Venti minuti dopo le diciannove

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Il racconto ha il finale aperto come da consegna del contest. Ringrazio tutti coloro che mi hanno suggerito di sfoltire i pronomi personali in funzione di soggetto e di eliminare il breve incipit sul fumo.

Il professor Cosimo Palmieri, appoggiato a un muro della stazione, lasciò che il fumo uscisse lento dalle labbra accostate e lo osservò mentre si disperdeva: era soddisfatto, perché aveva appena eseguito il proprio dovere di figlio e ora si apprestava a salire sul regionale che lo avrebbe ricondotto a casa. Era giugno inoltrato. Le scuole erano chiuse ed egli, quell'anno, non sarebbe stato occupato con gli esami di maturità. Lo attendevano un paio di mesi di letture e bagni di mare e, sopra ogni cosa, la vivacità ferina del caldo estivo, che amava di un amore mitico: in quel calore si originava a suo dire la vita intera, e nella sua mente di studioso si avvicendavano moti primordiali di voluttà animalesca unita a purissimo discernimento.

Il treno arrivò, e il professore aspirò un'ultima saporita boccata prima di far schizzare lontano il mozzicone, schiacciandolo tra pollice e medio. Erano le sette di sera, e la luce riempiva ancora di sprazzi dorati le lamiere e i ciuffi d'erbaccia intorno ai lampioni e ai pali delle rare pensiline. Salì sul primo vagone che gli capitò davanti, pregustando la cena di pesce con la nuova collega di greco e la notte che – sperava – sarebbe seguita. Sedette accanto al finestrino, nello scompartimento ancora vuoto; respirò profondamente, e un senso di felicità gli si allargò nel petto. Chiuse gli occhi e sorrise. Pensava a quel vezzo della collega che tanto lo aveva incuriosito: era solita voltare la testa da un lato e abbassare gli occhi verso la spalla; si toccava poi la punta del naso con l'indice e la schiacciava verso l'alto, fino a scoprire gli incisivi superiori. Non era bello a vedersi, ma per il Palmieri quel gesto aveva un che di suggestivo: come se lei fosse una ninfa capricciosa, o una bambina imbronciata. Avrebbe voluto, in quei momenti, girarle il capo e baciarla in quella bocca volubile, e si ripromise di farlo quella sera stessa, se lei avesse ripetuto quel bizzarro movimento.
Venne distratto da un vociare scherzoso e dal suono di un telefono: erano entrate nel vagone due ragazze, di vent'anni o giù di lì, le quali, in tanto spazio vuoto, si sedettero proprio davanti a lui. Egli dapprima si innervosì un poco; poi, dopo il saluto gentile delle due, aprì un libro e iniziò a leggere. Il treno partì, e fuori dal finestrino le case si allontanavano sempre più veloci.
Guardò l'orologio: venti minuti dopo le diciannove. Chiuse il libro e abbassò le palpebre; in quell'oretta che lo separava da casa avrebbe potuto fare un sonnellino, se le chiacchiere delle due ragazze non lo avessero infastidito. Era sul punto di cambiare posto, col rischio di apparire scortese, quando una sensazione dolorosa, di natura indefinita, gli attraversò la mente: un'agitazione molesta, un'inquietudine impalpabile gli si posò addosso e lo costrinse a rimanere seduto. Ragionò su cosa potesse essere accaduto nella sua testa in quel minuscolo spazio di tempo: era sereno, anzi, felice, solo un paio di minuti addietro. Esaminò con la meticolosità di un matematico ogni movimento compiuto e ogni pensiero, e di colpo comprese: aveva guardato l'orologio. Rammentò di aver eseguito quel gesto banale anche un paio d'ore prima, o forse meno, nella casa di riposo in cui lui e la sorella avevano rinchiuso – sì, questa era la parola adatta, e Cosimo lo sapeva bene – la madre.

