[N2022R] Una risata dal cielo
Inviato: lun dic 26, 2022 8:14 pm
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Temi: amicizia, fuga, altri mondi.
Cominciai anch'io a guardare in alto più spesso
Rocco non aveva i pensieri che normalmente affliggono le persone: l'incertezza del futuro, l'insoddisfazione per il lavoro (anche perché non lavorava), problemi economici, crisi energetica, guerre. O perlomeno non li manifestava. A differenza di me, lui rideva sempre. Guardava in alto e rideva. Una risata da spaccare i timpani. Lo faceva quasi apposta: si piazzava vicino al mio orecchio per provocarmi o, forse, semplicemente per comunicare.
Non sono mai riuscito a capire il motivo di tale apparente contentezza, ma era comunque piacevole vederlo, con quelle due fossette createsi dal dilatarsi delle labbra e quegli occhi lucidi, pieni di vitalità. Ci provavo anch'io a guardare in alto, per cercare di cogliere la causa di tale ilarità, ma rimanevo solo con la bocca aperta.
Apparso all'improvviso senza che nulla si sapesse della sua vita precedente, era come se ci fossimo aspettati. Non parlava ma ci capivamo e quel suo mutismo innato o selettivo non faceva differenza per me.
Un braccio perennemente piegato e da una gamba azzoppato non creavano nessun disagio a Rocco, anche se l'aver voluto imitare un artista sui trampoli alla festa del paese non aveva giovato al suo fisico. La sua andatura claudicante era in armonia con ogni movimento asimmetrico del suo corpo, tanto che mi veniva da imitarlo. E partiva una risata sonora.
Ma la cosa più sensazionale era la sua velocità a sparire nel nulla: un attimo prima dietro di me e quello dopo volatilizzato, tanto da farmi credere che i suoi acciacchi fisici fossero un bluff e che in realtà avesse il fisico da centometrista. Poi, guardandolo sotto la doccia, dovetti ricredermi.
Per fortuna l'eco della sua voce mi giungeva anche da distanze considerevoli, con la sensazione che provenisse sempre dall'alto, oltre il cielo. In fondo non mi sbagliavo.
Un giorno ricevetti una telefonata: “Pronto, sono il capo dei vigili del fuoco, c'è un signore sulla guglia del campanile che ha lanciato una pallina di carta con scritto il suo numero di telefono.”
Risultato: tre giorni ricoverato, legato.
Il terzo giorno l'infermiera trovò sul letto vuoto le cinghie che formavano la sagoma di un uccello in volo, insieme a tutte le pasticche che faceva finta di ingoiare.
Ecco perché rideva. Per le conseguenze deliranti derivanti dalla sua aspirazione verso l'alto.
Un giorno ebbi la tentazione di accompagnarlo in montagna, un sentimento contrastato, ma che alla fine portai a compimento, con la promessa che per nessun motivo avrebbe dovuto allontanarsi da me.
Parole al vento, come la sua risata che giungeva dalla croce sul cucuzzolo della montagna.
Non avendo apparecchi tecnologici, non sapeva delle possibilità che offriva la civiltà. Per lui essenziale era vagare e immaginare qualcosa di altro.
Dalla fuga dall'ospedale erano passati alcuni giorni senza aver ricevuto nessun segnale di Rocco. Dopo aver visionato i punti più alti nel raggio di cento chilometri senza risultato, abitando in pianura le possibilità non erano molte, mi giunse fievole quel suono familiare ridevole. Lo seguii, attratto come dal canto delle sirene e finalmente mi apparse, non in alto come mi sarei aspettato, ma impiantato al terreno con lo sguardo in su. Sembrava ipnotizzato come se stesse attendendo qualcuno dal cielo. Poi scoprii che era un cinguettio ad attirare la sua attenzione. Aveva incuriosito anche me; insolito.
