Il rito dell'orizzonte
Inviato: ven gen 08, 2021 5:18 pm
«Per noi il mare significa due cose: la prima cosa è andare e tornare; la seconda è andare e non tornare.»
Salvatore sentiva quella frase uscire dalle labbra della madre. Donna Maria lo ripeteva mentre, seduta sulla spiaggia, osservava i nuvoloni grigi precipitarsi all’orizzonte, una linea alla fine del mare a nord, e inabissarsi nel nulla. Poi raccoglieva un pugno di rena gialla, la faceva scorrere tra le dita e ricordava che alla sua famiglia era toccata in sorte la seconda cosa.
«Come questa sabbia, che scende ma non ritorna mai nella mano.»
Era ormai un rito per lei: ogni pomeriggio lo eseguiva con precisione, da quando aveva smesso di rifare anche l’altra metà del letto.
«Spero che un giorno da quell’orizzonte venga tuo padre Fortunato» diceva a Salvatore.
La brezza marina faceva tremolare l’orlo del fazzoletto, nero di lutto, che indossava stretto sui capelli. Un ciuffetto scuro e riccio però riusciva a sbucare.
Il paesino declinava dal Massiccio di Santa Lucia verso il mare, dove il porticciolo riparava le barchette di legno dei pescatori. Alle prime luci dell’alba, esse facevano ritorno dalla pesca notturna. Attraccavano alla banchina con le reti cariche di pinne saltellanti e i pescatori vendevano il frutto delle loro fatiche ai signori piombati apposta dalle città vicine. D’improvviso un pesce sgusciò via. Sottile, e tutto verde verde, si dibatteva sulle balate di pietra. Una mano affusolata lo trattenne. Era di Donna Maria. Tutti nel porticciolo la conoscevano bene. L’incubo di non tornare assaliva i pescatori da secoli.
«Come sta, Donna Maria?»
«Come sta una che non ha nemmeno un corpo su cui piangere.»
Il cimitero del paese era un balcone che si affacciava sul mare. I defunti, se solo non erano sotto terra, ne avrebbero ammirato le acque talvolta blu e calme, talaltra brune e limacciose, quando pioveva e il fiume vicino gonfiava i flutti di fanghiglia. Una stradina collegava il camposanto con la spiaggia. Donna Maria, con Salvatore al fianco, la imboccava ogni pomeriggio, di ritorno dal rito dell’orizzonte. Cammina e cammina, un bivio a Y compariva dietro a una curva: la viuzza in discesa che si dipartiva sulla destra guidava i viandanti al paesino. Salvatore la prendeva lasciando sola la madre, che proseguiva per il cimitero sull’altra stradina. La salita era sempre più ripida e Donna Maria si inerpicava tra i sassolini a testa bassa. Poi si fermava, sollevava il mento al cielo. Dolorante, con un braccio dietro la schiena. In alto sul versante del Massiccio di fronte, i boschi radi ombreggiavano la scritta “DUX”.
Non appena mosse i primi passi sul piazzale antistante il cimitero, l’andirivieni della gente con i fiori tra le mani la sommerse. Una donna la guardò da capo a piedi, toccandosi la gonna nera che le spolverava le caviglie.
Oltrepassato il cancello del cimitero, Donna Maria si strinse la gola e si fermò. Respirava con affanno, con minuscoli fiati che andavano su e giù per i polmoni. Da lontano un grammofono diffondeva le note di “Balocchi e profumi” tra i sepolcri, nell’aria lugubre. Allora corse verso il luogo dove stavano le tombe dei marinai e si sedette. Ce n’era una diversa dalle altre: una fossa vuota e una croce latina nera piantata accanto, sul braccio della quale un’incisione in oro diceva: “Fortunato Provenza (nato 1888 – morto ?)”. Donna Maria andò all’uscita a passi rapidi e sul cancello trovò Salvatore.
«Che ci fai qui da solo? Non eri andato al paese?» gli chiese.
«Sì, ma ora andiamo alla spiaggia.»
