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Carta: L'annegato - Lo scorrere - L'inesorabile
Avevo nove anni quando la miniera di carbone in cui lavorava mio padre crollò, intrappolandolo insieme ad altri ventuno minatori nelle sue viscere. Il proprietario della miniera ci disse che erano stati fortunati: erano morti rapidamente, annegati. Nei tre giorni precedenti aveva piovuto senza interruzione, tanto da far straripare il fiume. Le pareti della galleria laterale si erano staccate precipitando sulle pompe di drenaggio.
All’epoca non capii perché mio padre e gli altri minatori fossero stati fortunati a morire subito e in quel modo; pensavo che fosse più ovvio resistere a lungo al buio, al freddo e nel terrore, ma vivi, nell’attesa dei soccorsi che avrebbero potuto andare a salvarli. Chiesi spiegazioni a mia madre, e lei per tutta risposta mi ordinò di radunare le mie cose, perché saremmo andati ad abitare nella contea dello Yorkshire, da una sua sorella che aveva sposato un servitore della dimora di Lord e Lady Chatswood.
Gli zii vennero a prenderci alla stazione. La zia volle sapere se il viaggio era stato confortevole. Lo zio, che avevo visto una sola volta prima di allora, si accertò che non avessi pidocchi tra i capelli. Indossavano dei paltò di lana pesante; le loro scarpe erano talmente pulite che mi sembrò che fossero arrivati fin lì camminando sull’aria. Lo zio frustò i cavalli e condusse il carro attraverso la proprietà di Lord Chatswood, fino a che non arrivammo a un capanno in riva al fiume. Ci scaricarono assieme a un sacco di liscivia, delle coperte lise e sacchetto con una decina di patate. Queste ultime, disse mio zio, erano un dono a cui non ci dovevamo abituare: a partire dal giorno seguente, il cibo avremmo dovuto guadagnarcelo come tutti gli altri.
Il lavoro era sfiancante, ma mia madre mi ripeteva che eravamo fortunati. Oltre alle patate e agli avanzi della domenica dalla cucina dei padroni, avevamo un paio di galline che scorrazzavano in un recinto e tanta legna per riscaldarci facendo ardere il fuoco sotto il pentolone in cui lavavamo la biancheria di Milord e Milady. Gli zii e gli altri servitori, invece, avevano solo dei bracieri nelle loro gelide stanze nelle soffitte di Chatswood Manor. Arrivò l’estate, e il caldo e il vapore diventarono una tortura; mia madre mi ripeteva che eravamo fortunati a vivere isolati nel capanno, perché non dovevamo sottostare alle bizze e allo staffile di Milady.
Avevamo anche il permesso di Milord di pescare le trote. Le prendevo con una canna alla quale avevo attaccato uno spago; dall’amo facevo penzolare i vermi scovati sotto i sassi. Mia madre mi insegnò a infilzarli in modo che non morissero subito e continuassero a contorcersi sott’acqua, dovrai solo sederti, tirare l’amo e aspettare che abbocchino, mi disse, e mi indicò un punto lì vicino, in cui la corrente aveva scavato un letto profondo dove c’erano tante trote, e rane e lumache tra le canne che ricoprivano la sponda. L’aveva saputo la prima volta che Milord era venuto al capanno.
Il fiume era un serpente liquido che cambiava forma ingrossandosi e sgonfiandosi con il passare delle stagioni. Un giorno (mi ero appena seduto sulla riva della sponda pescosa, dove andavo tutte le volte che vedevo Milord sopraggiungere lungo il sentiero che portava al capanno), lo vidi rimontare in groppa al suo cavallo e spronarlo al galoppo. Corsi a casa e trovai mia madre seduta sulla sedia a fissare una mezza sovrana d’oro che luccicava al centro del tavolo. Alzò gli occhi su di me senza quasi senza vedermi, poi si alzò, si infilò la moneta in una tasca, si mise lo scialle sulle spalle e uscì, dicendomi che andava al villaggio a fare una commissione. Rientrò molte ore dopo, e andò a coricarsi senza dire una sola parola.
Il mattino dopo la chiamai dal mio giaciglio, sorpreso perché non si era ancora alzata, poi andai a scuoterla afferrandola per il braccio. Ritirai la mano, inorridito: la sua pelle era fredda e bianca come il marmo. Sollevai le coperte. Il sangue aveva impregnato il materasso e la chiazza si era estesa a partire dall’altezza del bacino fin quasi all’altezza dei piedi e delle spalle. Non avrei mai creduto che mia madre, una donna così minuta, potesse avere avuto tanto sangue in corpo.
