[C13]Casalinghitudine

1
="Come seppe che nella mattinata gli studenti di medicina sarebbero ritornati all’ospedale, Raffaella Òsimo pregò la caposala d’introdurla nella sala del primario, dove si tenevano le lezioni di semejotica. La capo-sala la guardò male. Vuoi farti vedere dagli studenti? – Sì, per favore; prendete me. – Ma lo sai che sembri una lucertola? Lo so. Non me n’importa! Prendete me. – Ma guarda un po’ che sfacciata. E che ti figuri che ti faranno là dentro? – Come a Nannina, – rispose la Òsimo. – No? Nannina, sua vicina di letto, uscita il giorno avanti dall’ospedale, le aveva mostrato, appena rientrata in corsia dopo la lezione là nella sala in fondo, il corpo tutto segnato come una carta geografica; segnati i polmoni, il cuore, il fegato, la milza, col lapis dermografico. – E ci vuoi andare? – concluse quella. – Per me, ti servo. Ma bada che il segno non te lo levi più per molti giorni, neppure col sapone. La Òsimo alzò le spalle e disse sorridendo: – Voi portatemi, e non ve ne curate. Le era tornato in volto un po’ di colore; ma era ancor tanto magra; tutta occhi e tutta capelli. Gli occhi però, neri, bellissimi, le brillavano di nuovo, acuti. E in quel lettuccio il suo corpo di ragazzina, minuscolo, non pareva nemmeno, tra le pieghe delle coperte. Per quella capo-sala, come per tutte le suore infermiere, era una vecchia conoscenza, Raffaella Òsimo. Già due altre volte era stata lì, all’ospedale. La prima volta, per… – eh, benedette ragazze! si lasciano infinocchiare, e poi, chi ci va di mezzo? una povera creaturina innocente, che va a finire all’ospizio dei trovatelli. La Òsimo, a dir vero, lo aveva scontato amaramente anche lei, il suo fallo; due mesi circa dopo il parto, era ritornata all’ospedale più di là che di qua, con tre pasticche di sublimato in corpo. Ora c’era per l’anemia, da un mese. A forza d’iniezioni di ferro s’era già rimessa, e tra pochi giorni sarebbe uscita dall’ospedale. Le volevano bene in quella corsia e avevano carità e sofferenza di lei per la timida e sorridente grazia della sua bontà pur così sconsolata. Ma anche la disperazione in lei non si manifestava né con fosche maniere né con lacrime. Aveva detto sorridendo, la prima volta, che non le restava ormai più altro che morire. Vittima come era, però, d’una sorte comune a troppe ragazze, non aveva destato né una particolare pietà né un particolar timore per quell’oscura minaccia. Si sa che tutte le sedotte e le tradite minacciano il suicidio: non bisogna darsi a credere tante cose. Raffaella Òsimo, però, lo aveva detto e lo aveva fatto. Invano, allora, le buone suore assistenti s’eran provate a confortarla con la fede; ella aveva fatto, come faceva anche adesso; ascoltava attenta, sorrideva, diceva di sì; ma si capiva che il groppo che le stringeva il cuore non si scioglieva né s’allentava per quelle esortazioni. Nessuna cosa più la invogliava a sperare nella vita: riconosceva che s’era illusa, che il vero inganno le era venuto dall’inesperienza, dall’appassionata e credula sua natura, più che dal giovine a cui s’era abbandonata e che non avrebbe potuto mai esser suo. Ma rassegnarsi, no, non poteva. Che se per gli altri la sua storia non aveva nulla di particolare, non era per ciò men dolorosa per lei. Aveva sofferto tanto! Prima lo strazio di vedersi ucciso il padre, proditoriamente; poi, la caduta irreparabile di tutte le sue aspirazioni. Era una povera cucitrice, adesso, tradita come tante altre, abbandonata come tante altre; ma un giornoSì, anche le altre, è vero, dicevano allo stesso modo: – Ma un giorno… –e mentivano; perché ai miseri, ai vinti, sorge spontaneo dal petto oppresso il bisogno di mentire. Ma lei non mentiva. Giovinetta ancora, lei, certamente avrebbe   preso la patente di maestra, se il padre, che la manteneva con tanto amore agli studi, non le fosse venuto a mancare così di colpo, laggiù, in Calabria, assassinato, non per odio diretto, ma durante le elezioni politiche, per mano d’un sicario rimasto ignoto, pagato senza dubbio dalla fazione avversaria del barone Barni, di cui egli era segretario zelante e fedele. Eletto deputato, il Barni, sapendola anche orfana di madre e sola, per farsi bello d’un atto di carità di fronte agli elettori, la aveva accolta in casa. Così era venuta a Roma, in uno stato incerto: la trattavano come se fosse della famiglia, ma figurava intanto come istitutrice dei figliuoli più piccoli del barone e anche un po’ come dama di compagnia della baronessa: senza stipendio, beninteso. Lei lavorava: il Barni si prendeva il merito della