Vi andarono. Maria si era giusto accoccolata sulla sabbia, quand’ecco che le nubi si diradarono in fretta.
«Il sole balla, pulsa, diventa grande e poi si rimpicciolisce» disse.
E, mentre lo diceva, una barchetta bianca fendeva il mare davanti a loro. Salvatore la seguiva in piedi con la mano tesa sulla fronte.
«È arrivata!»
Maria si alzò e balzò su, sola. Il legno riprese il largo sul mare placido, celestissimo. Minute le onde s’inseguivano sulla superficie, dove tre delfini vicino nuotavano e saltavano. La costa era ormai lontana, quando d’un tratto il vento cessò e, in mezzo al mare, il profilo di un isolotto si disegnò nitido. La prua si diresse da quella parte. A mano a mano che avanzava, un puntino prendeva la forma d’un uomo vestito di bianco, con una coppola dello stesso colore e le braccia aperte, sulla riva sabbiosa e così chiara che riluceva al sole inglobando le scarpe dell’uomo. La barca giunse alla meta, un’angusta lingua di terra in mezzo al mare, e Donna Maria scese bagnandosi l’orlo inferiore della gonna lunga, per quanto la tenesse un po’ sollevata.
«Ben venuta, Maria!»
Lei gli si gettò addosso, abbracciandolo con vigore.
«Fortunato, Fortunato del mio cuore, sei il mio angelo.»
Lo stringeva sempre più forte e gli versava lacrime pesanti sulle spalle. Lui le accarezzava il velo.
«È nero per te, amore mio» disse lei.
Una cascata di lacrime precipitava sempre più copiosa.
«Non dovevi, io sono ancora vivo.»
«Sento il tuo cuore battere. Tornerai a casa?»
«Mi ha ingoiato un’acciuga verde mentre pescavo.»
L’uomo si ritrasse di mezzo passo, prese le guance madide di Donna Maria tra le mani e poi le scostò delicatamente il velo.
«Non devi piangere per me» disse, asciugandole tante lacrime con i pollici. E le indicò una fossa, accanto a cui una piccola croce nera era infissa nella sabbia e un’incisione d’oro sopra diceva: “Fortunato Provenza (nato 1888 – morto ?)”.
Poi aggiunse: «Quella è la mia tomba. Guarda dentro».
Lei si sporse. Sul fondo della fossa, un’acciuga verde dormiva.
Lui, spiccato un breve salto, si distese accosto al pesce.
«Adesso seppelliscimi e va’ al cimitero.»
Donna Maria mise mano a un mucchio di sabbia candida e lo gettò sull’uomo disteso e sull’acciuga fino a coprirli del tutto, dopo di che si accomodò sulla barchetta che l’aveva portata là. Partì. Durante il viaggio, più volte Donna Maria si era voltata indietro a scrutare il mare, ma l’isoletta di Fortunato non c’era più.
Una volta giunta sulla costa, gridò: «Dove sei, Salvatore?».
Nessuno rispose. Un alito di tramontana, gelidissimo, spirava e le invadeva i capelli sotto al fazzoletto. Il mugghiare delle onde si faceva più rumoroso. Il cielo si ricoprì di nuvoloni funerei e cominciò a piovigginare. Donna Maria quindi si acconciò bene il velo e riprese le strada del camposanto sotto una pioggia lieve.
Arrivata che fu sul piazzale, la melodia di “Balocchi e profumi” soffiava nel vento. Quattro donne le si pararono innanzi con le vesti umide. «Abbiamo trovato questa croce nera col nome di vostro marito Fortunato tra le tombe dei pescatori.» Posero la croce a terra e si dileguarono. Donna Maria la sollevò e lesse l’incisione dorata. Poi la lasciò ricadere e corse verso il cimitero. Entrò e si strinse la gola.
L’indomani mattina al porto i pescatori dicevano: «Abbiamo pescato un’acciuga verde». «Un’acciuga verde» urlavano altri. «Piccola e verde, tra le reti». Donna Maria sospirò.
