[N20-3] Il dottor T. Suaf
Inviato: sab gen 16, 2021 12:00 pm
Il dottor T. Suaf
A poco meno di trenta chilometri da Crouch End, uno dei quartieri più settentrionali di Londra, proseguendo verso Nord c’era un agglomerato di case basse inerpicato su un lieve colle, di nome Down Hill. Era una città di medie dimensioni, non troppo distante dal centro nevralgico del paese ma abbastanza da essere l’unico insediamento umano in una porzione di terra in cui il grigio paesaggio industriale della city scompariva, lasciando il posto a foreste di faggi e caprifogli e distese di terreni fangosi e paludosi.
Vi si giungeva da Sud attraverso una larga via principale, la quale ricalcava un’antica via consolare romana, che proveniva dai dintorni della capitale e tagliava in due la cittadina. A Nord, la stessa arteria principale si biforcava subito fuori dal centro così che due strade proseguissero nelle direzioni opposte, l’una verso ponente e l’altra verso levante, fino quasi a giungere entrambe sul mare. Ad osservarla dall’alto, la cittadina appariva molto simile alla tela di un ragno, con diverse dozzine di viuzze più o meno sottili che la percorrevano in senso circolare, dal centro verso l’esterno.
Su una di esse camminava con passo sommesso e lo sguardo basso il dottor T. Suaf, raccolto in un pesante montgomery e zuppo d’acqua. L’inverno sapeva essere parecchio rigido da quelle parti, ma quello corrente era stato fino ad allora uno dei peggiori mai registrati dall’inizio del secolo. Non era tanto per il freddo, ma l’acqua veniva giù a scrosciate violente e schiaffeggiava i rari intrepidi passanti. Qualche lampo bruciava l’aria cupa della notte, mentre il vento sibilava minaccioso e scuoteva le siepi e gli arbusti ai bordi dei marciapiedi in modo tale da imporgli una danza che al dottor T. Suaf, per il breve istante che aveva alzato il capo dal terreno, apparve alquanto… sinistra.
Si strinse più forte la sciarpa intorno al collo, colto da un brivido insolitamente lungo, e affrettò il passo. Giunse a un vicolo stretto e buio, di quelli che per apparire lugubri e in abbandono non necessitano di una tempesta, e bussò a una porta nella quale si infilò non appena questa si schiuse.
La luce calda di una lampada illuminava adesso una stanza piuttosto squallida e lercia, e due uomini raccolti intorno a un tavolo. Uno, il dottor Suaf, si era appena tolto il cappello e lo scuoteva dall’alto verso il basso nel vano tentativo di asciugarlo. Il viso era quello di un vecchio, infradiciato dalla pioggia. Due baffi sottili e bianchi sormontavano una bocca piccola, immobilizzata in una smorfia di tensione per la quale il dottore aveva assunto un aspetto grottesco. L’altro individuo era un uomo più giovane, ne poteva mostrare al massimo quaranta, dalla corporatura robusta quasi il doppio del dottore e dal volto severo e scattante.
Tra i due uomini non avvenne che una brevissima conversazione, durante la quale il dottore tirava fuori dal tascone della giacca un mazzetto di denaro e lo passava all’altro. La mano gli tremava mentre lo faceva. Con la stessa mano tremante, dopo che l’uomo robusto avesse rapidamente contato il denaro e acconsentito con un cenno del capo, raccoglieva dal tavolo una bottiglietta contenente un liquido nerastro e la infilava in tasca. Terminato l’acquisto, il dottor Suaf tornò alla porta e si reimmise nella tempesta.
Un fulmine crepitò a poca distanza, seguito subito dopo da un boato terrificante. Il fervore della pioggia, se possibile, sembrava essere aumentato. Di passanti adesso non ce n’era manco l’ombra.
Suaf camminò via per qualche minuto, ma con l’incrementare della bufera si rifugiò correndo sotto un porticato sul lato della piazza deserta.
Ansimava, non solo per lo sforzo dovuto alla breve corsa ma per quello che stava per fare. Poco prima aveva deciso di agire in casa, ma la tempesta sembrava costringerlo a farlo subito e lì, nel cuore della cittadina cupa e in balia delle intemperie come il suo animo.