L’avevo appena seppellita nel cimitero del villaggio, ma dovetti ricacciare indietro le lacrime, perché i miei zii mi portarono quel giorno stesso al cospetto dei padroni.
Dovetti restare in silenzio e tenere lo sguardo fisso sulle mie scarpe. L’odore rancido del sudore di Milady, misto al suo profumo di essenza di rose, mi dava il voltastomaco.
“Sarà di certo un bastardo, come quello che sua madre ha estirpato dal suo ventre di cagna, di chiunque fosse figlio. Quanti anni ha?” disse Milady, rivolta a mio zio.
“Dodici, vossignoria. Sa leggere e scrivere.”
“Davvero? Che cosa stramba. Certo, è troppo magro, ma è forte e sano...” disse Milady quasi a sé stessa, toccando le mie spalle con lo staffile. “Ma se continuassimo a tenerlo a servizio getterebbe un’ombra sulla tradizione di rettitudine morale della servitù, che mi costa tanta fatica preservare. Non ne convenite, marito caro?”
“Non posso che convenirne, moglie cara” rispose Milord. “Siete una donna saggia.”
“Dovremmo far bruciare il capanno sul fiume” disse Milady. “È diventato un rifugio per i peccatori.”
“Lo farò di persona” disse Milord.
Avvertii il suo sguardo posato su di me.
“Non gli spetterebbe nulla, ma voglio essere generoso” continuò Milord, e dopo aver riflettuto su quanto valevano i tre anni che io e mia madre avevamo trascorso facendo bollire la sua biancheria, decurtò dalla somma la perdita del capanno e forse anche le trote che avevo pescato nel fiume, poi estrasse dal panciotto una mezza sovrana d’oro e la diede a mio zio. “Fagli prendere le sue cose, accompagnalo alla stazione e dagli questa” gli disse.
“Dovrò pensare a una punizione per te, Mary, per avermi messo in questa incresciosa situazione portando qui tua sorella. Lo capisci?” disse Milady.
La zia tacque, e a stento soffocò un singhiozzo.
Sono passati tanti anni da allora, che hanno cancellato dalla mia memoria il viso di mia zia e il suono della sua voce, ma ricordo come se fosse ieri quel mezzo singhiozzo. Sebbene non fossi certo che non fosse dovuto alla rassegnazione più che al dolore alla rabbia, mi diede lo sprone per portare avanti i propositi che maturai davanti alla tomba di mia madre.
Il giorno seguente mio zio, eseguendo gli ordini ricevuti da Lord Chatswood, mi accompagnò alla stazione e dopo avermi dato una pacca sulla spalla, mi consegnò la mezza sovrana d’oro. Salii sul treno, con la valigia di cartone in una mano e la moneta nell’altra. Affacciato al finestrino, aspettai che lo zio si fosse allontanato nella direzione opposta a quella in cui sempre più veloce si stava muovendo la bestia di metallo e poi, mentre un fischio stridulo e il vapore riempivano l’aria, aprii lo sportello e saltai giù toccando terra malamente. Una donna mi vide e gettò uno strillo, costringendomi a rialzarmi in fretta, nonostante il dolore lancinante alle ginocchia. Lo zio non si era accorto di nulla. Era già sparito dalla vista.
Per tornare al capanno seguii per quindici miglia il corso del fiume verso nord. Arrivai a notte fonda. Del fuoco che aveva arso le mura di legno erano rimasti dei tizzoni fumanti e del rossore tra le cenere. Mi nascosi nel canneto, l’unico posto nel quale mi sentivo a casa.
Milady si recava nel roseto tutti i pomeriggi alla stessa ora e lì restava per un po’, tutta sola, quando non aveva ospiti e il marito era occupato in tutt’altre faccende. Sedeva a un tavolino, si faceva versare il tè da una serva e poi la cacciava via, come se la sua presenza potesse guastare la bellezza di quel luogo incantato.
Studiai i suoi movimenti per una settimana, acquattato dietro a un cespuglio di rose. Me ne stavo immobile, ad osservare come sorseggiava il suo tè, i suoi ricchi abiti, le sue rughe scavate dall’espressione di costante cipiglio, le braccia e la parte scoperta di seno; immaginavo il resto del suo corpo flaccido ricoperto dalle crinoline che qualcun altro, ora, lavava per lei. La osservavo e aspettavo.