«Fortunato è ancora con me» ripeteva a sé stessa, serrando sotto il mento il fazzoletto colore del lutto. E sorrideva.
Salvatore sentiva quella frase uscire dalle labbra della madre. Donna Maria lo ripeteva mentre, seduta sulla spiaggia, osservava i nuvoloni grigi precipitarsi all’orizzonte, una linea alla fine del mare a nord, e inabissarsi nel nulla. Poi raccoglieva un pugno di rena gialla, la faceva scorrere tra le dita e ricordava che alla sua famiglia era toccata in sorte la seconda cosa.
«Come questa sabbia, che scende ma non ritorna mai nella mano.»
Era ormai un rito per lei: ogni pomeriggio lo eseguiva con precisione, da quando aveva smesso di rifare anche l’altra metà del letto.
«Spero che un giorno da quell’orizzonte venga tuo padre Fortunato» diceva a Salvatore.
La brezza marina faceva tremolare l’orlo del fazzoletto, nero di lutto, che indossava stretto sui capelli. Un ciuffetto scuro e riccio però riusciva a sbucare.
Il paesino declinava dal Massiccio di Santa Lucia verso il mare, dove il porticciolo riparava le barchette di legno dei pescatori. Alle prime luci dell’alba, esse facevano ritorno dalla pesca notturna. Attraccavano alla banchina con le reti cariche di pinne saltellanti e i pescatori vendevano il frutto delle loro fatiche ai signori piombati apposta dalle città vicine. D’improvviso un pesce sgusciò via. Sottile, e tutto verde verde, si dibatteva sulle balate di pietra. Una mano affusolata lo trattenne. Era di Donna Maria. Tutti nel porticciolo la conoscevano bene. L’incubo di non tornare assaliva i pescatori da secoli.
«Come sta, Donna Maria?»
«Come sta una che non ha nemmeno un corpo su cui piangere.»
Il cimitero del paese era un balcone che si affacciava sul mare. I defunti, se solo non erano sotto terra, ne avrebbero ammirato le acque talvolta blu e calme, talaltra brune e limacciose, quando pioveva e il fiume vicino gonfiava i flutti di fanghiglia. Una stradina collegava il camposanto con la spiaggia. Donna Maria, con Salvatore al fianco, la imboccava ogni pomeriggio, di ritorno dal rito dell’orizzonte. Cammina e cammina, un bivio a Y compariva dietro a una curva: la viuzza in discesa che si dipartiva sulla destra guidava i viandanti al paesino. Salvatore la prendeva lasciando sola la madre, che proseguiva per il cimitero sull’altra stradina. La salita era sempre più ripida e Donna Maria si inerpicava tra i sassolini a testa bassa. Poi si fermava, sollevava il mento al cielo. Dolorante, con un braccio dietro la schiena. In alto sul versante del Massiccio di fronte, i boschi radi ombreggiavano la scritta “DUX”.
Non appena mosse i primi passi sul piazzale antistante il cimitero, l’andirivieni della gente con i fiori tra le mani la sommerse. Una donna la guardò da capo a piedi, toccandosi la gonna nera che le spolverava le caviglie.
Oltrepassato il cancello del cimitero, Donna Maria si strinse la gola e si fermò. Respirava con affanno, con minuscoli fiati che andavano su e giù per i polmoni. Da lontano un grammofono diffondeva le note di “Balocchi e profumi” tra i sepolcri, nell’aria lugubre. Allora corse verso il luogo dove stavano le tombe dei marinai e si sedette. Ce n’era una diversa dalle altre: una fossa vuota e una croce latina nera piantata accanto, sul braccio della quale un’incisione in oro diceva: “Fortunato Provenza (nato 1888 – morto ?)”. Donna Maria andò all’uscita a passi rapidi e sul cancello trovò Salvatore.
«Che ci fai qui da solo? Non eri andato al paese?» gli chiese.
«Sì, ma ora andiamo alla spiaggia.»
Vi andarono. Maria si era giusto accoccolata sulla sabbia, quand’ecco che le nubi si diradarono in fretta.
