Il posteggiatore di pensieri. Parte 2

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 Lentamente si avvia verso il bar dove lavora mezza giornata: il padrone, Lauro, è un uomo che quando parla sputa perché ha perso i tre denti davanti in un incidente in moto, è alto e grosso con una pancia da donna al nono mese, ma dietro al banco c’è una sua fotografia a torso nudo quando da giovane faceva il pugile, cosa di un secolo fa. Soffre di tutte le malattie del mondo, se uno per sbaglio dice che ha una patologia subito si affretta a dire che ce l’ha anche lui anche se la metà delle cose sono ingigantite o inventate. E’ un antipatico che finge di essere simpatico oltre ad essere un unione tra un genovese ed uno scozzese quando deve pagare Luca. Sembra sempre che quasi gli stia donando parte del suo sangue. Ha una scaletta di battute tra l’orribile e il drammatico che usa e ripete ad ogni cliente che entra sperando di far ridere e se qualcuno accenna un seppur vago sorriso diventa per quell’ attimo il suo miglior amico.
Luca lega il motorino al palo, entra dentro il bar, accende le luci e quel posto angusto si illumina. A breve arriveranno i soliti consumatori, deve muoversi perché se qualcosa non va Lauro è pronto a gettare colpe sulla schiena di chiunque gli sia vicino. Accende la musica, il silenzio opprime i pensieri, si mette a lavare il banco mette le sedie in linea e prepara ogni cosa: la battaglia sta per iniziare.  Guarda l’orologio, deve aprire: un attimo prima arriva Lauro con le brioches, accenna un saluto con un grugnito, Luca risponde con un cenno di testa e poi arrivano lentamente i primi avventori e per almeno un’ora si parla del niente ascoltando tutto il necessario per non pensare. Basta attendere e quel turbinio si placa, Luca in un attimo di quiete si mette a lavare le tazzine e a spazzare per terra, Lauro bofonchia qualcosa che poi diventa quasi comprensibile.
Ore dodici: Lauro comincia a mettere il vino rosso e bianco nelle caraffe e spesso, anche se di poco, lo annacqua giusto per giungere all’orlo della caraffa, fregare gli altri è una cosa che lo fa star bene.  Alle due finalmente Luca esce dal bar, Lauro è seduto a mangiare qualcosa che non è riuscito a rifilare ai clienti. Prima di andare a casa passa in una piccola strada e dà un’occhiata ad un vecchio bar dove sostano di solito i suoi amici: fa bene al cuore rallentare i pensieri e ridere. Luca li guarda e si sente meno solo, loro sono molto di più di quello che si vede per lui sono fratelli, anime identiche alla sua che nessun sole vuole riscaldare. Stare con loro fa diventare leggero ogni pensiero, oggi però è stanco, si deve ricaricare: li saluta urlando, Mario si gira e gli urla qualcosa, lui alza il pollice senza aver ben capito cos’ha detto.
Torna a casa e per prima cosa fa mangiare i suoi due pesci Alfredo e Sonny, pesci rossi di un bel colore acceso. Li guarda attento mentre divorano il mangime, poi si mette sul divano per leggere un libro di storia sui Romani, ma non riesce ad andare oltre le cinque righe che gli occhi si chiudono, maledetto divano ha il potere del sonno incorporato. Dopo mezz’ora suonano alla porta: Luca si sveglia, spalanca gli occhi, si stiracchia e si alza con uno scatto. Chi è fuori deve avere parecchia fretta, perché insiste e a Luca gli insistenti fanno prudere le mani. Dall’altro lato della porta gli pare di riconoscere la voce di sua madre e poi quella di un uomo. Prima di aprire guarda dallo spioncino e vede sua madre vicino all’uomo che tanto detesta, diventa nervoso: Elisa sa bene che non lo vuole vedere, pensando come aggredirla apre la porta soltanto a metà.
“Cosa succede?”  
La mamma lo guarda e gli dice: “Fammi entrare, devo darti una brutta notizia.”    
Luca la scruta dritto negli occhi giusto per comprendere che si deve trattare di una cosa grave, apre la porta ma dice: “Entri solo tu, lui no.”
L’uomo fa una faccia rassegnata, strano, di solito prova sempre a tentare un contatto, Elisa non discute e anche questo non pare normale, alla fine lei entra, lui resta fuori. Elisa si siede, attende come se la cosa non fosse facile da far uscire poi di getto dice tutto di un fiato.
“Hanno trovato tuo padre morto in un parcheggio, pare si sia suicidato con dei sedativi.”   
Luca è in piedi, non proferisce parola mentre lei continua implacabile come se stesse raccontando di un lontano parente.   
“La polizia è venuta a casa di Bruno e mi ha fatto un mondo di domande, io non ho risposto a quasi niente, tu lo sai non lo vedevo da anni. Volevano sapere se avesse debiti o nemici, gli ho risposto che non sapevo nulla e che i nemici li abbiamo un po’ tutti. Cosa dovevo dire, che tuo padre era uno che i guai li fabbricava per lui e per chi gli stava vicino?”