carità... \""]Come seppe che nella mattinata gli studenti di medicina sarebbero ritornati all’ospedale, Raffaella Òsimo pregò la caposala d’introdurla nella sala del primario, dove si tenevano le lezioni di semejotica. La capo-sala la guardò male. – Vuoi farti vedere dagli studenti? – Sì, per favore; prendete me. – Ma lo sai che sembri una lucertola? – Lo so. Non me n’importa! Prendete me. – Ma guarda un po’ che sfacciata. E che ti figuri che ti faranno là dentro? – Come a Nannina, – rispose la Òsimo. – No? Nannina, sua vicina di letto, uscita il giorno avanti dall’ospedale, le aveva mostrato, appena rientrata in corsia dopo la lezione là nella sala in fondo, il corpo tutto segnato come una carta geografica; segnati i polmoni, il cuore, il fegato, la milza, col lapis dermografico. – E ci vuoi andare? – concluse quella. – Per me, ti servo. Ma bada che il segno non te lo levi più per molti giorni, neppure col sapone. La Òsimo alzò le spalle e disse sorridendo: – Voi portatemi, e non ve ne curate. Le era tornato in volto un po’ di colore; ma era ancor tanto magra; tutta occhi e tutta capelli. Gli occhi però, neri, bellissimi, le brillavano di nuovo, acuti. E in quel lettuccio il suo corpo di ragazzina, minuscolo, non pareva nemmeno, tra le pieghe delle coperte. Per quella capo-sala, come per tutte le suore infermiere, era una vecchia conoscenza, Raffaella Òsimo. Già due altre volte era stata lì, all’ospedale. La prima volta, per… – eh, benedette ragazze! si lasciano infinocchiare, e poi, chi ci va di mezzo? una povera creaturina innocente, che va a finire all’ospizio dei trovatelli. La Òsimo, a dir vero, lo aveva scontato amaramente anche lei, il suo fallo; due mesi circa dopo il parto, era ritornata all’ospedale più di là che di qua, con tre pasticche di sublimato in corpo. Ora c’era per l’anemia, da un mese. A forza d’iniezioni di ferro s’era già rimessa, e tra pochi giorni sarebbe uscita dall’ospedale. Le volevano bene in quella corsia e avevano carità e sofferenza di lei per la timida e sorridente grazia della sua bontà pur così sconsolata. Ma anche la disperazione in lei non si manifestava né con fosche maniere né con lacrime. Aveva detto sorridendo, la prima volta, che non le restava ormai più altro che morire. Vittima come era, però, d’una sorte comune a troppe ragazze, non aveva destato né una particolare pietà né un particolar timore per quell’oscura minaccia. Si sa che tutte le sedotte e le tradite minacciano il suicidio: non bisogna darsi a credere tante cose. Raffaella Òsimo, però, lo aveva detto e lo aveva fatto. Invano, allora, le buone suore assistenti s’eran provate a confortarla con la fede; ella aveva fatto, come faceva anche adesso; ascoltava attenta, sorrideva, diceva di sì; ma si capiva che il groppo che le stringeva il cuore non si scioglieva né s’allentava per quelle esortazioni. Nessuna cosa più la invogliava a sperare nella vita: riconosceva che s’era illusa, che il vero inganno le era venuto dall’inesperienza, dall’appassionata e credula sua natura, più che dal giovine a cui s’era abbandonata e che non avrebbe potuto mai esser suo. Ma rassegnarsi, no, non poteva. Che se per gli altri la sua storia non aveva nulla di particolare, non era per ciò men dolorosa per lei. Aveva sofferto tanto! Prima lo strazio di vedersi ucciso il padre, proditoriamente; poi, la caduta irreparabile di tutte le sue aspirazioni. Era una povera cucitrice, adesso, tradita come tante altre, abbandonata come tante altre; ma un giorno… Sì, anche le altre, è vero, dicevano allo stesso modo: – Ma un giorno… –e mentivano; perché ai miseri, ai vinti, sorge spontaneo dal petto oppresso il bisogno di mentire. Ma lei non mentiva. Giovinetta ancora, lei, certamente avrebbe preso la patente di maestra, se il padre, che la manteneva con tanto amore agli studi, non le fosse venuto a mancare così di colpo, laggiù, in Calabria, assassinato, non per odio diretto, ma durante le elezioni politiche, per mano d’un sicario rimasto ignoto, pagato senza dubbio dalla fazione avversaria del barone Barni, di cui egli era segretario zelante e fedele. Eletto deputato, il Barni, sapendola anche orfana di madre e sola, per farsi bello d’un atto di carità di fronte agli elettori, la aveva accolta in casa. Così era venuta a Roma, in uno stato incerto: la trattavano come se fosse della famiglia, ma figurava intanto come istitutrice dei figliuoli più piccoli del barone e anche un po’ come dama di compagnia della baronessa: senza stipendio, beninteso. Lei lavorava: il Barni si prendeva il merito della carità... ""Come