[N20 - 3] Andare, tornare
Posted: Sat Jan 16, 2021 11:13 am
Traccia: E un giorno... di Francesco Guccini. Boa: deve comparire la frase Diamo luce al nostro giornoi
La luce striata dell'alba penetra dal finestrino.
L'attrito del carrello al suolo è brusco. Il pilota comunica che la temperatura è di 30 gradi. Mi slaccio la cintura anche se l'aereo non si è ancora fermato. Anche gli altri passeggeri la aprono, uno dopo l'altro, in un'armoniosa sequenza di clic, senza attendere il segnale.
Una folata di aria calda mi investe quando scendo dalla scaletta. Poi sento l'odore. È l'odore della terra misto alla vegetazione. Lo stesso che a volte mi illudo di sentire in Italia e che cerco più di ogni altra cosa.
Al terminal, prima ancora di prendere i bagagli, vado in bagno per togliermi i vestiti invernali. Mi metto in maglietta e pantaloncini corti e infilo maglione e jeans nel borsone.
Dal taxi osservo il panorama desolato tra l'aeroporto e la stazione dei pullman. È un susseguirsi di strade sterrate e di edifici in costruzione, la maggioranza sembrano abbandonati ancor prima di essere finiti. Qualche cartellone stradale, scritte di case in vendita, pubblicità di università private, irrompe nel fluire delle strade. Il taxista mi guarda dallo specchietto retrovisore:
– ¿De dónde viene? – mi domanda.
– De Italia – rispondo. Dopo un istante mi sento in dovere aggiugere: – Pero soy de aquí.
L'autista annuisce, poi torna a concentrarsi sulla strada. Il crocifisso appeso sotto allo specchietto oscilla senza sosta. Nonostante il cemento, il manto stradale è un tappeto di buche.
Quando sono in Italia sono la straniera, la sudamericana. Qui mi chiamano l'italiana. Infatti non mi sento né di qui né di là, ma sia di qui che di là. In bilico tra i due paesi. Il mio aspetto lo rivela, lo so. I vestiti, il modo di parlare. Il luogo in cui cresci ti plasma, ma anche quello in cui stai. Per questo il taxista me l'ha chiesto.
Alla stazione dei pullman vengo travolta dal caos. Diverse flotas in partenza verso altrettante destinazioni. Dall'ultima volta che sono stata qui, la stazione si è ingrandita, le mete moltiplicate, San Ignacio, Tarija, Cochabamba, Sucre, La Paz, il Beni, perfino l'Argentina e il Brasile. Decine di passeggeri in attesa, famiglie cariche di bagagli all'inverosimile, bambini piccoli che strillano, cani randagi che aspettano a distanza di sicurezza per rubare qualche avanzo di cibo. La folla variopinta mi avvolge e mi ingloba.
La flota per San Ignacio attende vuota dal suo marciapiede. Un ragazzo giovane, avrà sedici anni al massimo, ne controlla il motore. Prima di salire sul pullman compro da una bambina dei sacchettini di refresco de tamarindo, una bibita molto zuccherata che viene messa in bustine di plastica per portarla in viaggio, e da un'altra diverse porzioni di buñuelos. Perché ho fame e sete, ma anche perché il paesaggio mi entra dentro pure attraverso i sapori.
Sono a casa, di nuovo, finalmente.
È di nuovo l'alba quando il pullman arriva al paese. Più ci si addentra verso la selva e più i colori si fanno vividi. Il sole è enorme, sembra quasi di poterlo toccare. Le nuvole rosate sono così basse che ti rendi conto di cosa significa cambiare latitudine, il cielo non dista allo stesso modo da ogni punto della Terra.
Come l'altra volta, quando sono tornata a casa per la prima volta dall'Europa, all'arrivo non ci sono i miei genitori ad attendermi. Per una consuetudine di cui non conosco l'origine, mandano sempre qualcun altro. Stavolta c'è mia sorella.
Andiamo verso casa a piedi, ognuna trascina una valigia. È una pessima idea il trolley. Le rotelle saltano contro le asperità del terreno e sollevano un sacco di polvere. Lo sapevo benissimo, ma li ho portati lo stesso. Un altro segno inconscio di estraneità al luogo da cui provengo.