Estrasse la bottiglietta dalla tasca e la agitò con delicatezza davanti al volto, come se con gli occhi potesse penetrare nel liquido nero e scrutare qualcosa nel suo lento ondeggiare, magari qualcosa che potesse rafforzare oppure negare la sua decisione.
Stappò la bottiglietta. La avvicinò al naso e un odore acre e pungente gli graffiò le narici. Tremava. Nell’attimo in cui la portava alle labbra un’ombra spuntò alle sue spalle. Suaf la vide con la coda degli occhi e trasalì, tentando con affanno di nascondere la bottiglietta.
“Ma no, non badi a me, faccia pure se desidera” gli sentì dire.
Il dottore si voltò, così l’ombra assunse una figura distinta, quella di un uomo giovane e magro, non troppo alto, ben vestito e all’apparenza di rango elevato. La pelle era di un colorito piuttosto pallido ma ciò nonostante trasmetteva una sensazione di un certo benessere. Due baffetti scuri incorniciavano un sorriso sottile, e il volto pareva incorniciato in una luce insolita.
“Chi è lei? Cosa vuole?” chiese il dottor Suaf, visibilmente agitato.
“Cosa vuole lei?”
“C-come scusi? È lei che è spuntato dal niente, insomma. Qui non c’era nessuno fino a un attimo fa”. E in effetti quell’uomo sembrava davvero essersi materializzato dal nulla, nel pieno di una tempesta terribile.
L’altro ridacchiò e non disse alcunché. Fissava il vecchio sempre con il sorrisetto stampato sulla faccia.
“Allora, cosa vuole?” ripeté Suaf, il quale cominciava a spazientirsi.
“È la seconda volta che lo chiede a me, eppure lei non ha risposto ancora alla stessa domanda, dottore”.
“Come? Ma scusi, ci conosciamo?”
“In un certo senso… almeno, lei non conosce me, ma io so tutto di tutto e tutti, quindi anche di lei, dottor Suaf, è naturale”. E ridacchiò di nuovo.
Suaz assunse un’espressione perplessa. Il pensiero di aver di fronte un matto cominciò a insinuarsi nella sua testa. Già il fatto che fosse per strada con quel tempaccio non deponeva a suo favore, e adesso di cosa blaterava?
L’altro riprese: “Va bene, non c’è bisogno che mi risponda. Innanzitutto, credo che neanche lei sappia dire con esattezza cosa vuole, e potrei provarlo. Con la sola eccezione di quello che vuole adesso, naturalmente: togliersi la vita con il veleno che nasconde sotto il cappotto.”
T. Suaf impallidì. Aprì la bocca come per parlare ma non uscì un suono. Era esterrefatto.
“Suvvia, non faccia quella espressione” proseguì il giovane, “è proprio per questo che sono qui”. Tese una mano coperta da un raffinato guanto di velluto scuro al dottore. “Mi presento, sono Lucifero, Mefistofele, Satana… insomma, il Diavolo in persona.”
Il dottore strabuzzò gli occhi. Un pazzo, di sicuro, una persona instabile e forse… pericolosa? Non che lui avesse di che preoccuparsi, visto il desiderio di farla finita. Cosa avrebbe potuto fargli, ucciderlo? Niente di terribile, dunque. Ma proprio adesso doveva comparire un folle a fargli perdere tempo, proprio ora che aveva finalmente trovato il coraggio di farla finita arrivava ad impicciarsi nei suoi affari…
“Coraggio, dottore, si sbrighi a farlo così…potrò avere la sua anima!” Il tono era stato volutamente teatrale.
A Suaf scappò una risatina rassegnata: “E cosa se ne fa, se posso permettermi? Sono solo un povero vecchio come tanti, immagino che non gliene manchino di più interessanti…” Ma sì, sarebbe stato al gioco per qualche minuto, decise. Giusto per rendere meno tragico l’ultimo atto. La tragedia non gli si confaceva poi così tanto, preferiva la farsa e lì con quel tizio strambo ce n’erano tutti gli elementi.
“Lei si sottovaluta, mio caro”, rispose il giovane. Si avvicinò al dottore e lo scrutò per intero con occhi vispi, sempre sorridendo. “Lei è un uomo interessante, mi permetta. Molto complesso! Ah, mi creda, la complessità è una virtù che non lascia indifferente neanche il sottoscritto.”