Dalle sagome che si stagliavano in cielo, sembravano dei comuni uccelli, forse con una codina un po' più lunga. Poi da una sua fragorosa risata, il piccolo gruppo di volatili aveva deviato la traiettoria. Succedette di nuovo e appurai che quella corrispondenza era diventata costante, quasi una norma: Rocco comunicava con gli uccelli, pensai; oppure le onde sonore dei suoi acuti facevano scattare il movimento dei volatili.
Ma la curiosità di sapere che tipo di specie fossero quei pennuti mi aveva pervaso e rimasi sorpreso quando ne vidi uno appollaiato su un ramo che emetteva lo stesso cinguettio che avevo sentito in risposta alle sue risate: un pappagallo.
Un bellissimo pappagallino verde con il becco rosso. Compresi dopo una breve ricerca che si erano insediati con successo nel nostro continente; provenienti dall'Asia, avevano ritrovato un clima a loro congeniale.
E Rocco sembrava che sapesse tutto questo.
L'attrattiva per gli uccelli è nota fin dall'antichità, per cui non c'è da stupirsi se il pappagallo aveva sempre destato un certo fascino, soprattutto per il suo piumaggio e la facilità a essere ammaestrato, anche se a nessuno importava della perdita della sua libertà.
Ma questi nel cielo erano liberi, non addestrati; forse scappati da qualche gabbia, approfittando dello sportellino aperto per riconquistare i loro ampi spazi. Poi, devono essersi moltiplicati dando vita a colonie sempre più numerose.
Anche Rocco ambiva a spazi grandi e non c'era modo di addestrarlo alla vita comune. Stava aspettando il momento per fuggire. Tante volte gli era quasi riuscito e questa volta l'attuò, con la mente.
Diventava un'impresa distoglierlo da quella posizione con quel suo sguardo incanalato verso l'alto. Ci provarono con una barella e due alti fusti, ma poi riappariva lì, come Houdini, nello stesso punto, come se fosse stato teletrasportato. Mi toccò impiantare una tenda.
Un giorno notai che il suo sguardo aveva cambiato prospettiva. Finalmente una novità! Pensai. Aveva deviato la vista verso un grande albero. Lo fissava e rimasi spiazzato. Poi allungò la mano come a indicare qualcosa e mi accorsi di un piccolo foro situato in alto nel tronco. Pensai subito a una tana di qualche animale: uno scoiattolo, un ghiro; oppure un picchio, sarebbe stato più logico. Ma come per incanto uscì fuori e prese il volo proprio lui, con quel suo splendido piumaggio verde smeraldo e un tocco di rosso cadmio sul becco. Rientrò dallo stesso foro dopo poco con qualcosa in bocca. Non c'erano dubbi: all'interno c'era stata una nidiata.
Rocco si godeva quelle giornate a suon di risate fino a quando, da quello spiraglio, sbucarono due piccole testoline.
Non contai più le giornate passate ad attendere, ma arrivò il momento della prova più dura per le due nuove presenze: il primo volo.
E dove poteva atterrare il piccolo parrocchetto? Sulla spalla di Rocco, naturalmente. Appoggiò le sue gracili zampette a sinistra del suo volto e con delicatezza iniziò a becchettare sulla giovane barbetta scatenando la risata, non fragorosa come al solito, ma timida, con mugolii che non avevo mai sentito e un'espressione di complicità nel sorriso. Poi volò via. Quel primo volo sembrava un invito e Rocco lo seguì, anche se il corpo rimase lì.
Poi altri versi, improvvisi, dello stesso tipo ma più forti, attirarono la mia attenzione. Si sovrapponevano con un timbro impetuoso e un tono che incuteva apprensione e tormento. Giravano, almeno in tre, in circolo sopra le nostre teste e Rocco, o quel che restava di lui, sembrava veramente non essere più di questo mondo. Senza reazione.