Da fuori la casa appare vuota e silenziosa. Il primo a venire fuori è mio padre. È già vestito, porta pantaloni lunghi e camicia, l'unico in famiglia che non si è adattato all'abbigliamento che usano i più giovani: pantaloncini corti, canottiera e infradito di gomma. Mi sorride ma non si avvicina. Sono io che lo abbraccio. È un contatto veloce, quasi formale. Poi ci baciamo sulle guance. Sembra impacciato e forse lo sono anch'io. Mi chiede com'è andato il viaggio, se l'aereo è arrivato puntuale, cose del genere. Dopo compare mia madre e lui si dilegua nelle altre stanze. Mi abbraccia e comincia a parlare dei suoi figli, dei nipoti, del caldo, dell'acqua che al pomeriggio non esce dai rubinetti. Sembra che per lei non sono mai andata via, mi parla come se non mi vedesse dal giorno prima. Invece sono passati quattro anni.
Ci sediamo in sala da pranzo per bere il caffè. Alla spicciolata arrivano parenti e vicini a salutare. Mia madre e io aggiungiamo sedie attorno al tavolo. Come per un tacito accordo i miei fratelli e le mie sorelle maggiori con le rispettive famiglie vengono a turno, tutti insieme saremmo troppi. Mio padre latita, troppo caffè gli fa bruciare lo stomaco, dice.
La mamma è seduta sul suo sillón. Lo stesso su cui l'ho vista passare le interminabili serate davanti a casa, a chiacchierare con i parenti o i vicini. Lo stesso su cui ricamava al pomeriggio mentre noi facevamo i compiti e la empleada lavava le stoviglie o i panni. Ora non ricama quasi più, non ci vede da vicino e non vuole mettere gli occhiali. Ne ha comprati tre paia e li ha persi o rotti tutti. Ci sono diverse tovaglie e centrini non finiti sparsi per casa, i contorni sfumati a sottolineare la presbiopia.
– Poi li finisco – dice – così te ne scegli qualcuno da portarti in Italia.
Non rispondo. Non capisco come faccia a sapere che non voglio restare, non ho detto niente a nessuno. Al telefono sono rimasta sul vago apposta.
– Quando parti? – insiste.
– Il biglietto ha il ritorno aperto. Basta partire entro tre mesi.
Conviene fare sempre andata e ritorno, costa meno ed è più pratico, al massimo non si torna e si lascia un posto vuoto in aereo.
Adesso è lei che non risponde. Ha i capelli legati in uno chignon come quando era giovane, numerosi fili bianchi screziano la chioma. Il corpo è abbandonato sullo schienale in una posa rilassata che non le ho mai visto. Una donna con tanti figli è raro che stia con le mani in mano. Lo sguardo è malinconico, sembra perso in un ricordo che non focalizza.
Siamo sedute una accanto all'altra, in una rara bolla di solitudine del dopo pranzo.
– L'hai detto a tuo padre?
– Che cosa?
– Che non vuoi restare?
– Non l'ho detto a nessuno, veramente.
Neanche a te, vorrei aggiungere.
– C'è tempo per pensarci, – dico invece – non devo decidere adesso. Posso tornare come no.
È una mezza bugia, se volessi restare non avrei lasciato quasi tutto in Italia. Devo solo decidere quando partire.
La mamma sospira.
– Sei arrivata stamattina. C'è tempo per parlarne – conclude.
Già, andare in Europa, studiare, cercare un lavoro, magari sposarsi e mettere su famiglia. I tuoi stessi figli ti saranno stranieri, avranno altri colori, parleranno un'altra lingua. Andare è facile, tornare meno. Non pensavo però che staccarsi da me fosse difficile per i miei genitori. Ho tanti fratelli che si sono sposati e se ne sono andati. È nella natura delle cose: i figli crescono e se ne vanno. Le case si svuotano.
La mamma fa per alzarsi. Chissà quando avremo di nuovo occasione di parlare da sole.
– Mamma! – le tocco il braccio per fermarla – Dove sono finite le mie cose?
– Quali cose?
– Nella mia stanza. I miei libri, i miei quaderni, le bambole. Sono rimasti solo i poster sul muro.
– Non lo so, hija. In quattro anni qualcuno li avrà presi o spostati.
La mamma fa un ultimo sospiro. Poi si alza.
