«Nina, sei sicura di voler venire? Andare di notte non è come quando incontri quelli che vengono al Centro.»
Cosa mai ci sarà di differente, gli vorrei rispondere. Forse solo la fatica: invece di stare seduta ad ascoltare, mi devo muovere.
«Sì, te l'ho già detto, Piero. Sicura.»
Sono le nove di sera: il furgoncino con noi cinque dentro parte verso la Stazione Ostiense. Mentre gli altri parlano di politica, io guardo fuori: a quest'ora del sabato, di solito, sono a cena con gli amici. Poi porto il cane a fare un giro. Vedo per la strada tanti ragazzi con le bottiglie di birra in mano, che ridono e si prendono a spinte. Piero parcheggia quasi davanti alla Stazione. Penso a mio fratello: conosceva tutte le discoteche qui vicino e una volta, per sbaglio, aveva vomitato su un barbone. "Ero ubriaco!", diceva ridendo mentre si dondolava sulla sedia. Mia madre e mio padre non si erano arrabbiati quando Elio, a cena, aveva raccontato di quella sera. Io avevo dodici anni, e guardavo il coltello per la carne poggiato sul tavolo della cucina. Una parte di me afferrava quel coltello e glielo infilava nella gola. Lui si sbilanciava e cadeva all'indietro, da seduto: io allora gli saltavo con i piedi sulla pancia e guardavo il sangue che colava.
«Siamo pronti? Chi ha le coperte termiche? E i sacchi a pelo dove sono? Avevo detto di preparare due buste distinte. Sabry, tira fuori lo zaino coi thermos, per favore.»
Detesto il modo di fare di Piero. È organizzatissimo e bravissimo e buonissimo e tante altre cose in -issimo, ma mi dà fastidio. Perché dire Sabry se si chiama Sabrina? I diminutivi mi fanno uscire di testa.
«I pasti caldi li prendo io» dico prima che riesca a storpiare anche il mio breve nome, ma ciò non lo soddisfa: per me è la prima volta, dice, e devo solo guardare e imparare.
«I pasti caldi li porta Roby», ordina fiero.
Eccoli. Sono lì, davanti a noi, come mucchi di immondizia che respira. Piccole matasse di capelli sporchi escono fuori dai cartoni e da strati di pezze colorate. Tutt'intorno buste di plastica piene di roba. Due di loro tirano fuori le facce, e con le bocche senza denti ci sorridono. Piero e gli altri li conoscono, li chiamano per nome. Offrono loro il sacchetto con la roba da mangiare, spostano i cartoni e li sostituiscono con le coperte termiche: a Roma, in questi giorni, si muore di freddo. Mi tengo in disparte, e osservo. Dov'è la vita, la vita nuda intendo? È quella mia, che compro le cose da mangiare al supermercato, pago le bollette della luce, parlo di cucina coi colleghi, dormo dentro a un letto che sta in una stanza che sta in un appartamento che sta in un condominio? E se rimanessi qui, stanotte, in mezzo a loro, lo capirei una buona volta cos'è la vita?
«Vi presento una nuova amica, Nina. Lei sta a un Centro di Ascolto, sente tante storie simili alle vostre. Oggi ha voluto esserci.»
La voce di Piero suona fastidiosa. Cosa significa "ha voluto esserci", mi domando. Mi fa apparire come una che va allo zoo a guardare gli animali da vicino. Mi inginocchio davanti a quei due corpi, le cui teste ora si vedono nella loro interezza, e l'odore che ben conosco mi entra dalle narici fino nel cervello. Quando sono nella mia stanza di volontaria posso aprire la finestra e spruzzare lo spray disinfettante; qui no. I due sono un tutt'uno con quel fetore. La vita è esattamente questo: il marciume che diventeremo da morti, e insieme gli occhi azzurri che in questo momento mi fissano. Voglio essere te, penso mentre lo guardo: perché tu sì e io no? Cerco di trattenere i singhiozzi e la voglia di infilarmi sotto quei cartoni in mezzo a loro. Non sto bene: mia madre ha ragione. Sono esaltata, nevrotica, irrazionale. "E allora perché ho anche avuto una promozione, me lo spieghi, e come mai ho studiato Statistica, se sono così tanto irrazionale? Me lo sai spiegare?" Non fa niente, penso. È inutile cercare di capire cosa è la vita. Ora mi metto buona buona accanto a Piero e cerco di pensare ad altro.
