[CP6] Il mio ultimo paio di scarpe

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Traccia n. 6 "Un paio di scarpe"
(Vincent van Gogh)
.
    IL MIO ULTIMO PAIO DI SCARPE
 
"CITAZIONI “

“Perché trovo sempre un lavoro? mi dicevo, Perché non mi lasciano andare alla deriva in pace? Diventare un barbone. Una delle possibilità che contemplavo. Che contemplo tutt’ora. Poi non ho il coraggio. Mi viene in mente mio padre, il poliziotto Arturo e la sua divisa sempre impeccabile; e mio nonno, la dignità con cui indossava il suo vestito da festa. Assurdità che sempre mi ritornano. L’origine è un vestito che uno non smette mai.”

Dalla quarta di copertina di Works, di Vitaliano Trevisan.



“Una somma di piccole cose
È una somma di piccole cose
una somma di passi, che diventano cento
di scelte sbagliate che ho capito col tempo"

da “Una somma di piccole cose”, di Niccolò Fabi
 
 
Pomeriggio d’estate, di quelli silenziosi e distopici, quando la popolazione sparisce e la città rivive. 
E anch’io, in un certo senso. 
In pensione da quasi un anno, porto in giro i miei sandali, gli occhiali scuri, le t-shirt nere dai messaggi anarco-ambientalisti, lo zaino da ragazzino e quei pochi capelli bianchi rimasti, effimeri come semi di tarassaco.
La città mi si offre nell’intimo, in ogni sua singola vena e arteria, disponibile e languida, fin nelle più remote ramificazioni del suo apparato circolatorio, nel profumo del tempo e della storia che sembrano ormai segreti da condividere fra esuli in patria, sopravvissuti e sopravviventi. A questo proposito, qualcuno pronosticava che il peso del tempo ci avrebbe schiacciato, ma il peso del tempo è un’illusione, come del resto il tempo stesso. La verità è che invecchiando, con filosofia, il proprio ego diventa sempre più leggero, fin quasi a scomparire.
Verso le otto di sera ritorno all’alveare condominiale, anch’esso vuoto e miracolosamente silente. I raggi obliqui del sole trafiggono le vetrate dell’ingresso e incidono ideogrammi sulle logore piastrelle di travertino. Scendo in cantina per recuperare una scatola di vecchi libri fra i quali alcuni che vorrei rileggere. La trovo, la sollevo per portarla di sopra, ed eccole là dietro, in un angolo del pavimento di cemento di cui sembrano aver preso possesso in virtù della loro arroganza e del sarcasmo che ostentano ancora, a distanza di quasi un anno e a dispetto dell’usura. Dico sarcasmo perché fin da subito sembrano prendermi per il culo, intonando insieme la canzoncina di Modugno.
E il vecchietto dove lo metto, dove lo metto non si sa…
Arroganti e tronfie. Supponenti, ancora sicure di rappresentare la sola alternativa di un uomo. Mi guardano con quel ghigno scollato che si apre in punta tra la tomaia e la suola, quella bocca sadica, forte della ferrosa placca antinfortunistica che ha masticato le mie dita fino a rendermele storte e deformi. 
Dita che ora si godono il riscatto all’aria aperta e gli anni che restano di vita, quella vera.
Sì, perché quelle vecchie, logore scarpe da lavoro rivendicano invece una vita diversa, fatta di fatica e sudore e sacrificio e dovere, sempre spacciati come qualcosa di sano, di positivo, di atavicamente etico. 
Stronze. 
Andatelo a dire a tutte quelle schiene doloranti, alle mani dalla pelle come cuoio, ai polmoni che hanno respirato polvere, calce e cemento, amianto e peggio. Alle mogli che si sono stancate di veder tornare tardi i loro uomini, doloranti e ingrugnati, come del resto quegli uomini di doversi giustificare. Andatelo a dire ai figli, che hanno scelto strade meno faticose, moralmente discutibili. L’etica del lavoratore onesto avrà anche retto per qualche generazione, ma con quel che si è visto in pieno boom economico, il postribolo di politici e imprenditori, mica si poteva pretendere di vederli crescere all’insegna della rettitudine. Andatelo a dire alla città e al territorio quanto hanno sofferto per la gloria del cemento, dell’automobile, della plastica, della disoccupazione ai minimi storici, della brutta copia made in Italy del sogno americano. Andatelo a dire al cielo e all’acqua in cui abbiamo espulso i postumi della sbornia modernista degli ultimi settant’anni. 
Quanto le ho odiate, quelle scarpe, ma anche accettate e subite, persino amate, in fondo, perché sono state parte della mia vita che non posso amputare, né dimenticare. Gran parte della mia vita, a dirla tutta. Bella contraddizione. Per questo non ho avuto il coraggio di buttarle allora e non ce l’ho nemmeno ora. Credo che, dopotutto, si siano guadagnate questo piccolo angolo di cantina, come un sepolcro, in cui essere dimenticate e rimanere a sognare i fasti di un tempo che a me non appartiene più. 
Libero.

