarsi da lì.
Quand’è così si tende a seguire sempre gli stessi percorsi, e alla fine, anche quella sera, quella che avrebbe dovuto fare eccezione, Marco si era ritrovato ad attraversare i complessi condominiali ben noti, a leggere le scritte imparate a memoria, a sentirsi protetto dal silenzio del cemento.
Nessuno che potesse osservarlo, nessuna aspettativa sul fatto di dover parlare e interagire, nessuna voce a incalzarlo. Tranne la sua, quella che lo stava interrogando e accusando: possibile mai gli risultasse un’impresa ciò che per il resto del mondo è svago? Trovava pace nell’amicizia degli arredi urbani: aveva ragione Fabio, era uno strambo.
Eppure, che noia gli argomenti dei suoi coetanei. E che poesia scovava a volte nei particolari che non ti aspetti di un muro scrostato… Uno strambo, di sicuro, davvero uno strambo.
All’altezza del parcheggio di Porta Nuova si imbatté nella barbonessa.
La incontrava non di rado da quelle parti. L’aveva ribattezzata così, in testa sua, per via dei suoi modi quasi aristocratici. Era una senza tetto a suo modo riservata; altri li vedevi urlare o trascinarsi barcollando, lei no. Aveva una sua panchina e vi sistemava le cose con ordine, piegando gli indumenti e disponendo il cibo con criterio.
Certo, era pur sempre una senza tetto, e certi comportamenti, giocoforza, di aristocratico non avevano nulla. Come calarsi le braghe e orinare in un’aiuola.
Probabilmente non si era accorta di Marco, altrimenti avrebbe atteso che passasse oltre. Tant’è, ora gli mostrava il sedere.
Marco si voltò, allontanandosi dallo spiazzo. Aveva una sua personale etica, riguardo alle passeggiate notturne: se voleva essere accolto dai quartieri, non doveva disturbarli. Poteva curiosare indisturbato finché lo avesse fatto con rispetto.
E però…
Però quella sera per la testa gli girava un rimprovero che non gli dava pace.
L’aveva fatto, e adesso si sentiva un ladro. Mentre trottava verso il centro, le serrande a mezza altezza dei palazzoni sembravano guardarlo accigliate.
Era davvero di nuovo in centro che stava andando? Era lì che voleva andare? Stava tradendo i suoi palazzi?
Era lì che doveva andare, piuttosto! È con gli altri ragazzi che deve stare un diciassettenne, non con le panchine e i barboni, Cristo santo! E così rimproverandosi, Marco accelerava il passo nel timore di non ritrovare più la comitiva, e che ciò che aveva fatto fosse vano.
Arrivato al BarAonda, il gruppo era ancora lì, inalterato. Si avvicinò a Fabio pensando di dover giustificare la sua scomparsa, ma non ce ne fu bisogno: non se ne era accorto.
Di nuovo nel cerchio. Di nuovo la sensazione di non saper cosa dire e come dirlo.
Provò a imitare il rituale. Cacciò il cellulare di tasca. «Guardate qua», balbettò. Sentiva che a fare quei gesti fosse un altro, e lui guardava da fuori. Anche il gruppo, ora, poteva ammirare il culo della barbonessa che piscia nell’aiuola, mandato a loop. Qualcuno ridacchiò. Qualcun altro disse a Marco che ci doveva fare una storia. Marco la fece.
Poi, d’un tratto, Alessio tese il braccio e attorno a lui si formò un capannello. Marco sulle prime pensò si trattasse di erba, perché i tre o quattro che lo attorniavano stavano curvi e nascondevano con le schiene cosa avesse in mano. Ogni tanto mandavano grida di stupore o bestemmiavano. Sembravano voler tenere lontano Marzia. No, non poteva essere erba, era sempre quel maledetto cellulare, sempre dei video, a quanto pare più interessanti del suo, che per qualche strana ragione non volevano mostrare a tutti. Fabio, ad esempio, non era tra gli iniziati, per cui Marco si stupì quando lo invitarono a guardare.
Erano filmati di gente che si ammazzava. Suicidi che, nell’andarsene all’altro mondo, avevano sentito l’esigenza di filmarsi. Chi si sparava in bocca, facendosi esplodere il cranio, chi si tagliava i polsi e aspettava, chi si lanciava dal settimo piano. Si trattava di un gruppo russo illegale di Telegram, disse Alessio.
«Porca M******, hai visto questo!»
«D** cane!»
Poi qualcuno con voce in capitolo intimò di mettere via quella roba e il gruppo, compreso Marzia, compreso Fabio, si rifece compatto attorno ai sani stupidi argomenti consueti. Tranne Marco, che se ne era di nuovo scappato.
La storia non era rimasta online che una mezz’ora, l’aveva cancellata appena allontanatosi dal gruppo. E lui non aveva poi un gran seguito, su Instagram. Cionondimeno, adesso che non vi si recava più con animo quieto, Marco capiva come le strade della periferia potessero spaventare. Ogni angolo in penombra poteva nascondere un’insidia, da quando le cose non lo guardavano più con benevolenza.
Attraversò i cortili come un impostore. Tutto si era fatto più tetro, la sua oasi di pace era perduta.
Arrivato al parcheggio, la rivide, la barbonessa. È a quel punto che decise di tornare a casa. Mentre si voltava, a Marco parve che lei gli sorridesse, e questo gli fece ancora più male.