L’occasione si presentò il giorno in cui, esaudendo i miei silenziosi desideri, Milady si lasciò scivolare all’indietro sulla sedia da giardino, reclinò il capo e si assopì. Mi guardai in giro: c’erano solo uccelli sugli alberi e insetti svolazzanti tra le rose.
Uscii dal mio nascondiglio, raccolsi una pala lì vicino e la raggiunsi. Le sue labbra erano socchiuse, e il respiro si era fatto pesante. Mi sarebbe piaciuto che aprisse gli occhi e mi guardasse dal basso, atterrita da quella inconsueta vicinanza, ma l’urlo avrebbe richiamato la servitù, e perciò fui costretto ad agire prima che si svegliasse. Misurai l’inclinazione della pala in modo che colpisse di taglio la nuca di Milady: volevo che facesse rumore il meno possibile e così fu, perché il delizioso crepitio delle ossa che si frantumarono nell’impatto fu udito da me soltanto. Con uno strattone estrassi la pala che si era conficcata nel cervello, tirandone via un pezzo che mi imbrattò i vestiti. Usai un lembo della gonna di Milady per ripulirmi, poi la afferrai per i capelli e la trascinai via con me, lasciandomi dietro una scia rossa che si interruppe nel punto in cui la caricai su un carretto, per poi sparire indisturbato nel bosco che circondava la tenuta.
Quella sera, con il cappello calato sulla fronte e il capo abbassato, mi unii alla folla che si era radunata nella piazza del villaggio. Era stato il diavolo in persona a portarsi via Milady, dicevano.
I servitori della tenuta, terrorizzati, furono mandati quella stessa notte a stanarlo prima che ritornasse nell’antro da cui era stato sputato. I riflessi delle torce danzavano sull’acqua del fiume che scorreva tranquillo.
Nei giorni successivi si unirono alle ricerche anche lo sceriffo e alcuni abitanti del villaggio. Cercarono me e Lady Chatswood invano, mentre io, nascosto in una buca naturale che avevo allargato per farne la mia tana, con un coltello tagliavo dal corpo di Milady striscioline e di carne e pelle da attaccare all’amo per pescare le trote di Milord. Quando il fetore della decomposizione cominciò a diffondersi nell’aria, legai il corpo a un masso e lo lasciai sprofondare nell’acqua.
Gli abitanti del villaggio, ormai, non parlavano d’altro che della scomparsa di Lady Chatswood; al calare della sera correvano a rinchiudersi in casa sprangando porte e finestre. Venni a sapere che era stato arrestato un fabbro che un mese prima si era ubriacato nella locanda e aveva parlato male di Milord; parve anche a me di sentire le sue urla provenire dalle segrete in cui lo sceriffo lo stava interrogando.
“Ehilà, Alfred, tutto bene?”
“Qui tutto bene!”
Lord Chatswood aveva organizzato i turni per la ronda di guardia. Conficcate nel terreno, qua e là delle fiaccole accese squarciavano il buio.
I servitori si chiamavano l’un altro per darsi coraggio. Non sapevano che il diavolo di cui dovevano aver paura era già dentro Chatswood Manor: vedevo la sua ombra sulla tenda di una finestra del primo piano. Era l’unico ancora sveglio in tutta la tenuta, a parte i servitori di ronda. Tutti gli altri si erano già coricati, dovendosi alzare prima dell’alba. Immaginavo Milord chino sulla scrivania, a contare il suo denaro; era diventato un uomo terrorizzato ma anche molto più ricco, da quando lo avevo reso vedovo. I beni della moglie, che aveva potuto solo amministrare, ora erano suoi.
L’uomo che si stava avvicinando al punto in cui mi ero nascosto reggeva con una mano la fiaccola, e con l’altra accarezzava il fucile da caccia appeso alla spalla. Era più alto di me di almeno due spanne, e ben piazzato. Non lo temevo. Avevo dalla mia l’agilità e la determinazione.
Lasciai che mi si avvicinasse e lanciai un urlo, imitando il verso della civetta. L’uomo sobbalzò, spaventato. Come mi aspettavo, restò immobile, con la torcia alzata, a fissare la boscaglia scura, poi riprese a camminare accelerando il passo e senza voltarsi indietro.