NOTE AL TESTO



Nel caso non l’abbiate capito, il pezzo non è autobiografico, non in toto. È quindi con sommo dolore che l’autore vi informa del suo attuale stato di lavoratore attivo. E non c’è emoticon che possa versare a questo proposito, credetemi, un'adeguata quantità di lacrime.

Se avessi citato il nome della città, va da sé che verrebbe poi da chiedersi che razza di scrittore possa non scrivere qualcosa di più specifico e dettagliato per una località di spessore storico e artistico come Ravenna che, in effetti, è uno scrigno di meraviglie e mistero e fascino e chi più ne ha più ne metta. Ma visto che il pezzo va consegnato entro mercoledì, ho preferito tenermi sul vago.

Quello che mi chiedo, a distanza di tutti questi anni dalla mia giovinezza e dai miti d’oltreoceano, è come sia stato possibile innamorarsi dell’America, del luogo in cui è stato coniato il maledetto concetto di business che oggi, rapportato a quell’etica del lavoro che ho avuto modo di conoscere nel corso della mia vita e ri-conoscere in molte persone di modesta e sudata fortuna, sembra un’atrocità. Intendo la legittimazione dell’accumulo osceno di ricchezza a cui tutt’ora assistiamo. Naturalmente la mia è una domanda retorica perché sono perfettamente consapevole di come quella parte della cultura americana di cui ci si è innamorati allora, non aveva nulla a che fare con il denaro. Semmai il contrario.

Re: [CP6] Il mio ultimo paio di scarpe

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Bob66 ha scritto: mar lug 26, 2022 10:41 pm
La verità è che invecchiando, con filosofia, il proprio ego diventa sempre più leggero, fin quasi a scomparire.
Bella questa verità: è uno dei vantaggi dell'invecchiare sereni, una leggerezza che ti libra e ti libera.
Bob66 ha scritto: mar lug 26, 2022 10:41 pm
ed eccole là dietro, in un angolo del pavimento di cemento di cui sembrano aver preso possesso in virtù della loro arroganza e del sarcasmo che ostentano ancora, a distanza di quasi un anno e a dispetto dell’usura. 
...
Arroganti e tronfie. Supponenti, ancora sicure di rappresentare la sola alternativa di un uomo. Mi guardano con quel ghigno scollato che si apre in punta tra la tomaia e la suola, quella bocca sadica, forte della ferrosa placca antinfortunistica che ha masticato le mie dita fino a rendermele storte e deformi. 
Dita che ora si godono il riscatto all’aria aperta e gli anni che restano di vita, quella vera.
Sì, perché quelle vecchie, logore scarpe da lavoro rivendicano invece una vita diversa, fatta di fatica e sudore e sacrificio e dovere...
Bob66 ha scritto: mar lug 26, 2022 10:41 pm
Arroganti e tronfie. Supponenti, ancora sicure di rappresentare la sola alternativa di un uomo. Mi guardano con quel ghigno scollato che si apre in punta tra la tomaia e la suola, quella bocca sadica, forte della ferrosa placca antinfortunistica che ha masticato le mie dita fino a rendermele storte e deformi. 
Dita che ora si godono il riscatto all’aria aperta e gli anni che restano di vita, quella vera.
Sì, perché quelle vecchie, logore scarpe da lavoro rivendicano invece una vita diversa, fatta di fatica e sudore e sacrificio e dovere, sempre spacciati come qualcosa di sano, di positivo, di atavicamente etico. 
Stronze. 
Il fulcro sulle scarpe "vissute" che narrano di noi e ci parlano con quel ghigno scollato... (più che guardare).
Bob66 ha scritto: mar lug 26, 2022 10:41 pm
Quanto le ho odiate, quelle scarpe, ma anche accettate e subite, persino amate, in fondo, perché sono state parte della mia vita che non posso amputare, né dimenticare. Gran parte della mia vita, a dirla tutta. Bella contraddizione. Per questo non ho avuto il coraggio di buttarle allora e non ce l’ho nemmeno ora. Credo che, dopotutto, si siano guadagnate questo piccolo angolo di cantina, come un sepolcro, in cui essere dimenticate e rimanere a sognare i fasti di un tempo che a me non appartiene più. 
Libero.
Caro @Bob66  :)

