Le rose no, bucano le mani

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Io ci ho provato, ispettore, a resistere, ma quel rossetto era sbavato dappertutto, stava fuori dalla bocca – il rossetto sulle labbra deve stare, mica fuori –, saliva ai buchi del naso e poi colava giù, fino al mento. E sul mento – li vedevo benissimo, ispettore: stavo seduto davanti a quella vecchia ripugnante, e avevo pure messo i gomiti sulle ginocchia per avvicinarmi –, sul mento crescevano dei peli lunghi e bianchi, attorcigliati come vermi sull'amo. Ha visto, ispettore, come fanno i vermi quando li infilza sull'amo? Cercano di risalire per morderti, si avvinghiano su sé stessi sperando di liberarsi, ma non è possibile: sono trafitti a morte, cibo per i pesci, ormai. Ecco, quei peli attorcigliati sembravano tanti vermi sanguinolenti, perché quel rossetto schifoso li aveva macchiati di rosso.
Lei afferma che non si può perdere la testa a causa del rossetto sbavato di una disgraziata che se ne sta sulla metro per i fatti suoi. Ma ispettore, cosa dice: non è stato mica per quello. Il rossetto io l'ho notato solo alla fine, quando la gente ha cominciato a scendere e il vagone a svuotarsi. Allora non ci siamo capiti. Quella è stata l'ultima cosa.
Sì, d'accordo, le racconto tutto daccapo.

Ho preso la metropolitana alle otto del mattino, come tutti i giorni, per andare al lavoro. Sono riuscito a entrare solo nel terzo treno che è passato, perché gli altri erano troppo pieni. Prima di scendere alla mia fermata – che poi è il capolinea – passa sempre un'oretta, più o meno. Qualche volta trovo un posto libero e mi siedo, come stamattina. Nella fila dei sedili davanti a me ho notato subito quelle scarpe, ma solo quelle, e per parecchio tempo: glielo assicuro. La carrozza era stracolma. Dopo qualche fermata mi sono apparse anche le mani.
Il viso no! Il viso l'ho potuto vedere solo due fermate prima del capolinea, quando il vagone ormai si era svuotato. Se quella maledetta fosse scesa prima, non sarebbe accaduto niente; anche se quelle mani mi avevano già fatto accelerare i battiti.
Io me ne sto sempre per conto mio, ispettore. Me ne sto tranquillo, con gli occhi bassi. Al lavoro mi metto sulla mia sedia all'entrata del cimitero, vicino al banco dei fiori, e aiuto mio cugino a cambiare l'acqua nei vasi, e do informazioni a chi me le chiede. Devo stare lontano solo dai gigli rosa, quelli coi pistilli che macchiano di rosso, perché l'odore nauseabondo mi fa venire la voglia di ammazzare qualcuno. Infatti mio cugino, che lo sa, non li vende, e non li vende neppure quello che ha il banco accanto. Io amo i tulipani, che si allargano al sole, e mi piace l'odore delle fresie, così delicato. Le rose no, bucano le mani, e sono rigide su quegli steli lunghi e vanitosi.

Allora, come le dicevo, sono entrato nella metro; per un po' sono stato in piedi, poi un tizio si è alzato e io mi sono messo seduto. Le ho notate subito, quelle scarpe davanti a me: erano gialle, di plastica lucida, con le fibbie nere e dorate e la para di gomma bianca, dura e alta. Scarpe da giovane, ho pensato. Scarpe adatte a una bella ragazza, di quelle moderne, che si vestono tutte sgargianti. E mentre guardavo quelle scarpe cercavo di immaginare se fosse bionda oppure scura di capelli. Poi, a un certo punto, sono comparse quelle mani.
All'inizio ho sperato che appartenessero a un'altra persona, ma non era possibile, perché stavano proprio sulla stessa linea verticale delle scarpe gialle. Mani grasse, ispettore: e tutte le dita erano piene di anelli pacchiani, robaccia di bigiotteria, e le unghie erano sporche, con lo smalto verde scrostato. Il cuore ha cominciato a battermi forte, e le tempie mi pulsavano. Perché io amo il bello, ispettore, amo le cose fini, le cose pulite. Ho cercato allora di guardare da qualche altra parte, ma sentivo la rabbia delle cose fatte male, e le cose fatte bene che mi dicevano "ribellati, Donato, ribellati al brutto! il brutto fa male agli occhi e al cuore, il brutto va preso a calci in bocca!", e allora volevo scendere, ma poi ho pensato che sarei arrivato tardi al lavoro e Mario mi avrebbe detto come al solito "se vieni tardi un'altra volta te lo scordi che ti lascio stare ancora qui, per il niente che fai manco il poco che ti do ti meriti, ringrazia il cielo che sei figlio a mia cugina, fannullone ritardato che non sei altro" e sono rimasto seduto.
Non so quanto tempo è passato. Quando ho alzato di nuovo il viso lei era ancora là, con le sue scarpe gialle, le unghie sporche sulle dita grasse, e la bocca col rossetto sbavato. Aveva in testa un cappello da uomo con la visiera messa al contrario, e dai lati uscivano pochi capelli tinti di nero, unti e crespi. Mi guardava fissa, quella vecchiaccia, forse perché aveva capito quanto mi faceva schifo. "Sono una vecchia, embè?" sembrava che mi dicesse per prendermi in giro, "e mi vesto come cavolo mi pare, mica devo rendere conto a te. Anzi, se mi va, me ne vado pure in giro nuda, deficiente!".
Avrei dovuto scendere allora. Invece mi sono fissato a guardare quella bocca larga tinta di rosso e le rughe intorno, piene pure loro di quel colore, e la faccia gialla e gli occhi avvizziti, col nero del trucco che colava sulle occhiaie, ed è stato allora che ho urlato "vai a fare da concime ai vermi, bestia ripugnante", e le ho infilato il coltello nella gola. Vedrà che ha capito la lezione, ispettore. Mai superare il limite, mai oltrepassare la soglia. Non lo sai quello che ti aspetta.
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