Guardai a terra, poco distante, e capii il motivo di tanta disperazione. La mamma, con altri compagni, stava assistendo a una scena straziante. L'altro pulcino aveva anche lui tentato di spiccare il volo a si era ritrovato a terra in balia di una grande cornacchia che cercava di beccarlo mettendo a nudo la crudele legge della natura. Un rapace non mi avrebbe stupito ma un corvo predatore non me lo sarei aspettato. Mi avvicinai trascinandomi Rocco e il grande uccello nero scappò lasciando il parrocchetto a terra con una lieve ferita sull'ala inferta dal robusto becco. Avvicinai la mano e mi salì sopra senza paura. Lo porsi di fronte al viso di Rocco che non ebbe reazione e il piccolo pennuto si posò anch'egli sulla sua spalla sinistra.
Tornammo verso casa, non so più dopo quanto, con la sensazione di aver perso per sempre una parte del mio amico. Solo quando fummo arrivati, si accorse di quella nuova presenza. L'uccellino aveva la delicatezza di spostarsi solo quando doveva fare i suoi bisogni per poi ritornare subito al suo posto. Una strana coppia di inseparabili.
Rocco aveva decisamente ridotto le sue risate assordanti. Non aveva altra sensibilità da mostrare se non verso il parrocchetto ferito, che si riprese in breve tempo. Confabulavano fra di loro in una sorta di linguaggio umanuccellesco, fino al giorno in cui, potrei giurarlo, partì. Raggiungendo, forse, quello spirito che se n'era già andato. Questa volta lo vidi coi miei occhi, come una scena di un film a rallentatore, spiccare il volo insieme al suo piccolo compagno.
Non lo rividi più.
Nonostante l'assenza avevo la sensazione di sentirlo sempre vicino e l'eco della sua risata mi giungeva ogni volta che alzavo lo sguardo. Ma mi mancava. Occuparmi di lui era la cosa che mi riusciva meglio nella vita. Ma immaginarlo felice, in un luogo lassù, mi dava sollievo.
Poi arrivò Marco. Mi guardava sempre in cagnesco e borbottava frasi che non capivo. Non mi preoccupai, avevamo tempo davanti.
Temi: amicizia, fuga, altri mondi.
Cominciai anch'io a guardare in alto più spesso
Rocco non aveva i pensieri che normalmente affliggono le persone: l'incertezza del futuro, l'insoddisfazione per il lavoro (anche perché non lavorava), problemi economici, crisi energetica, guerre. O perlomeno non li manifestava. A differenza di me, lui rideva sempre. Guardava in alto e rideva. Una risata da spaccare i timpani. Lo faceva quasi apposta: si piazzava vicino al mio orecchio per provocarmi o, forse, semplicemente per comunicare.
Non sono mai riuscito a capire il motivo di tale apparente contentezza, ma era comunque piacevole vederlo, con quelle due fossette createsi dal dilatarsi delle labbra e quegli occhi lucidi, pieni di vitalità. Ci provavo anch'io a guardare in alto, per cercare di cogliere la causa di tale ilarità, ma rimanevo solo con la bocca aperta.
Apparso all'improvviso senza che nulla si sapesse della sua vita precedente, era come se ci fossimo aspettati. Non parlava ma ci capivamo e quel suo mutismo innato o selettivo non faceva differenza per me.
Un braccio perennemente piegato e da una gamba azzoppato non creavano nessun disagio a Rocco, anche se l'aver voluto imitare un artista sui trampoli alla festa del paese non aveva giovato al suo fisico. La sua andatura claudicante era in armonia con ogni movimento asimmetrico del suo corpo, tanto che mi veniva da imitarlo. E partiva una risata sonora.
Ma la cosa più sensazionale era la sua velocità a sparire nel nulla: un attimo prima dietro di me e quello dopo volatilizzato, tanto da farmi credere che i suoi acciacchi fisici fossero un bluff e che in realtà avesse il fisico da centometrista. Poi, guardandolo sotto la doccia, dovetti ricredermi.