Di versi o di frasi, sei qui, con un saggio poetico sui simboli di un passato lontano. Grazie.

Ora, i giovani non arrivano più a fare "vissute" scarpe o scarponi,
preziosi testimoni di lunghi e travagliati cammini. Gioie e dolori trasportati, insieme coi nostri piedi, da un paio di calzature rugose e sfondate come il proprietario, che non le butterebbe mai via. 

Che dire, Roberto? Hai cambiato il tuo marchio di fabbrica? Nelle tue tredici "proesie" precedenti, (come dice Sira) che hai pubblicato qui su CdM in Poesia, io ti ho sempre riconosciuto una prosa poetica, e apprezzato il tuo stile, comunque  poetico. Va da sé e a tuo merito l'iscrizione di tuoi lavori tra Le migliori poesie di CdM.

Qui invece, anche se ci hai avvertito (ma pensavamo anticipassi la quattordicesima proesia) ci vedo troppo un racconto. Mi rivedo in te a scrivere un brano con questi (tanti) afflati poetici. Però io lo faccio nel MI...  ;)
Di sabbia e catrame è la vita:
o scorre o si lega alle dita.


Poeta con te - Tre spunti di versi

Re: [CP6] Il mio ultimo paio di scarpe

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@Poeta Zaza Ciao, grazie. Si, nell'off topic parlavo sul serio. Mi ha fatto piacere partecipare (nel fine settimana farò un giro di letture e commenti), in primo luogo perché era da un po' che non scrivevo in prospettiva di essere letto ed è stato bello ritrovare quella sensazione , e in secondo perché l'immagine di quelle scarpe mi ha suggerito fin da subito l'idea, e insomma si è infilato tutto in modo così naturale che mi sembrava un peccato non approfittarne. Detto questo, credo che il mood di questo pezzo sia ormai il mio unico modo di scrivere (quel poco che scrivo) e il Mi è troppo impegnativo per me :asd:

Re: [CP6] Il mio ultimo paio di scarpe

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Ciao @Bob66 

Questa prosa che dovrebbe essere la negazione della poesia come tecnica in sé, possiede a mio avviso una sua musicalità.
Mi è assai piaciuto questo tema delle vecchie scarpe che si conservano poiché sono parti della nostra esistenza, sono degli scrigni di ricordi, sensazioni, eventi che abbiamo vissuto e tornano nitidi nel momento in cui torniamo a osservarle, magari a distanza di anni.
Mi è piaciuto perché ho la stessa consuetudine della voce narrante della tua prosa.
In gioventù possedevo delle scarpe ClarK, modello "desert boot" che chiamavo le "quattrostagioni" perché le ho indossate per anni lungo ogni stagione dell'anno, hanno conosciuto la sabbia delle spiagge delle vacanze, la pioggia torrenziale e [font="Open Sans", "Segoe UI", Tahoma, sans-serif] la neve invernale.[/font]
[font="Open Sans", "Segoe UI", Tahoma, sans-serif]Per quasi dieci anni sono state le mie calzature d'ordinanza di giovane fricchettone.[/font]
[font="Open Sans", "Segoe UI", Tahoma, sans-serif]Anche quando non le portavo più, le ho tenute nel ripostiglio per almeno altri dieci anni prima di disfarmene.[/font]
[font="Open Sans", "Segoe UI", Tahoma, sans-serif]E non è stata una separazione indolore.[/font]