Lei era seduta su una panchina nel piccolo giardino antistante la vecchia costruzione, e Cosimo l'aveva raggiunta lì, e salutata con un abbraccio e due baci sulle guance. Poi si era accomodato accanto a lei; le aveva chiesto cosa mangiasse di buono, se il personale fosse gentile e simpatiche le persone del posto. Le aveva ripetuto più volte che si trattava di una situazione transitoria e che, trascorsa l'estate, l'avrebbero ricondotta a casa.
«Ora non è possibile, mamma: cerca di essere comprensiva. Linda e io agiamo solo per il tuo bene, ricordalo. Meglio qui che con una badante; lo sai che non siamo riusciti a trovarne nessuna che ti andasse a genio» diceva Cosimo mentre le carezzava la mano piccola e bianca. La madre lo guardava fisso negli occhi, per cercare in essi le risposte che non sapeva darsi: non ricordava di aver rifiutato badanti. In quel luogo era spaesata: le sembrava di aver cominciato daccapo una vita senza luce e non capiva bene il perché. Certo, qualche piccolo cedimento in quell'anno trascorso vi era stato, ma lei si sentiva ancora in grado di vivere la sua vita fatta di minute abitudini che le davano gioia. Non comprendeva pertanto quella decisione repentina dei figli: ma vi si era sottomessa senza reagire, come era stata abituata a fare sin da bambina, quando lavorava nelle campagne intorno a Siracusa.
Cosimo cercava di sfuggire quello sguardo indicandole i pitosfori fioriti e raccogliendo per lei piccoli mazzi odorosi. La madre sorrideva con dolcezza e continuava a fissarlo negli occhi. Fu allora che Cosimo guardò l'orologio, e lei se ne accorse. Gli disse che voleva rientrare e lui la condusse sottobraccio fino alla sua stanza. Lei gli dette un bacio sulla fronte e pronunciò la frase che sempre accompagnava i suoi baci, sin da quando i figli erano piccoli: «Dio ti benedica». Cosimo l'abbracciò stretta e le promise che sarebbe tornato presto. Andò via senza rimpianti o tentennamenti, pieno dell'odore dell'estate.

Ora, sul treno, quell'azione abituale gli apparve rozza e meschina: un gesto volgare, intriso di egoismo. Percepì un conato di vomito e il desiderio irrefrenabile di raccontare a qualcuno ciò che aveva fatto, affinché nell'ascoltarsi potesse comprendere in fondo la gravità della colpa: se di colpa si trattava. Mai aveva provato nella sua vita un senso di angoscia così lacerante. Alzò gli occhi alle due giovani che gli sedevano davanti.
«So di essere inopportuno» cominciò a voce bassa, «ma avrei bisogno immediato di un consiglio. Anche solo di un ascolto onesto riguardo a una questione che mi sta molto a cuore». Le due si guardarono senza capire. Cosimo continuò: «Vi chiedo scusa, ma credo di aver fatto qualcosa di brutto di cui non riesco a comprendere l'esatta portata. Qui nel vagone ci siete solo voi. Passasse il controllore, lo chiederei a lui. Mi serve con urgenza un parere esterno, perché ora sono troppo confuso e non in grado di giudicare da me».
Il tono agitato ma gentile e l'aspetto signorile dell'uomo incuriosirono le ragazze, che accettarono di ascoltare quella specie di confessione. Entrambe, però, presero in mano il cellulare e, senza farsi accorgere, lo aprirono sulla pagina dei numeri d'emergenza.
Cosimo raccontò con scrupolosa foga ogni particolare, fino al momento in cui aveva abbassato gli occhi sull'orologio e la madre, avvedendosene, era voluta tornare in camera e lo aveva congedato.
«Quella è la donna che mi ha messo al mondo. Mi ha amato silenziosa, mi ha fatto studiare e reso libero» mormorò l'uomo, con i gomiti sulle ginocchia e la testa appoggiata alle mani. «Potrebbe morire stanotte, e io in quell'oretta che le ho dedicato ho guardato l'orologio. Lei questo ricorderà di me: che sono un miserabile». Tentò di frenare il gemito che gli pulsava in gola, ma inutilmente. Di fronte a lui, una delle ragazze lo aveva ascoltato con interesse, mentre l'altra, ogni tanto, sbirciava il cellulare. Quella attenta prese la parola.
«Facciamo tanto male agli altri, e non ce ne rendiamo conto» disse a voce bassa, «ma più di tutto facciamo molto male a noi stessi». Non disse altro, e fissò a lungo quello strano uomo, di cui non conosceva il nome ma il tormento. Ebbe l'impulso di prendergli le mani tra le sue e sussurrargli la propria, di colpa: ma si trattenne. Tirò fuori dallo zaino matita e album e cominciò a ritrarre Cosimo e la sua disperazione.
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Re: Venti minuti dopo le diciannove

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Cara Ippolita, c’è sempre una grazia nei tuoi testi che è invidiabile, e la scrittura è perfetta, non una virgola fuori posto o un refuso.
Poi però tanta grazia mi pare più poetica che narrativa e, se mi permetti, direi che manca un po’ del realismo che dovrebbe esserci in una storia. Non so, mi sembra una situazione poco plausibile. Ma leggerti è sempre un piacere.


Scusami, ma non ho capito come si fa a taggarti in questo nuovo forum.

Re: Venti minuti dopo le diciannove

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Caro @PRB, ti ringrazio per aver letto questo racconto e per le tue considerazioni, che apprezzo molto. Non sei il solo a sottolineare il poco realismo, soprattutto nella richiesta di Cosimo alle ragazze e nel fatto che quest'ultime si siano sedute proprio di fronte a lui, nonostante il vagone vuoto. Se ci rifletto, forse solo due dei miei racconti sono davvero realistici. Grazie ancora.
Per taggare, digita la chiocciola e subito dopo, senza spazio, il nome dell'utente: si aprirà il menu a tendina. Ciao!
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