Donna, vita e libertà

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Azar correva a perdifiato, rallentava solo per picchiare su alcune porte lungo la strada gridando: «Bânu, Azita, Faris, Feriel…» Dalle case di argilla rossa, ad una ad una, le ragazze chiamate a gran voce si andavano affacciando: «Che succede Azar?»
«Azar fermati, dove corri?»
«Venite, venite – rispondeva Azar madida di sudore e con la voce prossima al pianto, correva e picchiava su altre porte nominando altre ragazze – presto correte.»
Madri e figlie si erano precipitate fuori dagli usci, sistemandosi in fretta e furia il hijab in testa.
«È morta, è morta!» gridava Azar.
«Ma chi? Azar fermati, non capiamo.»
Lo stuolo di donne, vicolo dopo vicolo, si era gonfiato e, solo giunta davanti alla scuola, Azar finalmente si era fermata. Con i palmi delle mani sulle ginocchia cercava di riprendere fiato.
«Zina è morta?» riuscì a dire, ancora con il respiro affannato.
Alcune ragazze si portarono le mani sul viso e incredule sussurrarono: «Zina?»

Zina, il cui vero nome era Mahsa Amini, l’anno prima aveva trascorso l’estate lì’, presso alcuni parenti. Le ragazze del villaggio avevano stretto con lei un’amicizia solidale e sincera.
Era bella Zina, piena di vita, veniva dalla città di Saqquez. Nelle lunghe chiacchierate sotto la luna persiana aveva raccontato delle sue escursioni a Teheran, di quanto amasse fare acquisti nella capitale. Alle ragazze aveva descritto il Palazzo del Golestan, il Gran Bazar…; l’avevano ascoltata con gli occhi sgranati immaginando scenari sconosciuti.
Una di quelle sere, a Zina si era illuminato lo sguardo nel raccontare la possenza della Torre Azadi “il marmo bianco di cui è ricoperta, – diceva – diffonde un lucore che spalanca il cuore a chi la guarda; il nome Azadi (libertà) è davvero ciò che ispira.  – poi aveva continuato – Oh, vedeste che città moderna, ci sono palazzi che toccano il cielo, – e con enfasi aveva aggiunto – la Torre Milad è alta più di quattrocento metri!” – A quel punto aveva alzato le braccia e inspirato fino a tendere tutto il corpo verso l’infinito. Ma subito dopo, lasciate ricadere le spalle, si era toccata il hijab e aveva aggiunto – “una città che ha già agguantato il futuro e noi qui ancora con questo velo in testa”. Gli occhi le si erano velati di tristezza, ricordava i racconti di sua nonna, vissuta in un tempo in cui alle donne erano state concesse nuove libertà, e ricordava i racconti di sua madre quando quel tempo era finito con l’avvento degli Ayatollah. “Azadi, Azadi…” sussurrava Zina con lo sguardo perso oltre il presente.
Non era la sola a pensarla così, anche le ragazze di Abyaneh, per quanto lontane dalla grande metropoli, avevano ascoltato gli stessi racconti. Le nonne avevano narrato del tempo in cui l’ultimo Scià le aveva “svelate”; e perfino le pronipoti ne custodivano ancora il ricordo come di una favola antica.

Abyaneh è un piccolo villaggio a più di 300 chilometri da Teheran, e da quando si è sparsa la notizia della morte di Zina c’è un grande fermento. Rabbia e dolore sono penetrati nelle stanze – dove non si parla d’altro – e nei cuori – dove il sentimento non è più sottomesso al silenzio.
Azar è la prima ad affacciarsi al balcone, si strappa il hijab dalla testa e con un paio di forbici in mano si sta già tagliando i capelli.
Hemat, il giovane barbuto che sta studiando per diventare dottore, sta passando da lì per caso, ha più notizie di lei; per lo studio accede alle pagine Internet, e sa cosa sta succedendo a Teheran. Il disprezzo per coloro che hanno causato quella morte assurda gli monta nel petto ogni giorno di più. Prende la sua decisione con gli occhi rivolti ad Azar, mentre i capelli della giovane donna cadono giù e gli sfiorano il viso.
Il tempo non è qualcosa di immobile, e per quanto possa sembrare lento, è tenace e sempre in evoluzione; esso si infiltra al pari dell’acqua, corrode le vecchie idee, esige il cambiamento.

Adesso Bânu, Azita, Faris, Feriel, Azar e molte altre si sono sistemate sopra tre furgoni a noleggio.
Di tutto si sono occupati Hemat e Gorgin che assieme ad altri ragazzi hanno capito: per costruire un mondo migliore occorre sostenersi a vicenda.
Gli slogan sovrastano il rumore dei furgoni che partono alla volta di un futuro cui non possono più rinunciare.
I vecchi con le braccia alzate supplicano Allah e inveiscono contro i propri figli: «Fermatevi, razza di incoscienti, cosa volete fare? Sovvertire le regole del mondo? Volete sfidare il governo, Ebrahim Raisi? Il nostro presidente, non vi perdonerà.»
«La polizia morale ha fatto il suo lavoro» gridano altri anziani, tenendo ben nascoste, però, le lacrime dentro al petto.
Sì, anche i vecchi, che pure vorrebbero ancora le loro donne immutabili, con il hijab ben sistemato sul capo, hanno compreso che qualcosa di inarrestabile è già cominciato.

Il grido è compatto: donna, vita e libertà. E i furgoni si mettono in marcia verso Teheran lasciando dietro di loro la polvere antica di strade sterrate.
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