[font="Open Sans", "Segoe UI", Tahoma, sans-serif]Complimenti amico mio, bella prosa. [/font]
[font="Open Sans", "Segoe UI", Tahoma, sans-serif]Un saluto.[/font]

Re: [CP6] Il mio ultimo paio di scarpe

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@Nightafter E diciamocelo, che possedere oggetti in grado di attraversare gli anni (ora che la durata di vita media di qualsiasi oggetto si è scandalosamente abbassata) era una gran bella soddisfazione. Cioè, oltre ad affezionartici provavi un senso di gratitudine, perché le cose diventavano un punto di riferimento, ci potevi contare. Oggi compro un televisore, dopo neanche un anno lo devo portare a riparare e sentirmi dire che mi conviene prenderne uno nuovo. No, no, non ci siamo.
Grazie per il passaggio. Domani ricambio.   :super:

Re: [CP6] Il mio ultimo paio di scarpe

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ciao @Bob66 
Bob66 ha scritto: sab lug 30, 2022 10:55 pmE diciamocelo, che possedere oggetti in grado di attraversare gli anni (ora che la durata di vita media di qualsiasi oggetto si è scandalosamente abbassata) era una gran bella soddisfazione. Cioè, oltre ad affezionartici provavi un senso di gratitudine, perché le cose diventavano un punto di riferimento, ci potevi contare. Oggi compro un televisore, dopo neanche un anno lo devo portare a riparare e sentirmi dire che mi conviene prenderne uno nuovo. No, no, non ci siamo.
E diciamocelo francamente. Anche i sentimenti umani sono diventati tali, con una scadenza pari a quella del latte fresco.
Caro Roberto, non mi è piaciuta l'idea di questa prosa. Anche perché, in queste tue parole, hai veicolato un principio a me caro, e che avresti potuto condensare come sai anche fare, e farne una poesia a tutti gli effetti. Sei caparbio nelle tue decisioni, e sono sicuro che a te sta bene così! ciao  (y)
Tratti di pioggia sopra Auschwitz. Tra oblio e orgoglio

Re: [CP6] Il mio ultimo paio di scarpe

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@bestseller2020 
Ciao. Non è questione di caparbietà, anche e soprattutto perché mica devo imporre le cose che scrivo a nessuno, eh. Semmai la questione è di aver confidato nell'elasticità formale di un concorso social che pensavo finalizzato allo svago, anche se il sospetto che non fosse così mi aveva fatto mettere le mani avanti ed esternare prima quelle che erano le mie intenzioni, cioè partecipare senza dovermi forzare a scrivere in versi (cosa che al momento proprio non mi sento), anche offrendomi (più volte) di tenere lo scritto fuori concorso. D'altra parte le cose che scrivo per diletto, le cose che leggo e in sostanza quelle che ora mi coinvolgono di più sono tutte qui, in questa prosa che è un po' diario, un po' saggio, e un po' credo anche poesia. Un modo di scrivere che non ho certo inventato io, ma che al momento rappresenta al meglio le cose che mi interessa condividere. Per spiegarmi meglio, ritorno sulle parole usate nel commento a Ippolita, quando ho detto che il tuo commento a lei mi ha coinvolto molto di più di quanto possa al momento farlo una poesia, intendendo con ciò che quello di cui vado in cerca sono concetti e pensieri, non dell'eleganza e della raffinatezza con cui possono essere espressi (oddio, questo non è del tutto vero perché la prosa che leggo attualmente è decisamente dotata di entrambe e me ne compiaccio molto, ma vabbè, ci siamo capiti credo). Comunque la priorità rimane il concetto, e spesso mi dispiace vederlo ingabbiato all'interno di gabbie dorate di cui soltanto gli addetti ai lavori colgono del tutto la preziosità, ma tengo a dire che non ho postato lo scritto con l'intento di far valere questo mio punto di vista, anche perché sono tutte cose che ho detto e stradetto, e cominciano ad avere un suono stantio. Ho postato solo per partecipare, forte della consapevolezza che di certo non porto via la vittoria a nessuno e tantomeno l'editing gratuito di cui non saprei nemmeno che farmene  :D . Ciao, e grazie del passaggio. Sto leggendo ora le altre poesie e quindi in giornata passo anch'io.  :super:

