Immagine n° 24
Gabriele
Aveva appena piovuto, stava calando la sera in città.
Si sentiva l’odore dell’asfalto bagnato di pioggia, si accendevano i lampioni. Pozzanghere d’acqua esplodevano al passaggio delle auto, luccicavano sotto le luci come acqua di mare, sentori di un’estate che tardava ad andarsene, ma che già non era più.
Non che importasse molto all’uomo seduto in macchina, Luca Sodale. Aveva chiesto il permesso di staccare prima dal lavoro, si era inventato problemi a casa che non aveva o meglio aveva, ma nessuna capacità e voglia di risolverli. Come faceva con Sara?
Lei aveva chiesto la separazione e si era tenuto Stefano, il loro unico figlio di dieci anni. Un matrimonio andato davvero male, ma l’unica cosa che gli dispiaceva era poter vedere Stefano solo due volte al mese, come aveva disposto il giudice, e sotto lo sguardo di un’assistente sociale, una ragazza esaltata in camice bianco convinta di avere il compito di redimere l’umanità, che si metteva di continuo la mascherina convinta di fermare batteri esiziali. L’assistente sociale aveva chiamato i carabinieri quando Luca, aveva strappato la mascherina al figlio per poterlo baciare. Erano sorti problemi, Luca si era costretto a non reagire spaccando tutto. Non lo avevano arrestato solo perché il giudice si era reso conto che se fosse finito in galera non avrebbe potuto lavorare, passare la mensilità per Sara e pagare il mutuo della casa che le era stata data.
Luca dormiva in un monolocale squallido, mangiando come capitava e sacrificandosi per mantenere la sua macchina. Il giudice voleva togliergli anche quella, ma alla fine aveva capito che era l’unico modo che aveva per andare al lavoro.
Luca guardava le nuvole grigie sopra di lui, dal finestrino aperto respirava l’aria umida di pioggia, odorosa di pini che sporgevano da una recinzione lungo il marciapiede dove aveva parcheggiato. Avrebbe passato così la serata, come sempre. I suoi pensieri non gli permettevano di annoiarsi.
Iniziava a piovigginare, alzò un po’ il finestrino per non bagnarsi, si tolse il giaccone che lo accaldava, bevve un paio di sorsate d’acqua da una bottiglia.
Passò lenta una macchina della polizia, i poliziotti si girarono a guardarlo, Luca non mosse un muscolo, sapeva di essere in regola come parcheggio, patente, libretto, assicurazione… il bollo no; era un paio d’anni che non riusciva a pagarlo, tanto arrivava la multa e alla fine la pagava, a rate.
Era indeciso se appisolarsi o andare in centro per fare una passeggiata sotto i portici, sentire l’odore del cibo provenire dai ristoranti, vedere gente che non aveva i suoi problemi.
Stava per mettere in moto quando in fondo al viale vide spuntare la figura minuscola di un ragazzino che faceva l’autostop. Le macchine non si fermavano, lui continuava a camminare e alzava la mano, chiedendo di andare nella direzione opposta al suo cammino. Curioso questo fatto. Però era strano che un bambino fosse da solo in giro a quell’ora del pomeriggio. In fondo che gli importava? Mise in moto e vide una macchina fermarsi a fianco del ragazzino. Sembrava che l’autista stesse dicendo qualcosa poi era ripartito sgommando e sollevando un velo d’acqua. Il bambino aveva ripreso a camminare, sempre chiedendo un passaggio con la mano alzata. Si fermò un’altra macchina, questa rimase un po’ di più, si vedeva l’autista gesticolare, poi ripartì, lasciando il bambino in strada. Luca vide che l’autista della macchina procedeva lento fino ad uno svincolo in fondo al viale apprestandosi a fare marcia indietro, poi passare al suo fianco nella corsia opposta, deviare di nuovo e rimettersi nella carreggiata dietro la quale Luca era parcheggiato superandolo, rallentando e affiancando il marciapiede dov’era il ragazzino.
Era chiaro che voleva fermarsi di nuovo per offrire un passaggio. Come mai insisteva, se prima se n’era andato?
Forse non andava dove aveva chiesto l’autostoppista o forse… Ma in fondo cosa gli importava?
Luca fece la freccia per immettersi nella corsia e si avvicinò all’auto. Si era fermata e l’autista parlava con il bambino, il quale stava immobile e non rispondeva. Vide l’autista sporgersi e aprire la portiera, arrancare sul sedile passeggero, sporgere una mano fuori, come a voler prendere il bambino, che continuava a stare immobile, come impietrito.