“Complesso… ” ripeté a bassa voce T. Suaf. Rifletteva su quanto complessa fosse stata in effetti la sua vita per portarlo a quel triste punto.
“Sì, certo. Ci pensi, caro dottore, non è forse complessa la sua anima? Non è una eccezionale dimostrazione di complessità il fatto che dopo tutto quello che ha fatto nella sua vita, una vita piena di eventi e di successi, sì, così li chiamate voi, lei avverta nelle viscere un senso così profondo di insoddisfazione?”
Fece una pausa.
“Di vuoto”.
Un’altra pausa.
“Ciò che vuole fare, al contrario, è troppo semplice. Si vuole… abbandonare. Vuole davvero smettere di vivere? Bene, allora faccia pure e mi consegni il suo spirito. Anche se io potrei proporle…così, per diletto e perché mi suscita simpatia… un’alternativa”.
Il vecchio iniziò a provare un senso di disagio. Quello sconosciuto che pretendeva di scavargli dentro invece di lasciarlo in pace negli ultimi istanti della sua vita cominciava a dargli fastidio. Ciononostante, le sue parole avevano un tono sornione, strisciavano pian piano nel profondo. Senza nemmeno accorgersene, T. Suaf gli rispose: “Quale? ”
“Mi dia la possibilità di farle provare qualche gioia, dottore. Si conceda tutto ciò che ha sempre sognato per un po’ prima di svanire nella dannazione eterna”.
“Cosa?” La voce di Suaf tradiva confusione.
“Non capisce, dottore? Le sto dando la possibilità di realizzare i suoi vecchi desideri, di morire senza rimpianti. Le sto offrendo il mio enorme potere”.
A Suaf scappò una risatina. Rifletté per qualche istante.
“Benissimo, mi dimostri di cosa è capace allora. Faccia in modo che questa tempesta finisca all’istante!”
“Lo vuole?” chiese il giovane con voce lenta e profonda.
“Assolutamente sì, lo desidero!” rispose il dottore, scimmiottando con mesto divertimento lo stesso tono dell’altro.
Nemmeno il tempo di terminare la frase e il vento cessò di colpo, e le nuvole vorticarono e si dissolsero come polvere spazzata via. Una splendida notte stellata si schiude allora sulla testa di Suaf incredulo, il quale però poté pensare lì per lì a una rarissima ma pur possibile coincidenza. Così rilanciò: “No, anzi, desidero stare sotto un meraviglioso sole estivo!” e guardò l’altro con aria di sfida.
Il giovane scosse la testa. “Ma no, come il sole? Di notte? Questo non è possibile…”
“Ecco, lo sapevo. Lei non è altro che un impost…”
Il suono gli si spezzò sulle labbra. Un sole caldo esplose nel cielo tingendolo d’azzurro. Suaf ne percepì immediato il tepore sulla pelle del viso e delle mani. Socchiuse gli occhi per la veemenza della luce improvvisa della stella.
Il Diavolo – adesso Suaf aveva ben motivo di considerarlo tale – emise un ghigno divertito: “Scherzavo.”
Il dottore era senza fiato. Per qualche attimo sentì le gambe vacillare. L’incredulità e lo spavento lo agitavano.
Passato però il momento di smarrimento, chiese al Diavolo, il quale pareva molto divertito dalla reazione dell’altro:
“Se è vero che hai questo potere da offrirmi e che sei il demonio, cosa chiedi in cambio? La mia anima puoi averla subito, credo, quindi non capisco cosa tu possa volere da me”.
Il diavolo divenne serio di colpo. Con voce grave disse: “Chiedo soltanto che tu, una volta esaurita la sete di voglie, prenda il mio posto”.
Suaf comprese immediatamente il guaio in cui si sarebbe cacciato. Se l’altro, nonostante gli enormi poteri che ne derivavano, non vedeva l’ora di cedere il proprio posto, voleva dire che la condizione che gli offriva fosse peggiore di tutte le sofferenze della vita e persino della morte. Eppure la tentazione era tanta, e non riusciva a negarvisi.
Rifletté per qualche minuto, dopodiché una luce si accese sul suo volto. Guardò il demone dritto negli occhi e sorridendo rispose: “Accetto!”
