Mani

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“Povero Giovannino”.

Sapete quante volte l’ho sentito? Soprattutto quando ero piccolo. A quel tempo le persone non si curavano di dissimulare la compassione e di valutare l’effetto delle loro parole alla presenza di un bambino. Da adulto le cose non sono cambiate di molto. I vedenti non credono possibile che io possa intuire le espressioni di compatimento sui loro volti: mi basta cogliere una leggera inflessione della voce, un’esitazione del loro respiro.

Io, il povero Giovannino, non ho perso la vista; semplicemente non l’ho mai avuta. Certo, ne ho sentito parlare e ho cercato di immaginare cosa possa essere: qualcosa che ti fa percepire da più lontano anche quando non c’è un rumore, tutto lì. A sentir loro, senza questa facoltà non riuscirebbero a vivere, ed è per questo motivo che continuano a compatirmi. Tutti pensano che io sia uno come loro, ma senza qualcosa.



Questa sera Maria è venuta a trovarmi. Ha portato un grosso blocco di creta e mi ha promesso di farmi passare una serata indimenticabile.



Ci siamo conosciuti in biblioteca. Avevo sentito il suo profumo quando si era seduta due posti alla mia sinistra; niente di aggressivo, la prima impressione è stata quella di una ragazza semplice, acqua e sapone. Ma dopo pochi minuti l’ho sentita muoversi sulla sedia. Era distratta, cambiava spesso posizione, in quel modo faceva distrarre anche me. Girai la testa dalla sua parte. I vedenti se non li guardi non capiscono che ti stai rivolgendo a loro.

– Scusa, sto facendo troppo rumore? – aveva detto.

Una voce acuta e morbida allo stesso tempo; piacevole. Le sorrisi. Le mie dita continuavano a scorrere lungo il testo in braille. Anche se le stavo sorridendo non avevo bisogno di interrompere la lettura.

Lei si spostò sulla sedia più vicina.

– Ma come fai?

A quel punto fui costretto a sospendere.

Una ragazza ingenua, un po’ naif, pensai. Viste le circostanze decisi di prendermi una pausa, e poi mi ero incuriosito.

– Ti va un caffè? – le chiesi.



Ci incontriamo tutte i martedì pomeriggio nel parco davanti alla biblioteca. Io arrivo sempre un po’ prima di lei e quando si avvicina riconosco il ritmo dei suoi passi sulla ghiaia. Agito la mano quando la sento arrivare e ogni volta mi dice che sono peggio di Daredevil.

Mi ha chiesto di insegnarle a leggere il braille. Le ho detto che a lei non sarebbe servito, ma ha insistito.

– Tu sai fare molte più cose di me, – ha detto. Così abbiamo iniziato con qualche libro semplice, di quelli che si usano alle elementari. Non è molto portata e fa ancora un sacco di errori.

Mi ha raccontato che quando deve prendere un ascensore entra con gli occhi chiusi per cercare di riconoscere i numeri impressi sui tasti, ma spesso è costretta a sbirciare.



– Le tue mani.

Le nomina spesso, come se fossero qualcosa di speciale. Ha voluto che le toccassi il viso.

Un volto regolare: capelli ondulati tenuti lunghi appena sotto le orecchie che lasciano scoperto il collo, il naso con una leggera curva appena prima della punta, le labbra non troppo pronunciate e il mento bene arrotondato.

Ha cercato anche lei di fare la stessa cosa. Ha chiuso gli occhi e ha iniziato a passare i polpastrelli sulla mia faccia. Al principio con un tocco leggero, poi ho avvertito le sue falangi irrigidirsi, fermarsi e riprendere più insistenti. Ho sentito il suo respiro contrarsi.

– Non ce la farò mai.

Si è innervosita. Ho dovuto prenderle le mani per tranquillizzarla.

– Non riesco a dimenticare la tua immagine. Voglio vederti come tu vedi me – aveva detto.



Quando ha suonato alla porta ho acceso la luce: per me solo un click, un atto di cortesia, ma lei ha subito protestato.

– Niente luce! – ha ordinato.

Ha posato il pesante blocco di creta sul tavolo.

– Forse non te lo avevo ancora detto ma ho fatto l’accademia delle belle arti.

Me lo aveva già detto un sacco di volte. La sua ossessione era quella di trovare un nuovo modo di esprimersi. Forse per questo l’avevo tanto affascinata.

– Vieni. Avvicinati al tavolo.

Sento sotto le mani la consistenza plastica della creta.

– Così. Inizia a impastare. – dice lei.

Man mano sento la sostanza diventare più morbida.

– Ora senti il mio viso con le dita e cerca di riprodurlo sulla creta. Io farò lo stesso con te e modellerò a occhi chiusi.

Passiamo tutta la sera a toccarci e a lasciarci toccare, a imbrattarci il viso con le mani sporche di fango.

– Ecco, vieni – dice lei.

Accarezzo il volto di creta che ha modellato e sento un tuffo al cuore. Per la prima volta mi vedo.

Sento di nuovo la sua mano sul mio volto, ma questa volta è una carezza.

– Sono veramente questo per te?

La sua voce è quasi stupita, piena di emozione. Le sue parole sono l’eco dei miei pensieri, la stessa domanda inespressa.

Le mani corrono.

Le mie, le sue.

Avide di conoscere tutto il resto.
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