Luca sentì un’ondata calda passargli dentro la testa, il cuore aumentare i battiti. Si mise a suonare il clacson con rabbia, a lunghe riprese. L’autista si voltò, fece un gesto di stizza, rientrò subito al suo posto di guida e ripartì sgommando, senza chiudere lo sportello passeggero che sbatteva.
Luca vide che il bambino aveva camminato per fermarsi al fianco della sua auto. Era un ragazzino come tanti, jeans, scarpette ginniche, una felpa grigia con il cappuccio all’indietro che gli lasciava scoperta la testa bionda.
─ Cosa voleva quello? ─ chiese Luca abbassando il finestrino.
Il ragazzino non rispose. Stava zitto a capo chino.
─ Ti ho visto chiedere un passaggio. Devi andare da qualche parte?
─ Sì, grazie ─ rispose aprendo lo sportello ed entrando in macchina. Si sedette allacciandosi la cintura di sicurezza, il volto bianco e delicato rivolto in avanti, tranquillo, inespressivo. Luca si stupì di tutta questa inaspettata intraprendenza e fiducia nei suoi confronti. Lo guardò, non se la sentiva di mandarlo via, non dopo aver visto quello a cui probabilmente stava andando incontro senza saperlo. Dentro l’auto si era diffuso un intenso odore di stoffa bagnata, la felpa del bambino era zuppa d’acqua, e un odore più intenso dei pini oltre la recinzione a lato della strada.
─ Ti sei beccato la pioggia. Come mai sei solo? Dove devi andare?
─ A casa.
─ Ma come mai…
─ Ho perso il tram.
─ Va bene. Dimmi dove abiti.
─ Viale Primavera.
─ Non è molto lontano ─ disse Luca e stava per aggiungere che era al lato opposto della città, ma non aveva altro da fare quella sera e poi non se la sentiva di abbandonarlo. Riprese a camminare con la macchina. Avrebbe voluto chiedergli cosa lo avesse convinto a rifiutare i passaggi precedenti, ma non aveva voglia di affrontare l’argomento, non voleva spaventarlo.
─ Ci sono uomini cattivi ─ disse il bambino.
─ Che fai? Leggi il pensiero? ─ disse Luca sorridendo.
Il bambino fece un mugolio di assenso, atteggiando le labbra a un lieve sorriso.
─ Hai fatto bene a non salire prima. Ho visto, sai?
─ Lo so.
─ E… Come mai non hai chiamato i tuoi per venirti a prendere?
─ Non ho il cellulare.
─ Strano. Ce l’hanno tutti. Quanti anni hai?
─ Undici. La scuola dove vado non vuole che si abbia il cellulare.
─ Beh, mi sembra giusto. Che scuola fai?
─ La Prima Congregazione.
─ Ah! Non è da tutti. Bravo.
Luca sapeva pressappoco che era una vecchia scuola religiosa in decadenza.
─ Quindi vuoi fare il prete?
─ Non voglio fare il prete. Voglio essere un prete.
─ Ah beh! Idee chiare! Mi sembra giusto. Hai tutta la vita davanti.
Il ragazzo sorrise, un sorriso triste.
Percorsero alcune strade, stava facendo buio.
─ I tuoi saranno preoccupati ─ disse Luca. ─ Se vuoi telefonargli ti presto il mio cellulare.
─ No ti ringrazio. Sono abituati. Posso bere un po’ d’acqua?
─ Ho solo una bottiglietta iniziata…
─ Fa niente. Solo un sorso. Posso?
Luca fece cenno di sì. Il ragazzino bevve alcuni sorsi, chiuse gli occhi.
─ Buona l’acqua ─ disse rimettendo la bottiglietta nel vano apposito.
─ Sei molto ordinato. Devi essere un bravo ragazzo.
─ Sì. Lo sono.
Luca annuì. Decisamente questo ragazzino, anche se non lo conosceva gli dava l’impressione di essere particolare.
─ A proposito: io mi chiamo Luca. Tu?
─ Gabriele D’Avila.
─ Un nome importante. Piacere Gabriele ─ disse Luca tendendogli la mano. Gabriele gli tese la sua.
─ Hai freddo? Accendo il riscaldamento.
─ No grazie. Non manca molto per arrivare a casa.
─ Sta riprendendo a piovere. Forse è meglio se ti togli quella felpa, potresti prendere un raffreddore. Sai, ho un figlio della tua età… Quanti anni hai?
─ Undici.