La stretta di mano sancì il patto. Quello che seguì fu un vortice di eventi incredibili: il dottor Suaf diventò un giovane nel pieno delle forze, ricco e meravigliosamente attraente. Amò donne bellissime, ebbe fama e gloria senza eguali nella storia, vide i segreti più imperscrutabili del mondo svelarsi ai suoi occhi. Il tempo smise di dominarlo e ne divenne schiavo.
Quando dopo molti secoli la fame di felicità si esaurì e ogni desiderio era stato realizzato, il demonio arrivò a riscuotere la sua parte del patto. Suaf diventò così il Diavolo, lasciando all’altro la possibilità di trovare finalmente la pace.
Come prima azione da satana, Suaf tornò a una notte tempestosa a Down Hill.
Un fulmine crepitò a poca distanza, seguito subito dopo da un boato terrificante. Il fervore della pioggia, se possibile, sembrava essere aumentato. Suaf camminò via per qualche minuto, ma con l’incrementare della bufera si rifugiò correndo sotto un porticato sul lato della piazza deserta.
Ansimava, non solo per lo sforzo dovuto alla breve corsa ma per quello che stava per fare. Poco prima aveva deciso di agire in casa, ma la tempesta sembrava costringerlo a farlo subito e lì, nel cuore della cittadina cupa e in balia delle intemperie come il suo animo.
Estrasse la bottiglietta dalla tasca e la agitò con delicatezza davanti al volto, come se con gli occhi potesse penetrare nel liquido nero e scrutare qualcosa nel suo lento ondeggiare, magari qualcosa che potesse rafforzare oppure negare la sua decisione.
Stappò la bottiglietta. La avvicinò al naso e un odore acre e pungente gli graffiò le narici. Tremava. Nell’attimo in cui la portava alle labbra un’ombra spuntò alle sue spalle. Suaf la vide con la coda dell’occhio.
L’ombra mise la mano su quella tremante del dottore, e gli sussurrò all’orecchio:
“Lo faccia, dottore, lo faccia e non soffrirà più”.
Delicatamente, condusse la bottiglietta alla bocca di Suaf, che lo lasciò fare, bevve e chiuse gli occhi. L’ombra lo accompagnò con delicatezza mentre si accasciava senza vita sul marciapiede bagnato d’inverno. Poi sorrise compiaciuto per aver ingannato il Diavolo e scomparve nel nulla.
A poco meno di trenta chilometri da Crouch End, uno dei quartieri più settentrionali di Londra, proseguendo verso Nord c’era un agglomerato di case basse inerpicato su un lieve colle, di nome Down Hill. Era una città di medie dimensioni, non troppo distante dal centro nevralgico del paese ma abbastanza da essere l’unico insediamento umano in una porzione di terra in cui il grigio paesaggio industriale della city scompariva, lasciando il posto a foreste di faggi e caprifogli e distese di terreni fangosi e paludosi.
Vi si giungeva da Sud attraverso una larga via principale, la quale ricalcava un’antica via consolare romana, che proveniva dai dintorni della capitale e tagliava in due la cittadina. A Nord, la stessa arteria principale si biforcava subito fuori dal centro così che due strade proseguissero nelle direzioni opposte, l’una verso ponente e l’altra verso levante, fino quasi a giungere entrambe sul mare. Ad osservarla dall’alto, la cittadina appariva molto simile alla tela di un ragno, con diverse dozzine di viuzze più o meno sottili che la percorrevano in senso circolare, dal centro verso l’esterno.
Su una di esse camminava con passo sommesso e lo sguardo basso il dottor T. Suaf, raccolto in un pesante montgomery e zuppo d’acqua. L’inverno sapeva essere parecchio rigido da quelle parti, ma quello corrente era stato fino ad allora uno dei peggiori mai registrati dall’inizio del secolo. Non era tanto per il freddo, ma l’acqua veniva giù a scrosciate violente e schiaffeggiava i rari intrepidi passanti. Qualche lampo bruciava l’aria cupa della notte, mentre il vento sibilava minaccioso e scuoteva le siepi e gli arbusti ai bordi dei marciapiedi in modo tale da imporgli una danza che al dottor T. Suaf, per il breve istante che aveva alzato il capo dal terreno, apparve alquanto… sinistra.
Si strinse più forte la sciarpa intorno al collo, colto da un brivido insolitamente lungo, e affrettò il passo. Giunse a un vicolo stretto e buio, di quelli che per apparire lugubri e in abbandono non necessitano di una tempesta, e bussò a una porta nella quale si infilò non appena questa si schiuse.
