In Polonia, paese dove mi è capitato di vivere per qualche anno, esiste un modo di dire -"che Saigon!"-, usato ogni volta che ci si ritrova immersi nel traffico e nella confusione.
Ecco, Saigon è un fiume in piena e la sua corrente sono i motorini. Motorini che strombazzano, che schivano i turisti, che non rispettano il rosso, motorini di venditori ambulanti che trasportano seppie essiccate, o ceste di frutta e verdura, o carretti di pane e salse piccanti, o bottiglie di coca cola, o che semplicemente trasportano altra gente.
Dispiego la mappa, cerco un ufficio biglietti che mi porti lontano da qui. Il sudore appiccica i vestiti alla pelle. Un sole opaco e fumoso non permette di distinguire cosa ho intorno. Cerco di attraversare la strada e un motorino mi schiva, suona il clacson.
I bar bombardano la via Bui Vien con musica a tutto volume, i turisti seduti ai tavolini bevono cocktail costosi, mentre dietro di loro uno stripper ammicca alle donne, ha una giacchetta di pelle aperta sul petto e balla con movenze decise. Sembra giovane. Di di fronte a lui, a loro, dall'altro lato della strada, alcuni abitanti del posto bevono birra seduti su sedie i plastica bianche, mangiano noodle e granchi, osservano i turisti e non tradiscono nessuna espressione.
Un ragazzo della security del locale mi trascina per un braccio e cerca di guidarmi verso un tavolo vuoto, vuole che beva birra alle dieci del mattino. La notte scorsa ha fatto lo stesso, ha cercato di trascinarmi verso i tavoli del suo locale, e dopo dei venditori mi hanno inseguito per vendermi le loro birre, o i loro massaggi.
Scaccio malamente la security, così come ho scacciato i venditori a tutte le ore del giorno e della notte. Non si sa cosa fare per trovare un po' di quiete, sembra che i vietnamiti non dormano mai.
Ho controllato sulla mappa e poi mi sono guardata intorno. Mi sono avvicinata a un ristorante, mi hanno indicato con un braccio un cunicolo che sembrava più che altro un vicoletto cieco in mezzo a due palazzi giganteschi.
"Vai lì" ha indicato una signora.
"Ma lì non c'è niente!" mi sono detta, ma sono comunque sgattaiolata in quel cunicolo grande quanto me e il mio zaino, e ho camminato.
E lì ho scoperto un altro mondo.
Tra i palazzi alti e le due strade principali di Saigon si nascondeva una stradina stretta, spoglia. Le case sembravano magazzini senza porte, una sorta di stanza aperta. Delle signore friggevano silenziose dei grandi granchi rossi dentro wok pieni di olio bollente.
Un signore a petto nudo si grattava i piedi pigramanete, seduto su una sedia di plastica, mentre accanto a lui due signore conversavano tra loro da una casa all'altra.
Una bambina, dagli occhi neri e i capelli nerissimi, mi è saltellata davanti e mi ha sorriso, prima di sparire in fondo al cunicolo.
Mi sono guiardata attorno, sopra di me vedevo sgocciolare la condensa dei condizionatori, dei cavi penzolavano tra i muri grigiastri.
Ecco dove si trovava: un silenzio, una pace si nascondeva in quella via. La pace di Saigon era lì, in quelle vie traverse, e pareva non volersi mostrare. Aspettava che tutto sparisse per uscire allo scoperto, che tutti i turisti, i motorini, le auto, i locali dalla musica assordante, i venditori ambulanti, andassero via, e la lasciassero in pace a fare il suo lavoro.