Sul letto di quella che era la mia stanza trovo una valigia. La apro, è una valigia di pelle marrone, piuttosto vecchia. Ai lati ha delle stanghette di metallo che la tengono aperta e mi metto a guardare il contenuto. Riconosco subito le mie cose: i libri di scuola, le foto di classe, i quaderni. C'è anche una scatola di latta, di quelle per i biscotti. Dentro ci sono oggetti più piccoli: cartoline, matite colorate, una minuscola trousse di ombretti. La prima volta che mi sono truccata. Il ricordo salta fuori intatto dal nulla in cui era relegato, risvegliato dall'oggetto. Nel fondo della scatola c'è qualcosa di lungo e scuro avvolto con più giri in una pellicola di cellophane trasparente. Lo srotolo e tiro fuori una treccia di capelli lunga e nera. Due elastici ne fermano le estremità. Da un lato la punta di capelli ha la forma di un morbido pennello, mentre l'altro lato, mozzato da un colpo di forbice, è spesso e ispido. Mi pare di aver visto quella treccia nel cassetto della credenza, ma non pensavo che l'avessero conservata. La prendo tra le mani come se fosse una reliquia.
Quando alzo lo sguardo vedo i miei genitori fermi dalla porta della stanza. Sorridono esitanti, senza osare entrare.
– Te la ricordi quella? – chiede la mamma.
– Come potrei dimenticarla? – rispondo, anche se fino al momento in cui era avvolta nella plastica non la ricordavo affatto.
Rivedo la mamma con le forbici in mano mentre papà diceva che era un peccato, erano così lunghi e belli. Sono stata io a volerli tagliare.
Rivedo anche la mamma che tutte le mattine mi pettinava e mi faceva una treccia prima di andare a scuola. Io seduta su una sedia e lei in piedi dietro le mie spalle. Piangevo tutti i giorni a causa di quella treccia perché la mamma era sempre di fretta con tutti noi figli e mi tirava i capelli senza tante cerimonie per pettinarmi.
Quella treccia mozzata era il mio addio all'infanzia.
- Ma allora hai tenuto tutto! - dico a mia madre.
- È stato tuo padre a raccogliere tutte le tue cose e a metterle in quella valigia.
- Papà? - domando sia a lui che a me stessa.
La casa è ancora avvolta nel silenzio. Una luce timida si insinua dalle imposte. È la terza alba di fila che sono sveglia. Non mi sono ancora abituata al fuso orario. Ne approfitto e mi alzo, in Europa l'alba non la guardo mai. Rimane soffocata dal poco cielo che si intravede tra i palazzi. Dimenticata dai ritmi di lavoro. Vado sotto il porticato davanti a casa. A quest'ora è fresco e piacevole. Non sono l'unica a essermi alzata: c'è anche mio padre seduto fuori. È già vestito con pantaloni lunghi e camicia, come quando sono arrivata, in mano ha una tazza fumante.
- Già sveglia? - domanda.
- Eh, già. Ora vado a farmi un caffè.
Invece mi siedo accanto a lui.
- Com'è l'alba in Europa?
- Bella. Come qui, credo.
- Come, credi? Non la guardi mai là?
- No, non ho tempo e poi non si vede bene da casa mia.
Papà fa una risatina e beve un sorso di caffè.
- Diamo luce al nostro giorno.
Ora sono io a ridacchiare: - Che vuol dire?
- L'alba c'è lo stesso, tutti i giorni, anche se non la vediamo. Il tempo passa comunque. Solo che ogni tanto è bene fermarsi a guardarla. Per ricordarselo.
Mi pare di intuire quello che vuole dire. Sono cresciuta e me ne sono andata. E lui è contento, non insisterà a farmi restare. Perché è giusto così. Anche se ogni giorno ci allontaniamo sempre più.
- Ho messo tutte le tue cose in quella valigia. Così te le puoi portare in Italia.
Penso all'emozione che ho provato quando l'ho aperta. Ogni oggetto è uno scrigno di ricordi. Se ce li avessi sotto mano sempre non sembrerebbe un tesoro.
- Se dovessi partire, è meglio che la tieni tu. Così non si perde niente e quando vengo a trovarti la ritrovo.
Fossi ancora piccola, a questo punto, mi sarei seduta in braccio a lui. Mi alzo e mi limito a poggiargli una mano sulla spalla.
- Faccio il caffè. Ne vuoi anche tu?