La luce calda di una lampada illuminava adesso una stanza piuttosto squallida e lercia, e due uomini raccolti intorno a un tavolo. Uno, il dottor Suaf, si era appena tolto il cappello e lo scuoteva dall’alto verso il basso nel vano tentativo di asciugarlo. Il viso era quello di un vecchio, infradiciato dalla pioggia. Due baffi sottili e bianchi sormontavano una bocca piccola, immobilizzata in una smorfia di tensione per la quale il dottore aveva assunto un aspetto grottesco. L’altro individuo era un uomo più giovane, ne poteva mostrare al massimo quaranta, dalla corporatura robusta quasi il doppio del dottore e dal volto severo e scattante.
Tra i due uomini non avvenne che una brevissima conversazione, durante la quale il dottore tirava fuori dal tascone della giacca un mazzetto di denaro e lo passava all’altro. La mano gli tremava mentre lo faceva. Con la stessa mano tremante, dopo che l’uomo robusto avesse rapidamente contato il denaro e acconsentito con un cenno del capo, raccoglieva dal tavolo una bottiglietta contenente un liquido nerastro e la infilava in tasca. Terminato l’acquisto, il dottor Suaf tornò alla porta e si reimmise nella tempesta.
Un fulmine crepitò a poca distanza, seguito subito dopo da un boato terrificante. Il fervore della pioggia, se possibile, sembrava essere aumentato. Di passanti adesso non ce n’era manco l’ombra.
Suaf camminò via per qualche minuto, ma con l’incrementare della bufera si rifugiò correndo sotto un porticato sul lato della piazza deserta.
Ansimava, non solo per lo sforzo dovuto alla breve corsa ma per quello che stava per fare. Poco prima aveva deciso di agire in casa, ma la tempesta sembrava costringerlo a farlo subito e lì, nel cuore della cittadina cupa e in balia delle intemperie come il suo animo.
Estrasse la bottiglietta dalla tasca e la agitò con delicatezza davanti al volto, come se con gli occhi potesse penetrare nel liquido nero e scrutare qualcosa nel suo lento ondeggiare, magari qualcosa che potesse rafforzare oppure negare la sua decisione.
Stappò la bottiglietta. La avvicinò al naso e un odore acre e pungente gli graffiò le narici. Tremava. Nell’attimo in cui la portava alle labbra un’ombra spuntò alle sue spalle. Suaf la vide con la coda degli occhi e trasalì, tentando con affanno di nascondere la bottiglietta.
“Ma no, non badi a me, faccia pure se desidera” gli sentì dire.
Il dottore si voltò, così l’ombra assunse una figura distinta, quella di un uomo giovane e magro, non troppo alto, ben vestito e all’apparenza di rango elevato. La pelle era di un colorito piuttosto pallido ma ciò nonostante trasmetteva una sensazione di un certo benessere. Due baffetti scuri incorniciavano un sorriso sottile, e il volto pareva incorniciato in una luce insolita.
“Chi è lei? Cosa vuole?” chiese il dottor Suaf, visibilmente agitato.
“Cosa vuole lei?”
“C-come scusi? È lei che è spuntato dal niente, insomma. Qui non c’era nessuno fino a un attimo fa”. E in effetti quell’uomo sembrava davvero essersi materializzato dal nulla, nel pieno di una tempesta terribile.
L’altro ridacchiò e non disse alcunché. Fissava il vecchio sempre con il sorrisetto stampato sulla faccia.
“Allora, cosa vuole?” ripeté Suaf, il quale cominciava a spazientirsi.
“È la seconda volta che lo chiede a me, eppure lei non ha risposto ancora alla stessa domanda, dottore”.
“Come? Ma scusi, ci conosciamo?”
“In un certo senso… almeno, lei non conosce me, ma io so tutto di tutto e tutti, quindi anche di lei, dottor Suaf, è naturale”. E ridacchiò di nuovo.
Suaz assunse un’espressione perplessa. Il pensiero di aver di fronte un matto cominciò a insinuarsi nella sua testa. Già il fatto che fosse per strada con quel tempaccio non deponeva a suo favore, e adesso di cosa blaterava?