seppe che nella mattinata gli studenti di medicina sarebbero ritornati all’ospedale, Raffaella Òsimo pregò la caposala d’introdurla nella sala del primario, dove si tenevano le lezioni di semejotica. La capo-sala la guardò male. – Vuoi farti vedere dagli studenti? – Sì, per favore; prendete me. – Ma lo sai che sembri una lucertola? – Lo so. Non me n’importa! Prendete me. – Ma guarda un po’ che sfacciata. E che ti figuri che ti faranno là dentro? – Come a Nannina, – rispose la Òsimo. – No? Nannina, sua vicina di letto, uscita il giorno avanti dall’ospedale, le aveva mostrato, appena rientrata in corsia dopo la lezione là nella sala in fondo, il corpo tutto segnato come una carta geografica; segnati i polmoni, il cuore, il fegato, la milza, col lapis dermografico. – E ci vuoi andare? – concluse quella. – Per me, ti servo. Ma bada che il segno non te lo levi più per molti giorni, neppure col sapone. La Òsimo alzò le spalle e disse sorridendo: – Voi portatemi, e non ve ne curate. Le era tornato in volto un po’ di colore; ma era ancor tanto magra; tutta occhi e tutta capelli. Gli occhi però, neri, bellissimi, le brillavano di nuovo, acuti. E in quel lettuccio il suo corpo di ragazzina, minuscolo, non pareva nemmeno, tra le pieghe delle coperte. Per quella capo-sala, come per tutte le suore infermiere, era una vecchia conoscenza, Raffaella Òsimo. Già due altre volte era stata lì, all’ospedale. La prima volta, per… – eh, benedette ragazze! si lasciano infinocchiare, e poi, chi ci va di mezzo? una povera creaturina innocente, che va a finire all’ospizio dei trovatelli. La Òsimo, a dir vero, lo aveva scontato amaramente anche lei, il suo fallo; due mesi circa dopo il parto, era ritornata all’ospedale più di là che di qua, con tre pasticche di sublimato in corpo. Ora c’era per l’anemia, da un mese. A forza d’iniezioni di ferro s’era già rimessa, e tra pochi giorni sarebbe uscita dall’ospedale. Le volevano bene in quella corsia e avevano carità e sofferenza di lei per la timida e sorridente grazia della sua bontà pur così sconsolata. Ma anche la disperazione in lei non si manifestava né con fosche maniere né con lacrime. Aveva detto sorridendo, la prima volta, che non le restava ormai più altro che morire. Vittima come era, però, d’una sorte comune a troppe ragazze, non aveva destato né una particolare pietà né un particolar timore per quell’oscura minaccia. Si sa che tutte le sedotte e le tradite minacciano il suicidio: non bisogna darsi a credere tante cose. Raffaella Òsimo, però, lo aveva detto e lo aveva fatto. Invano, allora, le buone suore assistenti s’eran provate a confortarla con la fede; ella aveva fatto, come faceva anche adesso; ascoltava attenta, sorrideva, diceva di sì; ma si capiva che il groppo che le stringeva il cuore non si scioglieva né s’allentava per quelle esortazioni. Nessuna cosa più la invogliava a sperare nella vita: riconosceva che s’era illusa, che il vero inganno le era venuto dall’inesperienza, dall’appassionata e credula sua natura, più che dal giovine a cui s’era abbandonata e che non avrebbe potuto mai esser suo. Ma rassegnarsi, no, non poteva. Che se per gli altri la sua storia non aveva nulla di particolare, non era per ciò men dolorosa per lei. Aveva sofferto tanto! Prima lo strazio di vedersi ucciso il padre, proditoriamente; poi, la caduta irreparabile di tutte le sue aspirazioni. Era una povera cucitrice, adesso, tradita come tante altre, abbandonata come tante altre; ma un giorno… Sì, anche le altre, è vero, dicevano allo stesso modo: – Ma un giorno… –e mentivano; perché ai miseri, ai vinti, sorge spontaneo dal petto oppresso il bisogno di mentire. Ma lei non mentiva. Giovinetta ancora, lei, certamente avrebbe preso la patente di maestra, se il padre, che la manteneva con tanto amore agli studi, non le fosse venuto a mancare così di colpo, laggiù, in Calabria, assassinato, non per odio diretto, ma durante le elezioni politiche, per mano d’un sicario rimasto ignoto, pagato senza dubbio dalla fazione avversaria del barone Barni, di cui egli era segretario zelante e fedele. Eletto deputato, il Barni, sapendola anche orfana di madre e sola, per farsi bello d’un atto di carità di fronte agli elettori, la aveva accolta in casa. Così era venuta a Roma, in uno stato incerto: la trattavano come se fosse della famiglia, ma figurava intanto come istitutrice dei figliuoli più piccoli del barone e anche un po’ come dama di compagnia della baronessa: senza stipendio, beninteso. Lei lavorava: il Barni si prendeva il merito della carità... "
