Non so scrivere con la luce accesa

1
I - Shemira

Posso solo dire questo: da domani non sarà più la stessa cosa. Ho ancora le mani infradiciate dal bagno di purificazione, i polpastrelli raggrinziti e il naso pieno del fumo delle yahrtzeit, le candele che hanno acceso lungo tutto il corridoio della casa fino a questa stanza, la stanza che da domani non sarà più di Ruth.
Ho passato le ultime ore a lavarle il corpo con un effluvio di acqua corrente, strofinando in ogni singola piega e frizionandolo con l’olio di oliva. Le ho pettinato i capelli, puntandoli a formare un crocchio sulla nuca, come li portava lei. L’ho vestita del bianco di lino più puro che avessimo: ho dovuto scavare tra le ceste di lenzuola antiche che mia madre custodiva gelosamente e strapparle di mano il sudario per poterla avvolgere.
Adesso non mi resta che scriverne. Scrivere di Ruth. Ma come è possibile?
Le persone vanno e vengono e io sono inchiodata qui. Non posso uscire, è uno dei miei obblighi. È già abbastanza raro che una donna si occupi di queste cose. Se violassi uno solo dei precetti che mi permettono di fare da shomeret, qualsiasi vecchio bacucco in questa stanza si strozzerebbe nel tentativo di sputarmi addosso parole al cianuro.
E poi che importa? Non c’è altro posto in cui vorrei essere. Ruth è stata con me e con mia sorella tutta la vita, e so che anche per lei è sempre valso lo stesso.
Osservo le fibre della carta. È spessa e con una grana irregolare, ricavata da pelle di capra. Non saprei trovare parole degne di inchiostrarla.
Le fiammelle vibrano nell’aria consumata amplificando la presenza ingombrante di tutta questa gente e vomitandone le ombre su di me. Hanno cominciato ad arrivare ben dopo il tramonto, uscendo di casa in silenzio, strisciando i piedi per non disturbare l’aria coi loro rumori. Si sono riversati qui come topi, nell’oscurità, quasi avessero paura di farsi riconoscere.
Lo capisco. Alcuni non li vedo da quand’avevo l’età di Illa, mia sorella. Cioè da almeno dieci, dodici anni. All’inizio ho tentato di osservarne i volti per poterli riconoscere, ma ne distinguevo solo i brandelli esposti dalla luce. Poi ho smesso di provarci: che importa? Nessuno di loro è davvero qui per Ruth, neanche lei ce li avrebbe voluti. Non si erano visti quando papà ci aveva abbandonati. Non si erano fatti vivi quando la testa di mia madre aveva preso il largo, né quando Ruth si era rotta il femore.
E adesso sono qui, senza sapere neanche loro il perché. Qualcuno osa addirittura fumare, convinto di poter confondere il proprio menefreghismo tra i vapori delle candele.
Dopo qualche ora, i miei occhi filtrano i corpi al chiarore lattiginoso della luna e si sono abituati a distinguere solo i tessuti: la sensazione materica di una giacca di lana, di una gonna frastagliata. Abiti vuoti, indossati da fantasmi che mi scorrono davanti come in filigrana. Poi si posano su Illa. Ancora non so immaginare cosa provi lei, se pensi qualcosa in tutto questo miasma di corpi. Non si è mai avvicinata a Ruth, ed è troppo bassa per poterla vedere senza arrampicarsi, recinta da quelle assi di cedro che ne circoscrivono lo spazio vitale. Quelle assi sono per me l’insulto più grande: se Ruth potesse parlare, non le accetterebbe. Non c’è nulla che possa contenerla; contenere la sua forza, la sua energia, la sua voce.
Illa dà le spalle a tutti, e si limita ad osservarsi nel grande specchio dell’armadio a muro. La vedo fare qualche smorfia, una linguaccia, e ridersela tra sé e sé.
«Illa, — le bisbiglio. — Smettila di fare la stupida.»
Come vorrei che non ci fosse nessuno qui. Solo io e Ruth. Come vorrei sparissero tutti, assieme a queste candele.
«Scusa. Vuoi che ti prenda qualcosa da mangiare dalla cucina?»
«No. Lo sai che non posso mangiare niente.»
«Cos’hai scritto?»
La guardo. Così piccola, senza un’idea del domani. Tento di mostrarle un sorriso dolce.
«Niente. Non so scrivere con la luce accesa.»
Illa sospira. Profondamente. Come a voler spegnere tutte le candele in un colpo solo. Capisce molto più di quanto dà a vedere.