L’altro riprese: “Va bene, non c’è bisogno che mi risponda. Innanzitutto, credo che neanche lei sappia dire con esattezza cosa vuole, e potrei provarlo. Con la sola eccezione di quello che vuole adesso, naturalmente: togliersi la vita con il veleno che nasconde sotto il cappotto.”
T. Suaf impallidì. Aprì la bocca come per parlare ma non uscì un suono. Era esterrefatto.
“Suvvia, non faccia quella espressione” proseguì il giovane, “è proprio per questo che sono qui”. Tese una mano coperta da un raffinato guanto di velluto scuro al dottore. “Mi presento, sono Lucifero, Mefistofele, Satana… insomma, il Diavolo in persona.”
Il dottore strabuzzò gli occhi. Un pazzo, di sicuro, una persona instabile e forse… pericolosa? Non che lui avesse di che preoccuparsi, visto il desiderio di farla finita. Cosa avrebbe potuto fargli, ucciderlo? Niente di terribile, dunque. Ma proprio adesso doveva comparire un folle a fargli perdere tempo, proprio ora che aveva finalmente trovato il coraggio di farla finita arrivava ad impicciarsi nei suoi affari…
“Coraggio, dottore, si sbrighi a farlo così…potrò avere la sua anima!” Il tono era stato volutamente teatrale.
A Suaf scappò una risatina rassegnata: “E cosa se ne fa, se posso permettermi? Sono solo un povero vecchio come tanti, immagino che non gliene manchino di più interessanti…” Ma sì, sarebbe stato al gioco per qualche minuto, decise. Giusto per rendere meno tragico l’ultimo atto. La tragedia non gli si confaceva poi così tanto, preferiva la farsa e lì con quel tizio strambo ce n’erano tutti gli elementi.
“Lei si sottovaluta, mio caro”, rispose il giovane. Si avvicinò al dottore e lo scrutò per intero con occhi vispi, sempre sorridendo. “Lei è un uomo interessante, mi permetta. Molto complesso! Ah, mi creda, la complessità è una virtù che non lascia indifferente neanche il sottoscritto.”
“Complesso… ” ripeté a bassa voce T. Suaf. Rifletteva su quanto complessa fosse stata in effetti la sua vita per portarlo a quel triste punto.
“Sì, certo. Ci pensi, caro dottore, non è forse complessa la sua anima? Non è una eccezionale dimostrazione di complessità il fatto che dopo tutto quello che ha fatto nella sua vita, una vita piena di eventi e di successi, sì, così li chiamate voi, lei avverta nelle viscere un senso così profondo di insoddisfazione?”
Fece una pausa.
“Di vuoto”.
Un’altra pausa.
“Ciò che vuole fare, al contrario, è troppo semplice. Si vuole… abbandonare. Vuole davvero smettere di vivere? Bene, allora faccia pure e mi consegni il suo spirito. Anche se io potrei proporle…così, per diletto e perché mi suscita simpatia… un’alternativa”.
Il vecchio iniziò a provare un senso di disagio. Quello sconosciuto che pretendeva di scavargli dentro invece di lasciarlo in pace negli ultimi istanti della sua vita cominciava a dargli fastidio. Ciononostante, le sue parole avevano un tono sornione, strisciavano pian piano nel profondo. Senza nemmeno accorgersene, T. Suaf gli rispose: “Quale? ”
“Mi dia la possibilità di farle provare qualche gioia, dottore. Si conceda tutto ciò che ha sempre sognato per un po’ prima di svanire nella dannazione eterna”.
“Cosa?” La voce di Suaf tradiva confusione.
“Non capisce, dottore? Le sto dando la possibilità di realizzare i suoi vecchi desideri, di morire senza rimpianti. Le sto offrendo il mio enorme potere”.
A Suaf scappò una risatina. Rifletté per qualche istante.
“Benissimo, mi dimostri di cosa è capace allora. Faccia in modo che questa tempesta finisca all’istante!”
“Lo vuole?” chiese il giovane con voce lenta e profonda.
“Assolutamente sì, lo desidero!” rispose il dottore, scimmiottando con mesto divertimento lo stesso tono dell’altro.
Nemmeno il tempo di terminare la frase e il vento cessò di colpo, e le nuvole vorticarono e si dissolsero come polvere spazzata via. Una splendida notte stellata si schiude allora sulla testa di Suaf incredulo, il quale però poté pensare lì per lì a una rarissima ma pur possibile coincidenza. Così rilanciò: “No, anzi, desidero stare sotto un meraviglioso sole estivo!” e guardò l’altro con aria di sfida.