Papà esita un momento. Il bruciore di stomaco, forse.
- Sì, hija. Un pochino lo prendo.
La luce striata dell'alba penetra dal finestrino.
L'attrito del carrello al suolo è brusco. Il pilota comunica che la temperatura è di 30 gradi. Mi slaccio la cintura anche se l'aereo non si è ancora fermato. Anche gli altri passeggeri la aprono, uno dopo l'altro, in un'armoniosa sequenza di clic, senza attendere il segnale.
Una folata di aria calda mi investe quando scendo dalla scaletta. Poi sento l'odore. È l'odore della terra misto alla vegetazione. Lo stesso che a volte mi illudo di sentire in Italia e che cerco più di ogni altra cosa.
Al terminal, prima ancora di prendere i bagagli, vado in bagno per togliermi i vestiti invernali. Mi metto in maglietta e pantaloncini corti e infilo maglione e jeans nel borsone.
Dal taxi osservo il panorama desolato tra l'aeroporto e la stazione dei pullman. È un susseguirsi di strade sterrate e di edifici in costruzione, la maggioranza sembrano abbandonati ancor prima di essere finiti. Qualche cartellone stradale, scritte di case in vendita, pubblicità di università private, irrompe nel fluire delle strade. Il taxista mi guarda dallo specchietto retrovisore:
– ¿De dónde viene? – mi domanda.
– De Italia – rispondo. Dopo un istante mi sento in dovere aggiugere: – Pero soy de aquí.
L'autista annuisce, poi torna a concentrarsi sulla strada. Il crocifisso appeso sotto allo specchietto oscilla senza sosta. Nonostante il cemento, il manto stradale è un tappeto di buche.
Quando sono in Italia sono la straniera, la sudamericana. Qui mi chiamano l'italiana. Infatti non mi sento né di qui né di là, ma sia di qui che di là. In bilico tra i due paesi. Il mio aspetto lo rivela, lo so. I vestiti, il modo di parlare. Il luogo in cui cresci ti plasma, ma anche quello in cui stai. Per questo il taxista me l'ha chiesto.
Alla stazione dei pullman vengo travolta dal caos. Diverse flotas in partenza verso altrettante destinazioni. Dall'ultima volta che sono stata qui, la stazione si è ingrandita, le mete moltiplicate, San Ignacio, Tarija, Cochabamba, Sucre, La Paz, il Beni, perfino l'Argentina e il Brasile. Decine di passeggeri in attesa, famiglie cariche di bagagli all'inverosimile, bambini piccoli che strillano, cani randagi che aspettano a distanza di sicurezza per rubare qualche avanzo di cibo. La folla variopinta mi avvolge e mi ingloba.
La flota per San Ignacio attende vuota dal suo marciapiede. Un ragazzo giovane, avrà sedici anni al massimo, ne controlla il motore. Prima di salire sul pullman compro da una bambina dei sacchettini di refresco de tamarindo, una bibita molto zuccherata che viene messa in bustine di plastica per portarla in viaggio, e da un'altra diverse porzioni di buñuelos. Perché ho fame e sete, ma anche perché il paesaggio mi entra dentro pure attraverso i sapori.
Sono a casa, di nuovo, finalmente.
È di nuovo l'alba quando il pullman arriva al paese. Più ci si addentra verso la selva e più i colori si fanno vividi. Il sole è enorme, sembra quasi di poterlo toccare. Le nuvole rosate sono così basse che ti rendi conto di cosa significa cambiare latitudine, il cielo non dista allo stesso modo da ogni punto della Terra.
Come l'altra volta, quando sono tornata a casa per la prima volta dall'Europa, all'arrivo non ci sono i miei genitori ad attendermi. Per una consuetudine di cui non conosco l'origine, mandano sempre qualcun altro. Stavolta c'è mia sorella.
Andiamo verso casa a piedi, ognuna trascina una valigia. È una pessima idea il trolley. Le rotelle saltano contro le asperità del terreno e sollevano un sacco di polvere. Lo sapevo benissimo, ma li ho portati lo stesso. Un altro segno inconscio di estraneità al luogo da cui provengo.