II - Neshama

Da quassù la stanza è molto più grande e meno vuota di quanto sia mai stata. Ci sono tutti, persino Noa. Il merito non è mio, ma di Adah. Così giovane e così saggia. Mi è stata accanto fino all'ultimo, badando a me con tanto amore. Non come Noa che si è dimenticata di avere una madre e di esserlo a sua volta. Anche David è venuto. Se ne sta in disparte, lontano dalla moglie e dalle figlie che fanno finta di non accorgersi di lui. Soprattutto Illa che si guarda intorno con l'aria smarrita, aggrappata alla gonna della sorella.
Adah, la mia dolce bambina cresciuta troppo in fretta. Ora tocca a lei prendersi cura della più piccola di casa, leggera e fragile come una farfalla appena venuta al mondo. Sorride ed è un sorriso tirato, di chi vorrebbe essere da tutt'altra parte fuorché in questa stanza oblunga piena di gente stipata intorno alla bara come fiammiferi in una scatola. Alcuni piangono e si portano il fazzoletto agli occhi, alcuni sospirano e si danno coraggio l'uno all'altro con una stretta di mano. Altri bisbigliano sottovoce, scambiandosi occhiate curiose. Tutta gente che non vedevo da anni, che non sentivo da anni, accorsa appena ha saputo, come gli avvoltoi.
Adah è d'accordo con me. Glielo leggo negli occhi. Conosco bene quel lampo. Le si aggrottano sempre le sopracciglia quando è in difficoltà. Le parole sono come frecce, escono fuori solo al momento opportuno, e forse non è ancora arrivato. Lo capisco dal modo in cui stiracchia il foglio e si passa la penna tra le dita, prima di infilarsela in bocca e mordicchiarla come se fosse un lecca-lecca, con quell'aria assorta che la contraddistingueva anche da bambina. So che è un compito difficile, ma è l'unica che possa farlo. Nessuno è più degno di lei di fare da shomeret e sono certa che lo farà benissimo. È sempre stata più avanti rispetto ai suoi coetanei. Di poche parole, ma giuste e adatte a ogni occasione, pronunciate con la chiarezza di un adulto.
Adah mi conosce meglio di chiunque altro, come conosco io lei. Ci basta uno sguardo per capirci, tanto è forte la nostra intesa. Non ho un rapporto simile con nessuno della famiglia, nemmeno con Noa. Adah è diversa persino da Illa, con cui ha in comune soltanto la sensibilità e la perspicacia, due tratti che hanno ereditato da me e dai miei antenati. Per il resto sono come fuoco e acqua, giorno e notte. Adah è coraggiosa e porta sulle spalle il peso della famiglia. A soli dieci anni aveva imparato a cucinare e a rassettare la casa, dopo l'abbandono del padre. Illa, invece, ha paura anche della sua stessa ombra, ma può contare su un grande alleato: il suo sorriso. Alla sua età, la vita è soltanto un gioco le cui regole deve ancora imparare.
Accarezzato dalla luce soffusa di una candela, che mette in risalto le pecche intorno al naso, il volto di Adah, contorto dal dolore, tradisce non solo la sofferenza del momento, ma anche la sua voglia di solitudine. Si sente un'estranea in mezzo a tutta questa gente, e se potesse li manderebbe via uno a uno, inclusi Noa e David. Se dipendesse da lei, saremmo in questa stanza solo in tre. Pochi, ma intimi.
La testa di Adah si china da un lato, mentre le sue labbra si allargano all'improvviso e gli occhi diventano tutt'uno con la fiammella. Le parole saltano sul foglio in piroette e ghirigori, seguite dal clap-clap di mani di Illa. Le mie piccole, grandi, donne. Sono così fiera di loro. Apro la bocca per dirglielo, ma esce soltanto aria. Un soffio prima che tutto intorno a noi diventi buio.

Il suono della voce di Adah riempie gli spazi di luce assente.
«Da domani non sarà più la stessa cosa senza di te, Ruth.»

Questo racconto era stato scritto a quattro mani con @Emy per il MI135 che poi non vincemmo perché c'ero anch'io tra gli autori. Non ho cambiato nulla per non voler mancare di rispetto alla suddetta autrice e perché non avevo voglia. Ho cambiato solo i titoletti in grassetto perché qui non si possono centrare perché l'editor fa schifo. @Niko fai qualcosa di utile nella vita
Rispondi

Torna a “Racconti”