Re: [CP6] Il mio ultimo paio di scarpe

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Ciao, Roberto, che piacere ritrovarti. 
Tempo fa pensavo alla tua Chloe e ai quei tuoi disegni così perfetti e veri, alla cura e alla pazienza necessarie per elaborarli. Perfezione e cura sono tue caratteristiche: per questo è così interessante questo componimento, in cui la "gabbia" della poesia tradizionale viene spazzata via in nome di una libertà che non è sciatteria ma necessità. 
Ti scrissi in un commento che ammiravo il tuo stile; oggi ti scrivo che già da un po' anch'io sento fremere dentro la necessità di scrivere così, ma sono ancora troppo incompetente in ambito poetico per lasciarmi andare, e quindi escono fuori degli ibridi duri e spigolosi. Scusa la digressione. 
Dunque: il tema poesia/prosa/proesia mi interessa moltissimo, anche se non ho mai tempo di studiarlo seriamente. 
Ti riporto qui sotto, per riallacciarmi al tuo scritto, lo stralcio iniziale della discussione omonima presente qui nel forum, nella sezione "Scrivere":

"Antonella Bisutti, in La poesia salva la vita, Milano 2020(5), pp. 28-31, citando La camera da letto di Attilio Bertolucci, vero e proprio romanzo in versi, interpella il lettore: come facciamo a dire che si tratta di poesia, visto che non c'è nulla che la ricordi, né una rima, né un ritmo?
Allora fa la prova di riscriverne uno stralcio come fosse una pagina di prosa, e qui si sofferma sulla seguente constatazione: la differenza tra quello stralcio scritto tutto di seguito e la pagina di un romanzo vero e proprio è che in Bertolucci le sensazioni prevalgono sui fatti; inoltre, siamo presi dalla storia momento per momento, senza pensare a come andrà a finire; nei racconti e nei romanzi, invece, accade il contrario.
Quindi: in apparenza l'opera di Bertolucci è prosa, ma in realtà è poesia". 

L'ho copiato per me, più che per te, perché tu sei libero da schemi mentre io no, quindi mi serve ancora qualcuno che mi prenda per mano e mi dica "sì, anche questa è poesia". 
Ho letto attentamente più volte il tuo scritto e le osservazioni che sto per fare non riguardano in nessun modo la scelta della prosa, come mi pare di aver chiarito sopra, né, ovviamente, i contenuti, e non solo perchè su alcuni argomenti radicali mi pare che la pensiamo allo stesso modo. 
La prima perplessità, dovuta solo alla mia sensibilità di lettrice, riguarda il fatto che mi pare vi sia dentro troppa roba e quindi una sorta di "confusione": nel senso che il lettore deve tenere aperti troppi fronti e troppo vasti. Quindi vi è, a mio parere, dispersione emotiva. 
La seconda perplessità riguarda la connessione assiomatica, se ho ben capito, tra disonestà e voglia di guadagno facile e il fatto, per dirla semplice, che abbiamo perso l'ultima guerra. Da questa prospettiva, mi risulta non immediatamente comprensibile perché le scarpe siano così denigrate: sì, la fatica che raccontano è insopportabile, ed è la stessa da sempre, ma dovrebbe rappresentare l'unico baluardo allo sfascio, il trofeo da esibire con fierezza, ovunque e in ogni tempo. A meno che non vi sia nel tuo scritto un sottile sarcasmo che non ho colto.
Perdonami se mi è sfuggito qualcosa, e grazie per gli spunti sempre così interessanti, @Bob66
https://www.amazon.it/rosa-spinoZa-gust ... B09HP1S45C