Dietro di noi, sulla piazza, vi è un'aiuola rialzata, chiusa da massicci blocchi di tufo, con in mezzo un grande pino marittimo. Intorno al pino vi sono tanti ragazzi: alcuni orinano contro l'albero, altri spaccano le bottiglie sul marciapiede. Sono ubriachi già prima di entrare nelle discoteche. Una pattuglia fa marcia indietro e chiede loro i documenti. Mi giro di nuovo verso i miei amici barboni. Chissà se conoscevano quello contro cui mio fratello vomitò quella notte di tanti anni fa. È quasi mezzanotte ormai, ho un freddo cane nonostante i guanti e il cappello. Effettivamente a quest'ora potrei/dovrei stare tra le mie lenzuola profumate di ammorbidente ai fiori di loto, mentre la mia Chica mi annusa i capelli. La notte non finisce mai. I barboni da aiutare qui in Stazione sono quindici, e poi ci sposteremo sul Lungotevere, e poi spero basta. Vorrei mangiarmeli tutti, farli scomparire nel caldo della mia bocca e digerirli dentro lo stomaco per assimilare fino in fondo tutto il dolore e tutta quanta l'ingiustizia della vita, e insieme a loro vorrei infilarmi nella bocca anche tutti quei ragazzi ubriachi e masticarli – io che i denti li ho – insieme ai barboni, così si potrebbero comprendere meglio tra loro. Spero che il furgoncino mi riporti presto e mi lasci scivolare, all'alba, di fronte al portone di casa, una casa vera, fatta di mattoni, con dentro le scale e l'ascensore che conducono alle porte blindate degli appartamenti caldi e luminosi. Lì dentro mi voglio chiudere a chiave e dare molte, moltissime mandate, in modo tale che nessuno possa entrare e che io non possa mai più uscire.
ringrazio @Bef per due preziosi suggerimenti accolti nel testo ("denti grigi" anziché "bianchi" e "capelli sporchi" anziché "grigi"), e di nuovo @queffe per il suo bel commento:
Inviato 15 aprile 2020
Il 29/3/2020 alle 23:35, Ippolita2018 ha scritto:
Una parte di me afferrava quel coltello e glielo infilava nella gola. Lui si sbilanciava e cadeva all'indietro, da seduto: io allora gli saltavo con i piedi sulla pancia e guardavo il sangue che colava.
Terribile (e splendidamente rappresentato). La sliding door fra un futuro da serial killer e quello da volontario per l'assistenza ai bisognosi...
Condivido i due appunti che ti ha fatto @Befana Profana sul colore dei denti e dei capelli.
Vero pure (e quanto!) che ciò che salta all'occhio è il finale desiderio di distanza della voce narrante dal dolore; la fragile empatia, che nella sostanza pare soccombere all'istinto (alla scelta?) di fuga dalla realtà. Ho letto solo velocemente, per il momento, le tue risposte, ma mi pare di comprendere che il tuo intento non fosse esattamente la rappresentazione di questo. Eppure è proprio questo che, in qualche modo, a mio parere, rende interessante il racconto. L'atmosfera notturna e un po' oscura che irrompe fra dovere di solidarietà, buoni propositi, bisogno di condivisione e di assistenza (non è forse un caposaldo del soccorso, la consapevolezza del fatto che ottiene più chi dona rispetto a chi riceve?), ecco: quest'atmosfera rappresenta bene l'oscuro (non troppo estremo) che c'è in noi. Oddio, poi non posso avere la presunzione di generalizzare. Dirò: in me senza dubbio. Rifiutare, in qualche modo, l'empatia, trovare rifugio nel mio angolo di mondo, sono tentazioni che non posso dire di non aver mai provato.
L'impotenza, la sensazione di combattere una battaglia più grande delle nostre capacità e che sentiamo già persa in partenza, sono, poi, solo alibi. Questa sorta di autocritica non traspare in alcun modo dal racconto. Nella mia personale interpretazione, il finale, infatti, è più aperto di quanto possa sembrare. L'irrealtà del desiderare di non voler più uscire rende proprio la scelta della tua protagonista come non ancora compiuta, come attimo di grande debolezza che non è detto che lei non possa vincere. È lo sconforto (ben rappresentato in poche ed essenziali parole) che potrebbe preludere a una prepotente (e definitiva) reazione.