─ Sì. Lui ne ha dieci. Si chiama Stefano. Dicevo: potresti ammalarti, poi devi andare al pronto soccorso e lì sono capacissimi di imbavagliarti con una mascherina, così se hai la tosse soffochi per bene…
Gabriele sorrise guardando davanti a sé.
─ Ah, ma sai ridere allora! Dovresti sorridere di più sai. Hai un bel sorriso. Lo dico sempre a mio figlio, lui a volte è triste.
─ Mi dispiace.
─ Che vuoi farci. È così la vita.
─ È così la vita.
─ Ripeti a pappagallo?
─ Sì. Mi piace con te. Tu sei un uomo bravo.
─ Oh! Non è proprio così, ma ti ringrazio. Finalmente qualcuno mi dice una cosa bella ogni tanto. Detta da te è importante.
─ Perché?
─ Perché… Perché mi ricordi mio figlio. Non sto molto con lui, purtroppo.
─ Mi dispiace. È così la vita.
Luca sorrise. Di sicuro questo ragazzino aveva un carattere interessante. Gli sarebbe piaciuto parlare con lui, farlo conoscere a Stefano. Nel frattempo Gabriele si era slacciato la cintura per togliersi la felpa. Sotto aveva una maglietta rossa con un’aquila sul petto, fradicia anch’essa.
─ Senti: togliti anche la maglietta e mettiti il mio giaccone, è imbottito, altrimenti rischi davvero di ammalarti come esci dalla macchina.
─ Io abito lì ─ disse Gabriele indicando una villetta, la prima di un viale, con una finestra illuminata.
─ Un bel posto, bella casa. Aspetta: ti aiuto a metterti il giaccone. È grandissimo ma non preoccuparti.
Luca accostò la macchina. Mentre vestiva Gabriele scopriva che provava piacere nel farlo, prendersi cura di lui. Il ragazzo lo guardava negli occhi. Occhi profondissimi, seri. Luca gli sorrise senza sapere cosa dire, si sentiva in imbarazzo.
Gabriele guardò la casa.
─ Puoi passare domani per riprendere il giaccone?
─ Sì certo. Tra l’altro è quasi ora di cena, magari sembra che voglio scroccare da mangiare…
─ Ti avrei volentieri invitato a cena, Luca.
─ Ma dai! Scherzavo! Vai tranquillo, domani dopo il lavoro ripasso con calma e mi ridai il giaccone. Non preoccuparti.
Gabriele aprì lo sportello, poi si voltò.
─ Una cosa, Luca.
─ Dimmi.
─ Mi sarebbe piaciuto conoscere Stefano.
─ Beh, penso sia possibile, no? Se i tuoi vogliono…
─ Un’altra cosa, Luca.
Gabriele si sporse verso di lui e lo baciò su entrambe le guance dicendogli ─ Grazie. Sei un uomo buono.
Luca rimase piacevolmente sorpreso, non disse nulla. Lo guardò avviarsi nel vialetto che portava al suo ingresso, intabarrato goffamente nel giaccone, reggendo felpa e maglietta in una mano eppure così serio, con un portamento così dignitoso. Era buono e commovente quel ragazzino. Si trovò a sperare che non gli capitasse mai nulla di male nella vita, proprio come se fosse stato suo figlio, per quel calore che gli aveva dato.
Si toccò le guance, ancora incredulo che Gabriele le avesse baciate. Gabriele giunto sulla porta si voltò a salutarlo, Luca allungò la mano mentre innestava la marcia e se ne andava piano, come a voler prolungare la sua compagnia.
Il giorno dopo per la prima volta dopo molto tempo Luca si svegliò sereno, da tempo non dormiva così. Sapeva che questo cambiamento era dovuto a Gabriele, ma non sapeva spiegarsene il motivo. Sentiva molto la mancanza di suo figlio, gli sarebbe piaciuto se i due ragazzi fossero diventati amici, perché no? Ogni tanto era bello avere ancora fiducia negli esseri umani. Gabriele voleva diventare un prete, anzi no, aveva detto: essere un prete. Essere qualcosa è molto diverso dal fare qualcosa. Che pensiero!
Il pomeriggio Luca ritornò alla casa di Gabriele. Si sentiva un po’ in imbarazzo, ma certamente Gabriele aveva raccontato ai suoi l’incontro con lui e poi c’era la questione del giaccone.