Per fortuna l'eco della sua voce mi giungeva anche da distanze considerevoli, con la sensazione che provenisse sempre dall'alto, oltre il cielo. In fondo non mi sbagliavo.
Un giorno ricevetti una telefonata: “Pronto, sono il capo dei vigili del fuoco, c'è un signore sulla guglia del campanile che ha lanciato una pallina di carta con scritto il suo numero di telefono.”
Risultato: tre giorni ricoverato, legato.
Il terzo giorno l'infermiera trovò sul letto vuoto le cinghie che formavano la sagoma di un uccello in volo, insieme a tutte le pasticche che faceva finta di ingoiare.
Ecco perché rideva. Per le conseguenze deliranti derivanti dalla sua aspirazione verso l'alto.
Un giorno ebbi la tentazione di accompagnarlo in montagna, un sentimento contrastato, ma che alla fine portai a compimento, con la promessa che per nessun motivo avrebbe dovuto allontanarsi da me.
Parole al vento, come la sua risata che giungeva dalla croce sul cucuzzolo della montagna.
Non avendo apparecchi tecnologici, non sapeva delle possibilità che offriva la civiltà. Per lui essenziale era vagare e immaginare qualcosa di altro.
Dalla fuga dall'ospedale erano passati alcuni giorni senza aver ricevuto nessun segnale di Rocco. Dopo aver visionato i punti più alti nel raggio di cento chilometri senza risultato, abitando in pianura le possibilità non erano molte, mi giunse fievole quel suono familiare ridevole. Lo seguii, attratto come dal canto delle sirene e finalmente mi apparse, non in alto come mi sarei aspettato, ma impiantato al terreno con lo sguardo in su. Sembrava ipnotizzato come se stesse attendendo qualcuno dal cielo. Poi scoprii che era un cinguettio ad attirare la sua attenzione. Aveva incuriosito anche me; insolito.
Dalle sagome che si stagliavano in cielo, sembravano dei comuni uccelli, forse con una codina un po' più lunga. Poi da una sua fragorosa risata, il piccolo gruppo di volatili aveva deviato la traiettoria. Succedette di nuovo e appurai che quella corrispondenza era diventata costante, quasi una norma: Rocco comunicava con gli uccelli, pensai; oppure le onde sonore dei suoi acuti facevano scattare il movimento dei volatili.
Ma la curiosità di sapere che tipo di specie fossero quei pennuti mi aveva pervaso e rimasi sorpreso quando ne vidi uno appollaiato su un ramo che emetteva lo stesso cinguettio che avevo sentito in risposta alle sue risate: un pappagallo.
Un bellissimo pappagallino verde con il becco rosso. Compresi dopo una breve ricerca che si erano insediati con successo nel nostro continente; provenienti dall'Asia, avevano ritrovato un clima a loro congeniale.
E Rocco sembrava che sapesse tutto questo.
L'attrattiva per gli uccelli è nota fin dall'antichità, per cui non c'è da stupirsi se il pappagallo aveva sempre destato un certo fascino, soprattutto per il suo piumaggio e la facilità a essere ammaestrato, anche se a nessuno importava della perdita della sua libertà.
Ma questi nel cielo erano liberi, non addestrati; forse scappati da qualche gabbia, approfittando dello sportellino aperto per riconquistare i loro ampi spazi. Poi, devono essersi moltiplicati dando vita a colonie sempre più numerose.
Anche Rocco ambiva a spazi grandi e non c'era modo di addestrarlo alla vita comune. Stava aspettando il momento per fuggire. Tante volte gli era quasi riuscito e questa volta l'attuò, con la mente.
Diventava un'impresa distoglierlo da quella posizione con quel suo sguardo incanalato verso l'alto. Ci provarono con una barella e due alti fusti, ma poi riappariva lì, come Houdini, nello stesso punto, come se fosse stato teletrasportato. Mi toccò impiantare una tenda.