 Quanto dura, pensa Luca, il debito verso i genitori per averti fatto nascere? Tenta di darsi una veloce risposta dentro di sé e presto arriva la risposta: probabilmente tutta la vita. Sua madre parla come una macchinetta, è inarrestabile, ricorda episodi e cose che fanno ridere, perché Rodolfo faceva ridere solo a guardarlo, così l’aveva conquistata facendola ridere come fosse davanti ad un film comico. Elisa abbraccia Luca, erano anni che non lo faceva. E’ il gran potere della morte che unisce anche i punti più distanti, le differenze incolmabili, un potere silenzioso che ferma per un attimo il tempo del rancore e delle accuse. Elisa ha un attacco d’ansia Luca cerca di calmarla provando a farle fare respiri lunghi e profondi, quand’era piccolo era il suo compito se in casa non c’era nessuno. Alla fine, anche la sua vita non è stata semplice: quando si riprende ha la faccia terrea e gli occhi spenti, singhiozzando dice: “Rodolfo era l’unico che mi facesse veramente ridere.”  
Un temporale di lacrime si abbatte sulle sue guance, sembra realmente disperata, il fazzoletto non riesce più a tenere l’inesauribile pioggia di lacrime perdute. Luca non capisce cosa stia succedendo e per cosa pianga: non ha forse perso quello che da tempo aveva perduto? Lui lo sa che non piange per l’uomo, ma per quello che scomparendo fa morire anche una parte di lei, di quand’erano giovani e si sentivano invincibili, sempre mano nella mano nelle foto, sembravano così uniti da potersi definire felici. Adesso sta con un uomo che è felice quando si sazia col cibo e gioca alla schedina: Luca la comprende, meglio che sentire la propria voce in una stanza da sola, meglio mille sonni con vicino la noia che l’elettricità che portava Rodolfo, eppure nei suoi occhi legge il rimpianto di quando perfino il cielo pareva capovolto da camminarci sopra, quando era ancora così ingenua da credere ai sogni. Elisa tiene stretto a sé il figlio, la morte spaventa anche chi spesso la invoca, Luca se lo ricorda bene quando litigavano ed Elisa esasperata urlava che l’unica cosa buona che avrebbe potuto fare Rodolfo era morire.
Due giorni dopo davanti ad una chiesa sotto una pioggia fastidiosa e sottile c’è un carro e dentro un uomo, uno dei tanti che scomparsi senza fare rumore. Una storia di macerie e fallimenti, un ultimo che la gente ricorderà pensandosi meglio, perché anche le persiane più sgangherate pensano di fermare i raggi del sole. Elisa non ce l’ha fatta a venire sola, c’è anche il posteggiatore di pensieri a reggerla nel dolore, appena vedono Luca si distanziano, lui fa due passi indietro temendo forse che in questo momento delicato Luca possa creare scompiglio. Un pensiero attraversa Luca: potrebbe urlare, prendere a calci il posteggiatore di pensieri, magari perfino accoltellarlo, suo nonno che aveva fatto la guerra gli aveva raccontato che uccidere un uomo non è cosa semplice, ma la cosa si può risolvere con un colpo ben assestato giusto per vedere la luce degli occhi spegnersi.
Si guarda attorno: oltre al posteggiatore di pensieri c’è solo l’imbarazzo della scelta, parenti sordi e muti nei tanti momenti del bisogno, oppure Annibale uno strozzino che parla come un amico ma strangola la gente bisognosa con le sue spire come un ‘anaconda o Sonia un’ipocrita devota alla chiesa da sempre innamorata di Rodolfo pronta sempre a gettare veleno su Elisa. Che gran funerale sarebbe, lui impazzito che spara sulla folla roba da prima pagina, finirebbe in televisione, già se lo immagina, Luca Larini e la storia della sua famiglia.
Niente di tutto questo accadrà, la realtà è molto più semplice dei contorti alambicchi della fantasia: il prete che ripete la procedura con le solite preghiere, la gente a testa bassa stretta nel silenzio dei loro pensieri, le finestre della chiesa che riflettono una luce sofferente, panche scolorite con sedie vecchie di almeno mille anni, l’odore forte di incenso che soffoca l’aria. Da lontano Luca intravede anche Mario e Mimmo, è contento che siano venuti, loro lo conoscevano, quand’erano piccoli bastava dirgli di portarli ai giochi e lui si alzava e li portava. Mimmo e Mario non fanno domande, altri invece vogliono sapere, ma non c’è nulla da spiegare, siamo tutti indebitati con la vita e prima o poi il debito lo si deve pagare.
Una cassa con dei fiori sopra, Rodolfo è li dentro, chissà se potesse dire ancora una parola cosa direbbe, probabilmente qualcosa di ridicolo, ma il prete è una luce spenta e non trova nessuna parola che possa dare un vero conforto. Luca chiude gli occhi e pensa a scavare nell’anima, ma non sente nulla, si sente sordo perfino al dolore. Chissà cos’è la morte? Non trova una risposta, ma gli viene in mente quello che diceva Rodolfo.
“Vedi Luca la morte non ti deve spaventare, alcuni dicono sia il nero assoluto, magari è un misto di colori, hai presente un cono gelato con più gusti.”
La morte come una coppa mista lo fa sorridere, qualcuno lo guarda, mai dimenticarsi che lo spettacolo della morte vuole soprattutto una forma, così prova a ricomporsi. Usciti dalla chiesa dà a tutti un pezzo di carta con un pensiero di Rodolfo, tutti guardano, chiedono, ma non c’è niente da comprendere, bisogna solo leggere. Sua madre gli si avvicina e gli chiede cosa stesse dando.  
“Ho dato qualcosa di Rodolfo, tieni questo è per te.”
Elisa lo prende, ha quasi timore, ma lo sa che deve leggerlo: - Ricordati che una caramella una volta scartata la devi mangiare. - Elisa piange, Luca si incammina verso il motorino, domani deve fare molto per avere la forza di alzarsi, per dimenticare il canto sordo delle mani che lo hanno stretto e che domani lo lasceranno solo.
 
 
 
 
 
 
 
 
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