Da fuori la casa appare vuota e silenziosa. Il primo a venire fuori è mio padre. È già vestito, porta pantaloni lunghi e camicia, l'unico in famiglia che non si è adattato all'abbigliamento che usano i più giovani: pantaloncini corti, canottiera e infradito di gomma. Mi sorride ma non si avvicina. Sono io che lo abbraccio. È un contatto veloce, quasi formale. Poi ci baciamo sulle guance. Sembra impacciato e forse lo sono anch'io. Mi chiede com'è andato il viaggio, se l'aereo è arrivato puntuale, cose del genere. Dopo compare mia madre e lui si dilegua nelle altre stanze. Mi abbraccia e comincia a parlare dei suoi figli, dei nipoti, del caldo, dell'acqua che al pomeriggio non esce dai rubinetti. Sembra che per lei non sono mai andata via, mi parla come se non mi vedesse dal giorno prima. Invece sono passati quattro anni.
Ci sediamo in sala da pranzo per bere il caffè. Alla spicciolata arrivano parenti e vicini a salutare. Mia madre e io aggiungiamo sedie attorno al tavolo. Come per un tacito accordo i miei fratelli e le mie sorelle maggiori con le rispettive famiglie vengono a turno, tutti insieme saremmo troppi. Mio padre latita, troppo caffè gli fa bruciare lo stomaco, dice.
La mamma è seduta sul suo sillón. Lo stesso su cui l'ho vista passare le interminabili serate davanti a casa, a chiacchierare con i parenti o i vicini. Lo stesso su cui ricamava al pomeriggio mentre noi facevamo i compiti e la empleada lavava le stoviglie o i panni. Ora non ricama quasi più, non ci vede da vicino e non vuole mettere gli occhiali. Ne ha comprati tre paia e li ha persi o rotti tutti. Ci sono diverse tovaglie e centrini non finiti sparsi per casa, i contorni sfumati a sottolineare la presbiopia.
– Poi li finisco – dice – così te ne scegli qualcuno da portarti in Italia.
Non rispondo. Non capisco come faccia a sapere che non voglio restare, non ho detto niente a nessuno. Al telefono sono rimasta sul vago apposta.
– Quando parti? – insiste.
– Il biglietto ha il ritorno aperto. Basta partire entro tre mesi.
Conviene fare sempre andata e ritorno, costa meno ed è più pratico, al massimo non si torna e si lascia un posto vuoto in aereo.
Adesso è lei che non risponde. Ha i capelli legati in uno chignon come quando era giovane, numerosi fili bianchi screziano la chioma. Il corpo è abbandonato sullo schienale in una posa rilassata che non le ho mai visto. Una donna con tanti figli è raro che stia con le mani in mano. Lo sguardo è malinconico, sembra perso in un ricordo che non focalizza.
Siamo sedute una accanto all'altra, in una rara bolla di solitudine del dopo pranzo.
– L'hai detto a tuo padre?
– Che cosa?
– Che non vuoi restare?
– Non l'ho detto a nessuno, veramente.
Neanche a te, vorrei aggiungere.
– C'è tempo per pensarci, – dico invece – non devo decidere adesso. Posso tornare come no.
È una mezza bugia, se volessi restare non avrei lasciato quasi tutto in Italia. Devo solo decidere quando partire.
La mamma sospira.
– Sei arrivata stamattina. C'è tempo per parlarne – conclude.
Già, andare in Europa, studiare, cercare un lavoro, magari sposarsi e mettere su famiglia. I tuoi stessi figli ti saranno stranieri, avranno altri colori, parleranno un'altra lingua. Andare è facile, tornare meno. Non pensavo però che staccarsi da me fosse difficile per i miei genitori. Ho tanti fratelli che si sono sposati e se ne sono andati. È nella natura delle cose: i figli crescono e se ne vanno. Le case si svuotano.
La mamma fa per alzarsi. Chissà quando avremo di nuovo occasione di parlare da sole.
– Mamma! – le tocco il braccio per fermarla – Dove sono finite le mie cose?
– Quali cose?
– Nella mia stanza. I miei libri, i miei quaderni, le bambole. Sono rimasti solo i poster sul muro.
– Non lo so, hija. In quattro anni qualcuno li avrà presi o spostati.
La mamma fa un ultimo sospiro. Poi si alza.