Suonò il campanello. Non veniva nessuno ad aprire. Suonò un altro paio di volte, senza insistere troppo, decise che forse in quel momento non c’era nessuno. Stava per andarsene quando la porta si socchiuse. Aveva aperto una ragazza, forse non aveva nemmeno vent'anni, Luca vide che assomigliava a Gabriele, di certo era la sorella.
─ Desidera?
─ Ecco… Buongiorno. Io mi chiamo Luca e forse Gabriele vi ha parlato di me. Ieri sera gli ho dato un passaggio in auto, era bagnato per la pioggia e gli ho prestato il mio giaccone…
Lo sguardo della ragazza era fisso su di lui, si era agganciata alla porta come per non cadere.
─ Chi è Luisa? ─ dietro di lei venne un uomo sulla cinquantina, forse il padre.
La ragazza non riusciva a parlare, indicò Luca con un lieve cenno della testa. Il padre lo guardò con fare interrogativo.
Luca rispiegò il motivo della sua visita, descrisse l’incontro con Gabriele, il passaggio che gli aveva dato per via del tram perso, com’era vestito, la scuola che frequentava. Arrivò al punto del giaccone che comunque, asserì, non era importante. Aveva intenzione di far conoscere Gabriele a suo figlio, se loro erano d’accordo, l’aveva trovato un ragazzo molto in gamba, era passato così, per due chiacchiere, ma se disturbava se ne andava subito.
Anche l’uomo, il padre, era ammutolito.
─ Nessun disturbo. Vuole accomodarsi?
La casa era molto dignitosa. Lo accolse una signora sulla quarantina, di sicuro la madre di Gabriele. L’uomo le spiegò la visita di Luca ─ Ha incontrato Gabriele ieri… Ha detto così: ieri.
Luca raccontò anche alla madre del suo incontro con Gabriele.
La signora non parlava. Sorrise a stento.
─ Aspetti. Stavamo per andare… Ma lei… Aspetti la prego… Mi scusi, sa.
Luca cominciava a provare un’inspiegabile inquietudine.
Il padre e la figlia lo guardavano come attoniti.
La donna tornò con degli abiti. Luca pensava fosse il suo giaccone, invece erano gli abiti di Gabriele che gli erano familiari.
─ Ha detto anche della maglietta rossa con l’aquila… ─ disse la madre con un filo di voce.
─ Sì. È proprio quella, ma…
La madre si accasciò su una poltrona e pianse in silenzio.
Decisamente qualcosa non andava, pensò Luca. Cosa aveva detto o fatto? Dove era capitato? A questo punto voleva andarsene scusandosi per il disturbo.
─ No, la prego ─ disse il padre. ─ Stavamo per andare… Io non riesco… Ma se lei vuole essere così gentile, venga con me, la prego.
─ Dove vuole che vada? È successo qualcosa? Non so niente, ve lo assicuro. Ieri sera ho solo accompagnato…
─ Mi segua con la sua macchina, la prego. Capirà tutto. La prego: capirà tutto. Parleremo dopo.
La famiglia di Gabriele salì sulla loro auto e Luca li seguì con la sua. Ma dov’era Gabriele? Forse all’ospedale? Li seguì fino in periferia, si fermarono davanti al mercato dei fiori, nei pressi del cimitero monumentale.
Luca cominciò a preoccuparsi. Entrò con i familiari nel cimitero. Aveva capito. Pensava di avere capito, ma si rifiutava di ammetterlo. Cercava di provare dolore stendendo i muscoli delle gambe mentre camminava, per sentirsi vivo. Non osava fare domande, del resto loro non lo guardavano. Attraversarono alcuni viali, si fermarono davanti a una lapide di marmo bianco attorniata da altre, sopra la quale stava ammonticchiata una forma scura. Era il giaccone di Luca. Luca alzò la testa e vide dietro la foto sorridente di Gabriele che sembrava guardarlo. Un sorriso triste bagnato di pioggia.
─ È successo un anno fa ─ disse il padre con lo sguardo fisso sulla tomba.
─ Come…
─ All’uscita di scuola perse il tram. Chiese un passaggio. Non tornò a casa. Fu trovato il giorno dopo. Gli abiti che lei gli ha visto addosso erano gli stessi che indossava quel giorno. Qualcuno gli aveva fatto del male. Sento che è vero che lo ha incontrato ieri e che Gabriele si è fidato di lei. Non diceva certe cose se non a noi. Dobbiamo parlare, la prego, ne abbiamo tanto bisogno. Non viviamo più.
Luca guardava attonito il volto di Gabriele e mentre calde lacrime scendevano sul suo viso cadde in ginocchiò davanti alla sua tomba.