Il giovane scosse la testa. “Ma no, come il sole? Di notte? Questo non è possibile…”
“Ecco, lo sapevo. Lei non è altro che un impost…”
Il suono gli si spezzò sulle labbra. Un sole caldo esplose nel cielo tingendolo d’azzurro. Suaf ne percepì immediato il tepore sulla pelle del viso e delle mani. Socchiuse gli occhi per la veemenza della luce improvvisa della stella.
Il Diavolo – adesso Suaf aveva ben motivo di considerarlo tale – emise un ghigno divertito: “Scherzavo.”
Il dottore era senza fiato. Per qualche attimo sentì le gambe vacillare. L’incredulità e lo spavento lo agitavano.
Passato però il momento di smarrimento, chiese al Diavolo, il quale pareva molto divertito dalla reazione dell’altro:
“Se è vero che hai questo potere da offrirmi e che sei il demonio, cosa chiedi in cambio? La mia anima puoi averla subito, credo, quindi non capisco cosa tu possa volere da me”.
Il diavolo divenne serio di colpo. Con voce grave disse: “Chiedo soltanto che tu, una volta esaurita la sete di voglie, prenda il mio posto”.
Suaf comprese immediatamente il guaio in cui si sarebbe cacciato. Se l’altro, nonostante gli enormi poteri che ne derivavano, non vedeva l’ora di cedere il proprio posto, voleva dire che la condizione che gli offriva fosse peggiore di tutte le sofferenze della vita e persino della morte. Eppure la tentazione era tanta, e non riusciva a negarvisi.
Rifletté per qualche minuto, dopodiché una luce si accese sul suo volto. Guardò il demone dritto negli occhi e sorridendo rispose: “Accetto!”
La stretta di mano sancì il patto. Quello che seguì fu un vortice di eventi incredibili: il dottor Suaf diventò un giovane nel pieno delle forze, ricco e meravigliosamente attraente. Amò donne bellissime, ebbe fama e gloria senza eguali nella storia, vide i segreti più imperscrutabili del mondo svelarsi ai suoi occhi. Il tempo smise di dominarlo e ne divenne schiavo.
Quando dopo molti secoli la fame di felicità si esaurì e ogni desiderio era stato realizzato, il demonio arrivò a riscuotere la sua parte del patto. Suaf diventò così il Diavolo, lasciando all’altro la possibilità di trovare finalmente la pace.
Come prima azione da satana, Suaf tornò a una notte tempestosa a Down Hill.
Un fulmine crepitò a poca distanza, seguito subito dopo da un boato terrificante. Il fervore della pioggia, se possibile, sembrava essere aumentato. Suaf camminò via per qualche minuto, ma con l’incrementare della bufera si rifugiò correndo sotto un porticato sul lato della piazza deserta.
Ansimava, non solo per lo sforzo dovuto alla breve corsa ma per quello che stava per fare. Poco prima aveva deciso di agire in casa, ma la tempesta sembrava costringerlo a farlo subito e lì, nel cuore della cittadina cupa e in balia delle intemperie come il suo animo.
Estrasse la bottiglietta dalla tasca e la agitò con delicatezza davanti al volto, come se con gli occhi potesse penetrare nel liquido nero e scrutare qualcosa nel suo lento ondeggiare, magari qualcosa che potesse rafforzare oppure negare la sua decisione.
Stappò la bottiglietta. La avvicinò al naso e un odore acre e pungente gli graffiò le narici. Tremava. Nell’attimo in cui la portava alle labbra un’ombra spuntò alle sue spalle. Suaf la vide con la coda dell’occhio.
L’ombra mise la mano su quella tremante del dottore, e gli sussurrò all’orecchio:
“Lo faccia, dottore, lo faccia e non soffrirà più”.
Delicatamente, condusse la bottiglietta alla bocca di Suaf, che lo lasciò fare, bevve e chiuse gli occhi. L’ombra lo accompagnò con delicatezza mentre si accasciava senza vita sul marciapiede bagnato d’inverno. Poi sorrise compiaciuto per aver ingannato il Diavolo e scomparve nel nulla.