Re: [CP6] Il mio ultimo paio di scarpe

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@Ippolita 
Olè, perfetto. Quella considerazione di Antonella Bertolucci che hai riportato dovrebbe, a mio avviso, mettere fine all'eterna diatriba su quale sia l'esatta definizione del termine poesia, e la definizione, sempre a mio avviso (che ho studiato il tema molto meno di te, ma che ho la presunzione di pensare che ogni cosa, ogni cosa abbia una sua natura accessibile a qualsiasi buon osservatore, che cioè sappia guardare alla radice, alla ragion d'essere, e non che abbia assimilato specifiche nozioni pre-esistenti), è esattamente quella. La poesia va dritto alla sensazione. Non c'è trama, perché ogni trama inevitabilmente costruisce una storia, e la poesia non è storia. Le figure poetiche non hanno nome, non hanno volto, non hanno forma, perché appunto incarnano la sensazione pura, quella universale che io credo, al di là dei modi diversi in cui ognuno di noi reagisce ad essa, in fondo ci accomuna tutti quanti. Quindi, a mio avviso (scusate la ripetizione ma è necessaria) la poesia non è strettamente legata al ritmo o alla metrica, ma esiste una sua forma più o meno pura nella misura in cui riesce a distaccarsi dalla storia e a raggiungere la profondità più intima della sensazione, dell'emozione, di tutto ciò che non è descrivibile, né definibile, perché estremamente aleatorio e mutevole, e che soltanto riusciamo ad accarezzare, ad evocare senza mai riuscire a materializzarlo. Anche uno scritto come il mio potenzialmente può accarezzare una sensazione ma nel momento in cui si lega a un corpo e a una storia, perde gran parte della sua universalità e si contamina dell'individuo. Questo è quello che penso, poi vanno spese anche due parole sul significato delle parole stesse, cioè del modo in cui ci legano a degli assunti precostruiti e condizionano il nostro pensiero. Quando parlo di gabbie dorate, la parola gabbia assume all'istante un'accezione negativa, ma in realtà e nello specifico sottende soltanto una costruzione di regole che è tutt'altro che priva di valore. Una costruzione umana, certo, ma nobile nel suo intento e legittima. Non per tutti, naturalmente, ma nessuno di noi è tenuto ad omologarsi ad un linguaggio comunitario che dovrebbe per forza di cose semplificarsi. Non ci vedo nulla di sbagliato in questo. Lo sbaglio magari emerge quando si crea una discriminazione tra chi è introdotto a quel linguaggio e chi non lo è, cioè in altre parole quando si cominciano ad accostarvi delle accezioni positive e negative. Un po' come dire che una persona è bella o brutta quando è evidente che i parametri che definiscono il giudizio estetico sono squisitamente umani (simmetria, proporzionalità, misura del reggiseno...) e che in natura bello e brutto non esiste. E con questo, credo che non parlerò più di poesia o di proesia.
Mi dilungo un altro po' (mi pare già di sentire qualcuno che parla di pippone, ma tant'è) per rispondere alla questione delle scarpe e del loro significato. Per farlo seguo il filo logico (si fa per dire) del racconto, che ovviamente non mi sono adeguatamente spiegato e quindi cerco di farlo ora.
Le scarpe del racconto sono una metafora del lavoro duro, e fin qui ci siamo. Il fatto è che per il protagonista del racconto, e anche per me, il lavoro è diventato una contraddizione perché se da una parte ha sempre rappresentato quella sofferenza, quella mancanza di libertà che mi ha reso umile (be', un po') e mi ha tenuto i piedi per terra, dall'altra si è sempre più connaturato al denaro e a tutte quelle patologie sociali che il denaro nutre e coltiva. Però il fatto è che il lavoro, anche e soprattutto quello duro, è andato sempre più degradandosi. Dove un tempo, ti parlo di almeno una cinquantina d'anni fa e anche di più, un ragazzo si formava all'interno di una ditta e diventava un buon professionista, o perlomeno sviluppava una discreta capacità manuale, già alla fine del secolo scorso non si trovava più una manodopera degna del nome, e da lì in poi è stata una discesa continua con una breve pausa attuale durante la quale le imprese hanno tirato i remi in barca e stanno consumando gli ultimi anni lavorativi degli ultimi artigiani degni del nome, prima del pensionamento. Se poi parliamo di politica (senza evocare il merdaio di corruzione che ancora sussiste) ci rendiamo conto che continuiamo ad andare avanti misurando gli indici di produzione e disoccupazione, tralasciando la qualità del lavoro che è sottopagato, sfruttato, e non offre più nessun punto di riferimento laddove noi (vecchi) sappiamo quanto un buon posto di lavoro significhi in termini di sicurezza e stabilità emotiva. E non parliamo del territorio che altrimenti non finiamo più e c'è ancora gente che pensa che il ponte sullo stretto di Messina valga di più di una costante manutenzione degli edifici scolastici o degli ospedali. Lasciamo perdere, va, e comunque, ripensandoci, vecchi due maroni, ahahah.
Ciao Ippolita, scusa se ti ho sfinita ma è colpa tua che leggi con troppa attenzione (e certo riesci a districarti benissimo fra i tanti temi toccati) e premi tutti i tasti giusti.  :super:

Re: [CP6] Il mio ultimo paio di scarpe

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@Bob66  
Questa volta niente pulci, nessun suggerimento, nessun taglio. Solo un cambio d’abito. Complimenti!  :rosa:


Pomeriggio d’estate, di quelli silenziosi 
e distopici, quando la popolazione
sparisce e la città rivive.
E anch’io, in un certo senso.

In pensione da quasi un anno,
porto in giro i miei sandali,
gli occhiali scuri, le t-shirt nere
dai messaggi anarco-ambientalisti,
lo zaino da ragazzino e quei pochi
capelli bianchi rimasti,
effimeri come semi di tarassaco.

La città mi si offre nell’intimo,
in ogni sua singola vena e arteria,
disponibile e languida,
fin nelle più remote ramificazioni
del suo apparato circolatorio,
nel profumo del tempo e della storia
che sembrano ormai segreti da
condividere fra esuli in patria,
sopravvissuti e sopravviventi.

A questo proposito,
qualcuno pronosticava che il peso
del tempo ci avrebbe schiacciato,
ma il peso del tempo è un’illusione,
come del resto il tempo stesso.
La verità è che invecchiando,
con filosofia, il proprio ego diventa
sempre più leggero,
fin quasi a scomparire.

Verso le otto di sera
ritorno all’alveare condominiale,
anch’esso vuoto
e miracolosamente silente.
I raggi obliqui del sole
trafiggono le vetrate dell’ingresso
e incidono ideogrammi
sulle logore piastrelle di travertino.

Scendo in cantina per recuperare
una scatola di vecchi libri
fra i quali alcuni che vorrei rileggere.
La trovo, la sollevo per portarla di sopra,
ed eccole là dietro,
in un angolo del pavimento di cemento
di cui sembrano aver preso possesso
in virtù della loro arroganza
e del sarcasmo che ostentano ancora,
a distanza di quasi un anno
e a dispetto dell’usura.

Dico sarcasmo perché fin da subito
sembrano prendermi per il culo,
intonando la canzoncina di Modugno.
E il vecchietto dove lo metto,
dove lo metto non si sa…
Arroganti e tronfie. Supponenti,
ancora sicure di rappresentare
la sola alternativa di un uomo.

Mi guardano con quel ghigno scollato
che si apre in punta tra la tomaia
e la suola, quella bocca sadica,
forte della ferrosa placca antinfortunistica
che ha masticato le mie dita fino
a renderle storte e deformi.
Dita che ora si godono il riscatto
all’aria aperta e gli anni che restano
di vita, quella vera.

Sì, perché quelle vecchie, logore scarpe da
lavoro rivendicano invece una vita diversa,
fatta di fatica e sudore e sacrificio e dovere,
sempre spacciati come qualcosa di sano,
di positivo, di atavicamente etico.
Stronze.

Andatelo a dire a tutte quelle schiene
doloranti, alle mani dalla pelle come cuoio,
ai polmoni che hanno respirato polvere,
calce e cemento, amianto e peggio.
Alle mogli che si sono stancate
di veder tornare tardi i loro uomini,
doloranti e ingrugnati, come del resto
quegli uomini di doversi giustificare.

Andatelo a dire ai figli,
che hanno scelto strade meno faticose,
moralmente discutibili.
L’etica del lavoratore onesto
avrà anche retto per qualche generazione,
ma con quel che si è visto
in pieno boom economico,
il postribolo di politici e imprenditori,
mica si poteva pretendere di vederli
crescere all’insegna della rettitudine.