Sul letto di quella che era la mia stanza trovo una valigia. La apro, è una valigia di pelle marrone, piuttosto vecchia. Ai lati ha delle stanghette di metallo che la tengono aperta e mi metto a guardare il contenuto. Riconosco subito le mie cose: i libri di scuola, le foto di classe, i quaderni. C'è anche una scatola di latta, di quelle per i biscotti. Dentro ci sono oggetti più piccoli: cartoline, matite colorate, una minuscola trousse di ombretti. La prima volta che mi sono truccata. Il ricordo salta fuori intatto dal nulla in cui era relegato, risvegliato dall'oggetto. Nel fondo della scatola c'è qualcosa di lungo e scuro avvolto con più giri in una pellicola di cellophane trasparente. Lo srotolo e tiro fuori una treccia di capelli lunga e nera. Due elastici ne fermano le estremità. Da un lato la punta di capelli ha la forma di un morbido pennello, mentre l'altro lato, mozzato da un colpo di forbice, è spesso e ispido. Mi pare di aver visto quella treccia nel cassetto della credenza, ma non pensavo che l'avessero conservata. La prendo tra le mani come se fosse una reliquia.
Quando alzo lo sguardo vedo i miei genitori fermi dalla porta della stanza. Sorridono esitanti, senza osare entrare.
– Te la ricordi quella? – chiede la mamma.
– Come potrei dimenticarla? – rispondo, anche se fino al momento in cui era avvolta nella plastica non la ricordavo affatto.
Rivedo la mamma con le forbici in mano mentre papà diceva che era un peccato, erano così lunghi e belli. Sono stata io a volerli tagliare.
Rivedo anche la mamma che tutte le mattine mi pettinava e mi faceva una treccia prima di andare a scuola. Io seduta su una sedia e lei in piedi dietro le mie spalle. Piangevo tutti i giorni a causa di quella treccia perché la mamma era sempre di fretta con tutti noi figli e mi tirava i capelli senza tante cerimonie per pettinarmi.
Quella treccia mozzata era il mio addio all'infanzia.
- Ma allora hai tenuto tutto! - dico a mia madre.
- È stato tuo padre a raccogliere tutte le tue cose e a metterle in quella valigia.
- Papà? - domando sia a lui che a me stessa.
La casa è ancora avvolta nel silenzio. Una luce timida si insinua dalle imposte. È la terza alba di fila che sono sveglia. Non mi sono ancora abituata al fuso orario. Ne approfitto e mi alzo, in Europa l'alba non la guardo mai. Rimane soffocata dal poco cielo che si intravede tra i palazzi. Dimenticata dai ritmi di lavoro. Vado sotto il porticato davanti a casa. A quest'ora è fresco e piacevole. Non sono l'unica a essermi alzata: c'è anche mio padre seduto fuori. È già vestito con pantaloni lunghi e camicia, come quando sono arrivata, in mano ha una tazza fumante.
- Già sveglia? - domanda.
- Eh, già. Ora vado a farmi un caffè.
Invece mi siedo accanto a lui.
- Com'è l'alba in Europa?
- Bella. Come qui, credo.
- Come, credi? Non la guardi mai là?
- No, non ho tempo e poi non si vede bene da casa mia.
Papà fa una risatina e beve un sorso di caffè.
- Diamo luce al nostro giorno.
Ora sono io a ridacchiare: - Che vuol dire?
- L'alba c'è lo stesso, tutti i giorni, anche se non la vediamo. Il tempo passa comunque. Solo che ogni tanto è bene fermarsi a guardarla. Per ricordarselo.
Mi pare di intuire quello che vuole dire. Sono cresciuta e me ne sono andata. E lui è contento, non insisterà a farmi restare. Perché è giusto così. Anche se ogni giorno ci allontaniamo sempre più.
- Ho messo tutte le tue cose in quella valigia. Così te le puoi portare in Italia.
Penso all'emozione che ho provato quando l'ho aperta. Ogni oggetto è uno scrigno di ricordi. Se ce li avessi sotto mano sempre non sembrerebbe un tesoro.
- Se dovessi partire, è meglio che la tieni tu. Così non si perde niente e quando vengo a trovarti la ritrovo.
Fossi ancora piccola, a questo punto, mi sarei seduta in braccio a lui. Mi alzo e mi limito a poggiargli una mano sulla spalla.
- Faccio il caffè. Ne vuoi anche tu?
Papà esita un momento. Il bruciore di stomaco, forse.
- Sì, hija. Un pochino lo prendo.