"Come seppe che nella mattinata gli studenti di medicina sarebbero ritornati all’ospedale, Raffaella Òsimo pregò la caposala d’introdurla nella sala del primario, dove si tenevano le lezioni di semejotica. La capo-sala la guardò male. – Vuoi farti vedere dagli studenti? – Sì, per favore; prendete me. – Ma lo sai che sembri una lucertola? – Lo so. Non me n’importa! Prendete me. – Ma guarda un po’ che sfacciata. E che ti figuri che ti faranno là dentro? – Come a Nannina, – rispose la Òsimo. – No? Nannina, sua vicina di letto, uscita il giorno avanti dall’ospedale, le aveva mostrato, appena rientrata in corsia dopo la lezione là nella sala in fondo, il corpo tutto segnato come una carta geografica; segnati i polmoni, il cuore, il fegato, la milza, col lapis dermografico. – E ci vuoi andare? – concluse quella. – Per me, ti servo. Ma bada che il segno non te lo levi più per molti giorni, neppure col sapone. La Òsimo alzò le spalle e disse sorridendo: – Voi portatemi, e non ve ne curate. Le era tornato in volto un po’ di colore; ma era ancor tanto magra; tutta occhi e tutta capelli. Gli occhi però, neri, bellissimi, le brillavano di nuovo, acuti. E in quel lettuccio il suo corpo di ragazzina, minuscolo, non pareva nemmeno, tra le pieghe delle coperte. Per quella capo-sala, come per tutte le suore infermiere, era una vecchia conoscenza, Raffaella Òsimo. Già due altre volte era stata lì, all’ospedale. La prima volta, per… – eh, benedette ragazze! si lasciano infinocchiare, e poi, chi ci va di mezzo? una povera creaturina innocente, che va a finire all’ospizio dei trovatelli. La Òsimo, a dir vero, lo aveva scontato amaramente anche lei, il suo fallo; due mesi circa dopo il parto, era ritornata all’ospedale più di là che di qua, con tre pasticche di sublimato in corpo. Ora c’era per l’anemia, da un mese. A forza d’iniezioni di ferro s’era già rimessa, e tra pochi giorni sarebbe uscita dall’ospedale. Le volevano bene in quella corsia e avevano carità e sofferenza di lei per la timida e sorridente grazia della sua bontà pur così sconsolata. Ma anche la disperazione in lei non si manifestava né con fosche maniere né con lacrime. Aveva detto sorridendo, la prima volta, che non le restava ormai più altro che morire. Vittima come era, però, d’una sorte comune a troppe ragazze, non aveva destato né una particolare pietà né un particolar timore per quell’oscura minaccia. Si sa che tutte le sedotte e le tradite minacciano il suicidio: non bisogna darsi a credere tante cose. Raffaella Òsimo, però, lo aveva detto e lo aveva fatto. Invano, allora, le buone suore assistenti s’eran provate a confortarla con la fede; ella aveva fatto, come faceva anche adesso; ascoltava attenta, sorrideva, diceva di sì; ma si capiva che il groppo che le stringeva il cuore non si scioglieva né s’allentava per quelle esortazioni. Nessuna cosa più la invogliava a sperare nella vita: riconosceva che s’era illusa, che il vero inganno le era venuto dall’inesperienza, dall’appassionata e credula sua natura, più che dal giovine a cui s’era abbandonata e che non avrebbe potuto mai esser suo. Ma rassegnarsi, no, non poteva. Che se per gli altri la sua storia non aveva nulla di particolare, non era per ciò men dolorosa per lei. Aveva sofferto tanto! Prima lo strazio di vedersi ucciso il padre, proditoriamente; poi, la caduta irreparabile di tutte le sue aspirazioni. Era una povera cucitrice, adesso, tradita come tante altre, abbandonata come tante altre; ma un giorno… Sì, anche le altre, è vero, dicevano allo stesso modo: – Ma un giorno… –e mentivano; perché ai miseri, ai vinti, sorge spontaneo dal petto oppresso il bisogno di mentire. Ma lei non mentiva. Giovinetta ancora, lei, certamente avrebbe preso la patente di maestra, se il padre, che la manteneva con tanto amore agli studi, non le fosse venuto a mancare così di colpo, laggiù, in Calabria, assassinato, non per odio diretto, ma durante le elezioni politiche, per mano d’un sicario rimasto ignoto, pagato senza dubbio dalla fazione avversaria del barone Barni, di cui egli era segretario zelante e fedele. Eletto deputato, il Barni, sapendola anche orfana di madre e sola, per farsi bello d’un atto di carità di fronte agli elettori, la aveva accolta in casa. Così era venuta a Roma, in uno stato incerto: la trattavano come se fosse della famiglia, ma figurava intanto come istitutrice dei figliuoli più piccoli del barone e anche un po’ come dama di compagnia della baronessa: senza stipendio, beninteso. Lei lavorava: il Barni si prendeva il merito della carità... "
Casalinghitudine