Andatelo a dire alla città
e al territorio quanto hanno sofferto
per la gloria del cemento, dell’automobile,
della plastica, della disoccupazione
ai minimi storici, della brutta copia
made in Italy del sogno americano.

Andatelo a dire al cielo e all’acqua
in cui abbiamo espulso i postumi
della sbornia modernista
degli ultimi settant’anni.

Quanto le ho odiate, quelle scarpe,
ma anche accettate e subite,
persino amate, in fondo,
perché sono state parte della mia vita
che non posso amputare, né dimenticare.
Gran parte della mia vita, a dirla tutta.
Bella contraddizione.

Per questo non ho avuto il coraggio
di buttarle allora e non ce l’ho nemmeno ora.
Credo che, dopotutto, si siano guadagnate
questo piccolo angolo di cantina,
come un sepolcro, in cui essere dimenticate
e rimanere a sognare i fasti di un tempo
che a me non appartiene più.

Libero
Sotto il cielo di Roma - Catartica Edizioni
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Re: [CP6] Il mio ultimo paio di scarpe

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@Sira Non ho parole, che strano. Ho apprezzato moltissimo il tuo regalo <3 . Tanto da rimetterci mano con molta meno indulgenza di te, che sei buona, lo sappiamo. Ed ecco nello spoiler, il risultato appena appena sgrezzato e sicuramente ancora disponibile a eventuali revisioni. Possiamo farlo rimanere lì, oppure potresti rimetterci mano ulteriormente (in totale libertà, vabbè quasi, visto che ora è anche tua, questa poesia) e vedere se si può migliorare. Dopodiché sarebbe bello postarlo in sezione poesia come lavoro a quattro mani, che dici? A me piacerebbe molto  :super:

Il mio ultimo paio di scarpe

Pomeriggio d’estate, silenzioso e distopico
quando la popolazione sparisce e
la città rivive, e anch’io.
Porto in giro i miei occhiali scuri
i miei sandali da pensionato,
quei pochi capelli bianchi rimasti
effimeri come semi di tarassaco.
La città mi si offre nell’intimo
in ogni sua singola vena e arteria
disponibile e languida, nel profumo
del tempo e della storia, segreti
per esuli in patria. Qualcuno
pronosticava che il peso del tempo ci avrebbe schiacciato
La verità è che invecchiando, con filosofia
l'ego diventa più leggero, quasi scompare.

Le ritrovo in cantina, per caso
dietro una scatola di vecchi libri
nell'angolo di cui hanno preso possesso
in virtù della loro arroganza, del sarcasmo
che ostentano ancora a dispetto dell’usura
Arroganti e tronfie, supponenti, sicure
di rappresentare la sola umana alternativa
Mi guardano con quel ghigno scollato
aperto in punta tra la tomaia e la suola
quella bocca sadica, la ferrosa placca antinfortunistica
che ha masticato le mie dita fino a deformarle.
Dita che ora si godono gli anni che restano
Aria aperta, vita, quella vera.

Quelle vecchie, logore scarpe da lavoro
rivendicano invece una vita diversa,
Fatica, sudore, sacrificio, dovere
spacciati come qualcosa di sano, positivo
atavicamente etico. Stronze
Lo dicano alle schiene piegate, alle mani
di cuoio, ai polmoni intasati di calce, cemento, e peggio
Lo dicano alle mogli stanche
di veder tornare tardi i loro uomini ingrugnati
come del resto quegli uomini di doversi giustificare
Ai figli che hanno scelto strade meno faticose,
moralmente discutibili. Cosa
potevamo pretendere, in fondo?
Lo dicano alla città e al territorio in sofferenza
per la gloria del cemento, dell’auto, della plastica
Brutta copia made in Italy del sogno americano.
Lo dicano al cielo e al mare, logori
dei postumi delle nostre sbornie

Quanto le ho odiate, quelle scarpe
ma anche accettate e subite, persino amate
Bella contraddizione.
Non ho avuto il coraggio di buttarle, allora
e non ce l’ho nemmeno ora
Si tengano, dunque
questo piccolo angolo di cantina come un sepolcro
in cui essere dimenticate, abbandonate
ai sogni che non mi appartengono più.
Libero
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