Un giorno notai che il suo sguardo aveva cambiato prospettiva. Finalmente una novità! Pensai. Aveva deviato la vista verso un grande albero. Lo fissava e rimasi spiazzato. Poi allungò la mano come a indicare qualcosa e mi accorsi di un piccolo foro situato in alto nel tronco. Pensai subito a una tana di qualche animale: uno scoiattolo, un ghiro; oppure un picchio, sarebbe stato più logico. Ma come per incanto uscì fuori e prese il volo proprio lui, con quel suo splendido piumaggio verde smeraldo e un tocco di rosso cadmio sul becco. Rientrò dallo stesso foro dopo poco con qualcosa in bocca. Non c'erano dubbi: all'interno c'era stata una nidiata.
Rocco si godeva quelle giornate a suon di risate fino a quando, da quello spiraglio, sbucarono due piccole testoline.
Non contai più le giornate passate ad attendere, ma arrivò il momento della prova più dura per le due nuove presenze: il primo volo.
E dove poteva atterrare il piccolo parrocchetto? Sulla spalla di Rocco, naturalmente. Appoggiò le sue gracili zampette a sinistra del suo volto e con delicatezza iniziò a becchettare sulla giovane barbetta scatenando la risata, non fragorosa come al solito, ma timida, con mugolii che non avevo mai sentito e un'espressione di complicità nel sorriso. Poi volò via. Quel primo volo sembrava un invito e Rocco lo seguì, anche se il corpo rimase lì.
Poi altri versi, improvvisi, dello stesso tipo ma più forti, attirarono la mia attenzione. Si sovrapponevano con un timbro impetuoso e un tono che incuteva apprensione e tormento. Giravano, almeno in tre, in circolo sopra le nostre teste e Rocco, o quel che restava di lui, sembrava veramente non essere più di questo mondo. Senza reazione.
Guardai a terra, poco distante, e capii il motivo di tanta disperazione. La mamma, con altri compagni, stava assistendo a una scena straziante. L'altro pulcino aveva anche lui tentato di spiccare il volo a si era ritrovato a terra in balia di una grande cornacchia che cercava di beccarlo mettendo a nudo la crudele legge della natura. Un rapace non mi avrebbe stupito ma un corvo predatore non me lo sarei aspettato. Mi avvicinai trascinandomi Rocco e il grande uccello nero scappò lasciando il parrocchetto a terra con una lieve ferita sull'ala inferta dal robusto becco. Avvicinai la mano e mi salì sopra senza paura. Lo porsi di fronte al viso di Rocco che non ebbe reazione e il piccolo pennuto si posò anch'egli sulla sua spalla sinistra.
Tornammo verso casa, non so più dopo quanto, con la sensazione di aver perso per sempre una parte del mio amico. Solo quando fummo arrivati, si accorse di quella nuova presenza. L'uccellino aveva la delicatezza di spostarsi solo quando doveva fare i suoi bisogni per poi ritornare subito al suo posto. Una strana coppia di inseparabili.
Rocco aveva decisamente ridotto le sue risate assordanti. Non aveva altra sensibilità da mostrare se non verso il parrocchetto ferito, che si riprese in breve tempo. Confabulavano fra di loro in una sorta di linguaggio umanuccellesco, fino al giorno in cui, potrei giurarlo, partì. Raggiungendo, forse, quello spirito che se n'era già andato. Questa volta lo vidi coi miei occhi, come una scena di un film a rallentatore, spiccare il volo insieme al suo piccolo compagno.
Non lo rividi più.
Nonostante l'assenza avevo la sensazione di sentirlo sempre vicino e l'eco della sua risata mi giungeva ogni volta che alzavo lo sguardo. Ma mi mancava. Occuparmi di lui era la cosa che mi riusciva meglio nella vita. Ma immaginarlo felice, in un luogo lassù, mi dava sollievo.
Poi arrivò Marco. Mi guardava sempre in cagnesco e borbottava frasi che non capivo. Non mi preoccupai, avevamo tempo davanti.