Come le lezioni
- una lucertola? -

capelli neri brillavano

Come una vecchia
nell'ospizio

cucitrice un giorno...

Sì, maestra
  
fedele e sola

istitutrice dei figliuoli

senza stipendio  

Lei lavorava

 

Re: [C13]Casalinghitudine

3
confusa ha scritto: mar nov 28, 2023 10:48 amCasalinghitudine

Come le lezioni
- una lucertola? -


capelli neri brillavano

Come una vecchia
nell'ospizio

cucitrice un giorno...

Sì, maestra
  
fedele e sola

istitutrice dei figliuoli

senza stipendio  

Lei lavorava

 
Ciao @confusa, di questa poesia l'unico verso che non riesco ad inquadrare è quello che ho segnato in grassetto. Per il resto l'ho trovata calzante e originale, non proprio come concetto quanto nell'ottima scelta delle parole. Il verso che mi è piaciuto di più è "Come una vecchia nell'ospizio" nel quale c'è tutta la crudeltà della vita già abbandonata, come di una vecchia, appunto, che all'ospizio ripete gesti quotidiani senza prospettive per il domani. Nonostante i capelli neri (= giovinezza) della donna della quale parli si percepisce il quotidiano ripetersi di gesti (cuciva, maestra fedele e sola, istitutrice) senza futuro e senza riconoscimento. 

Piaciuta, brava

Re: [C13]Casalinghitudine

4
@Adel J. Pellitteri  Grazie, mi hai lasciato senza ... parole! Ora spiego quello che, dici, non ti è chiaro. Come le lezioni, quelle prese per diventare cucitrice, ma può essere inteso anche tutte le lezioni di scuola... La lucertola, messa tra i trattini, presenti nel testo, rappresenta una distrazione - sottolineata dal punto interrogativo. Il merito va anche al testo, capace di ispirare questo esercizio. Ciao!