Potevo già vedere la luce della fiaccola dell’altro servitore: dovevo agire in fretta. Spiccai una corsa e raggiunsi il lato nord della costruzione. L’edera lambiva il tetto su cui si aprivano gli abbaini delle stanze della servitù. Nessuno si aspettava che il mostro che aveva ucciso Lady Chatswood potesse penetrare in casa arrampicandosi sull’edera; non immaginavano che potesse essere un ragazzo magro e ancora basso di statura. Io stesso, del resto, temevo che i rami non potessero reggere il mio peso. Mi feci coraggio, sistemai sulla schiena la sacca che avevo portato con me e cominciai a scalare la parete, badando di restare sempre aggrappato ai rami con una mano, mentre con l’altra cercavo un altro punto con cui procedere.
Giunto in cima, restai per un attimo sul cornicione, al sicuro, a riprendere fiato.
Dovevo avere il diavolo dalla mia parte. Le finestre degli abbaini erano tutte buie, lasciate socchiuse per dare aria alle stanze. Era stata una giornata insolitamente calda, e il sole aveva infuocato il tetto.
Ne aprii una, e silenziosamente scivolai dentro. Sentii un ronfare rassicurante. Presi dalla sacca una lanterna, sfregai un fiammifero sul pavimento e l’accesi. Non mi curai dell’uomo e della donna che dormivano della grossa salvo scoprire, con sollievo, che non erano i miei zii. Li lasciai come li avevo trovati, e mi avventurai in corridoi sconosciuti.
Cercai di tenere a mente le direzioni che prendevo a ogni svolta. Ero penetrato da un abbaino del lato est, lo stesso in cui si trovava la finestra accesa di Milord.
Riuscii a scendere senza difficoltà al primo piano e lì mi persi, tra quadri appesi, lunghi corridoi e troppe porte chiuse. Ero io, adesso, ad avere paura. Come potevo individuare la stanza che stavo cercando? E se qualcuno fosse uscito all’improvviso da una di quelle stanze e mi avesse visto lì, fermo, con la lanterna in mano?
Sorrisi, e mi diedi dello stupido. Soffiai all’interno del lume e spensi la fiamma. Dovevo solo aspettare che gli occhi si abituassero alla totale oscurità, e avrei distinto la lama di luce sotto la porta dello studio di Milord.
Non si accorse della porta che si apriva lentamente; la spinsi quel tanto che mi bastava per infilarmi all’interno. Proprio come avevo immaginato, l’uomo era assorto sulle sue carte. Sulla scrivania c’era un bicchiere di liquore, e un posacenere con un sigaro acceso. Non aveva l’aria del vedovo affranto, e dentro casa si sentiva al sicuro.
C’era un solo candeliere acceso vicino alla finestra, e non riusciva a illuminare tutta la stanza.
Milord non mi vide strisciare sul pavimento rasentando il muro in ombra. Avanzai pollice dopo pollice, come un serpente. Non alzò una sola volta gli occhi dalle sue carte. Era stato fin troppo facile, mi dissi, quando dopo un po’ mi ritrovai alle sue spalle.
Presi lo stiletto dalla sacca. Sentii un brivido di eccitazione mentre mi tiravo su dal pavimento. Trattenni il respiro. Ora potevo vedere la sua nuca, i suoi capelli radi, il colletto della sua giacca da camera. Potevo sentire la puzza di brandy e di sigaro del suo fiato. Impugnai lo stiletto e mi preparai a sferrare il colpo.
In quel momento si girò e mi vide.
I suoi occhi e la sua bocca si spalancarono per lo stupore. Se anche non fossi riuscito a scappare, e mi avessero torturato e impiccato, sarei morto felice: in quel brevissimo attimo, prima che lo stiletto affondasse sul suo collo, Milord mi aveva riconosciuto.
Sentii il calore del suo sangue che mi bagnava il volto, le braccia, la camicia. Rigirai lo stiletto, godendo dell’urlo strozzato che gorgogliò ancora un po’ nella sua gola, poi estrassi dalla mia tasca la mezza sovrana d’oro e gliela infilai in bocca.
Ancora oggi mi chiedo se non fosse stato davvero il diavolo a guidare la mia mano e a permettermi di andarmene con il candeliere in mano, nel silenzio più assoluto, uscendo dalla porta principale.