Non so, ma io mi ci specchio molto. E quell'anestetico che è costituito dalla propria roccaforte di certezze, che crediamo (vogliamo... vorremmo) granitiche e che invece sono di sabbia, può aver poca efficacia, grazie alla scelta della quale ci è data, comunque, la facoltà.
Ok, ok: forse vado molto al di là di ciò che questo tuo "frammento" realmente rappresenta (più testimonianza, che intervento morale) ma proprio la sua estemporaneità, la sua carenza sotto il profilo della storia narrata, non dovrebbe spingere il lettore a una riflessione intima? Tu gli sbatti in faccia la quasi-vittoria della scelta di fuga di un personaggio e lui (il lettore) si trova costretto a meditarci su. Per come ti è venuto fuori io non ci leggo un invito a guardare ai poveri, bensì un'intimazione a guardarmi dentro.
Per questo mi è piaciuto.
A rileggerti.
Inviato 15 aprile 2020
Il 29/3/2020 alle 23:35, Ippolita2018 ha scritto:
Una parte di me afferrava quel coltello e glielo infilava nella gola. Lui si sbilanciava e cadeva all'indietro, da seduto: io allora gli saltavo con i piedi sulla pancia e guardavo il sangue che colava.
Terribile (e splendidamente rappresentato). La sliding door fra un futuro da serial killer e quello da volontario per l'assistenza ai bisognosi...
Condivido i due appunti che ti ha fatto @Befana Profana sul colore dei denti e dei capelli.
Vero pure (e quanto!) che ciò che salta all'occhio è il finale desiderio di distanza della voce narrante dal dolore; la fragile empatia, che nella sostanza pare soccombere all'istinto (alla scelta?) di fuga dalla realtà. Ho letto solo velocemente, per il momento, le tue risposte, ma mi pare di comprendere che il tuo intento non fosse esattamente la rappresentazione di questo. Eppure è proprio questo che, in qualche modo, a mio parere, rende interessante il racconto. L'atmosfera notturna e un po' oscura che irrompe fra dovere di solidarietà, buoni propositi, bisogno di condivisione e di assistenza (non è forse un caposaldo del soccorso, la consapevolezza del fatto che ottiene più chi dona rispetto a chi riceve?), ecco: quest'atmosfera rappresenta bene l'oscuro (non troppo estremo) che c'è in noi. Oddio, poi non posso avere la presunzione di generalizzare. Dirò: in me senza dubbio. Rifiutare, in qualche modo, l'empatia, trovare rifugio nel mio angolo di mondo, sono tentazioni che non posso dire di non aver mai provato.
L'impotenza, la sensazione di combattere una battaglia più grande delle nostre capacità e che sentiamo già persa in partenza, sono, poi, solo alibi. Questa sorta di autocritica non traspare in alcun modo dal racconto. Nella mia personale interpretazione, il finale, infatti, è più aperto di quanto possa sembrare. L'irrealtà del desiderare di non voler più uscire rende proprio la scelta della tua protagonista come non ancora compiuta, come attimo di grande debolezza che non è detto che lei non possa vincere. È lo sconforto (ben rappresentato in poche ed essenziali parole) che potrebbe preludere a una prepotente (e definitiva) reazione.
Non so, ma io mi ci specchio molto. E quell'anestetico che è costituito dalla propria roccaforte di certezze, che crediamo (vogliamo... vorremmo) granitiche e che invece sono di sabbia, può aver poca efficacia, grazie alla scelta della quale ci è data, comunque, la facoltà.
Ok, ok: forse vado molto al di là di ciò che questo tuo "frammento" realmente rappresenta (più testimonianza, che intervento morale) ma proprio la sua estemporaneità, la sua carenza sotto il profilo della storia narrata, non dovrebbe spingere il lettore a una riflessione intima? Tu gli sbatti in faccia la quasi-vittoria della scelta di fuga di un personaggio e lui (il lettore) si trova costretto a meditarci su. Per come ti è venuto fuori io non ci leggo un invito a guardare ai poveri, bensì un'intimazione a guardarmi dentro.
Per questo mi è piaciuto.
A rileggerti.