Re: [C13]Casalinghitudine

6
confusa ha scritto: mar nov 28, 2023 10:48 amcapelli neri brillavano

Come una vecchia
nell'ospizio
Già dalla prima volta che ho letto, ho visto una testa grigia, con le ciocche nere  come mechès brillanti tra il bianco: l'argento naturale irripetibile in estetica.
confusa ha scritto: mar nov 28, 2023 10:48 amcucitrice un giorno...

Sì, maestra
  
fedele e sola

istitutrice dei figliuoli

senza stipendio  

Lei lavorava
Una donna di casa sfruttata nella vita come lavoratrice in nero.

Sotto il segno di Pirandello, che celebra la sconfitta dell'individuo buono, sopraffatto dal mondo che lo sovrasta, impietoso.

A parte la lucertola... forse perché, senza pensieri, si crogiola al sole?

Lieta di leggere quello che hai saputo "estrarre" dal testo di base, aspetto di leggere liriche "solo" tue. "Lampi di poesia" dove sai essere brillante di luce tua! 

Benvenuta e grazie, @confusa :rosa:
Di sabbia e catrame è la vita:
o scorre o si lega alle dita.


Poeta con te - Tre spunti di versi

Re: [C13]Casalinghitudine

7
Lascio la mia impressione anche per te, @confusa. :) 

Concordo con quanto scritto sopra in relazione all'introduzione, i primissimi due versi.
Mi hanno spiazzato un poco. Non riuscivo a "incastrarli" con il resto, mi sembravano fuori posto. Forse ci voleva più contesto per renderli più chiari.

A parte questo, ottima immagine delineata con poche e sapienti pennellate.
Il tono è molto originale rispetto alle altre poesie del contest. Impressionante che tu sia riuscita a estrarre questa poesia dallo stesso testo su cui ho lavorato io. A me una cosa del genere non sarebbe mai venuta in mente, nemmeno in cent'anni.
Il titolo è poi un mezzo capolavoro (io adoro questo tipo di neologismi).

Bel testo davvero.

A rileggerti. :) 

Re: [C13]Casalinghitudine

9
ciao @confusa 

Casalinghitudine
--------------------------------------------------------------------------------
Pensavi che mi passasse inosservato l'incipit? Lo hai già usato nel lab, non ricordo il numero :D Ricordo bene la storia di quella casalinga con la doppia vita.. :asd:

Come le lezioni
- una lucertola? -

capelli neri brillavano

Come una vecchia
nell'ospizio

cucitrice un giorno...

Sì, maestra
  
fedele e sola

istitutrice dei figliuoli

senza stipendio  

Lei lavorava
---------------------------------------------------------------------------
vedo che anche tu ti sei data alle poesie Kafkiane... :asd:  Sei stata originale, devo ammetterlo! ciao
 
Tratti di pioggia sopra Auschwitz. Tra oblio e orgoglio

Re: [C13]Casalinghitudine

10
confusa ha scritto: mar nov 28, 2023 10:48 amCasalinghitudine

Come le lezioni
- una lucertola? -

capelli neri brillavano

Come una vecchia
nell'ospizio

cucitrice un giorno...

Sì, maestra
  
fedele e sola

istitutrice dei figliuoli

senza stipendio  

Lei lavorava
Eccola, la tua cucitrice dai capelli neri, fedele e sola come nel dipinto di Guttuso. 
Delizioso, nella poesia, il vezzo della lucertola, e molto bello il finale, in cui quel Lei lavorava pare non avere mai fine.
Ti ringrazio e ti saluto.
https://www.amazon.it/rosa-spinoZa-gust ... B09HP1S45C

Re: [C13]Casalinghitudine

13
@confusa

Hai saputo tratteggiare un piccolo mondo pieno di impressioni, usando parole azzeccate che riescono a formare immagini ben vivide nella mente. Fa molta tenerezza questa donna che sembra ricordare il suo passato, una vita semplice, piena di lavoro, senza spazio per lei stessa e ora in solitudine, con i suoi ricordi.
Struggente.
Si salveranno solo coloro che resisteranno e disobbediranno a oltranza, il resto perirà.
(Apocalisse di S. Giovanni)
Rispondi

Torna a “Poesia”