«Il sole balla, pulsa, diventa grande e poi si rimpicciolisce» disse.
E, mentre lo diceva, una barchetta bianca fendeva il mare davanti a loro. Salvatore la seguiva in piedi con la mano tesa sulla fronte.
«È arrivata!»
Maria si alzò e balzò su, sola. Il legno riprese il largo sul mare placido, celestissimo. Minute le onde s’inseguivano sulla superficie, dove tre delfini vicino nuotavano e saltavano. La costa era ormai lontana, quando d’un tratto il vento cessò e, in mezzo al mare, il profilo di un isolotto si disegnò nitido. La prua si diresse da quella parte. A mano a mano che avanzava, un puntino prendeva la forma d’un uomo vestito di bianco, con una coppola dello stesso colore e le braccia aperte, sulla riva sabbiosa e così chiara che riluceva al sole inglobando le scarpe dell’uomo. La barca giunse alla meta, un’angusta lingua di terra in mezzo al mare, e Donna Maria scese bagnandosi l’orlo inferiore della gonna lunga, per quanto la tenesse un po’ sollevata.
«Ben venuta, Maria!»
Lei gli si gettò addosso, abbracciandolo con vigore.
«Fortunato, Fortunato del mio cuore, sei il mio angelo.»
Lo stringeva sempre più forte e gli versava lacrime pesanti sulle spalle. Lui le accarezzava il velo.
«È nero per te, amore mio» disse lei.
Una cascata di lacrime precipitava sempre più copiosa.
«Non dovevi, io sono ancora vivo.»
«Sento il tuo cuore battere. Tornerai a casa?»
«Mi ha ingoiato un’acciuga verde mentre pescavo.»
L’uomo si ritrasse di mezzo passo, prese le guance madide di Donna Maria tra le mani e poi le scostò delicatamente il velo.
«Non devi piangere per me» disse, asciugandole tante lacrime con i pollici. E le indicò una fossa, accanto a cui una piccola croce nera era infissa nella sabbia e un’incisione d’oro sopra diceva: “Fortunato Provenza (nato 1888 – morto ?)”.
Poi aggiunse: «Quella è la mia tomba. Guarda dentro».
Lei si sporse. Sul fondo della fossa, un’acciuga verde dormiva.
Lui, spiccato un breve salto, si distese accosto al pesce.
«Adesso seppelliscimi e va’ al cimitero.»
Donna Maria mise mano a un mucchio di sabbia candida e lo gettò sull’uomo disteso e sull’acciuga fino a coprirli del tutto, dopo di che si accomodò sulla barchetta che l’aveva portata là. Partì. Durante il viaggio, più volte Donna Maria si era voltata indietro a scrutare il mare, ma l’isoletta di Fortunato non c’era più.
Una volta giunta sulla costa, gridò: «Dove sei, Salvatore?».
Nessuno rispose. Un alito di tramontana, gelidissimo, spirava e le invadeva i capelli sotto al fazzoletto. Il mugghiare delle onde si faceva più rumoroso. Il cielo si ricoprì di nuvoloni funerei e cominciò a piovigginare. Donna Maria quindi si acconciò bene il velo e riprese le strada del camposanto sotto una pioggia lieve.
Arrivata che fu sul piazzale, la melodia di “Balocchi e profumi” soffiava nel vento. Quattro donne le si pararono innanzi con le vesti umide. «Abbiamo trovato questa croce nera col nome di vostro marito Fortunato tra le tombe dei pescatori.» Posero la croce a terra e si dileguarono. Donna Maria la sollevò e lesse l’incisione dorata. Poi la lasciò ricadere e corse verso il cimitero. Entrò e si strinse la gola.
L’indomani mattina al porto i pescatori dicevano: «Abbiamo pescato un’acciuga verde». «Un’acciuga verde» urlavano altri. «Piccola e verde, tra le reti». Donna Maria sospirò.
«Fortunato è ancora con me» ripeteva a sé stessa, serrando sotto il mento il fazzoletto colore del lutto. E sorrideva.