Complotto

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Complotto



Era una mattina di aprile e come sempre Luciano Pretis si accingeva a svolgere la più alienante delle cose: il suo lavoro.
Non aspettava altro che qualcosa cambiasse, anche il più stupido insignificante pezzo del suo grigio puzzle. Magari un inaspettato litigio fra due colleghi o un licenziamento, sarebbe bastato anche quello. Quella mattina Luciano, mentre beveva caffè nel suo angusto spazio mattutino e leggeva il suo classico preferito di Kafka, provò l’insolita sensazione che qualcosa sarebbe accaduto quel giorno. Era un inguaribile superstizioso e un raggiante sorriso gli si scolpì in volto. Le solite abitudini erano difficili da scardinare ma con la volontà ringiovanita dal suo presentimento, forse quel giorno sarebbe riuscito a parlare con la segretaria. Fece la doccia, lavò denti e faccia e una volta asciutto, indossò completo e cappotto. Uscì di casa e si diresse verso la redazione a un paio di miglia da casa sua, camminando fra le caliginose strade della città. Non poté evitare di respirare lo Smog della metropoli: enormi colossi d’acciaio lo sovrastavano, risaltando i banchi di fumo che avanzavano lentamente fra gli incroci delle strade; il colore cinereo del metano combusto, come fiamma di Pentecoste, gravava sulle teste di tutti. Solo l’immaginazione avrebbe potuto colmare quel vuoto, rivelando il pezzo di mondo che si nascondeva dietro a quegli incombenti blocchi di nebbia.
La facciata di mattoni del quotidiano, però, era inconfondibile; entrò dall’ingresso, salì le scale a due a due e attraversò il lungo corridoio del reparto scrutando fugace la collega Linda. Poi arrivò alla sua postazione e levò con pigrizia il capello, poggiandolo sull’appendiabiti e sedendosi difronte all’Olivetti.
Succedeva sempre.
Ogni volta che entrava in quell’ufficio, Luciano, sentiva un senso di staccamento dal corpo; gli arti prendevano vita propria e a seguire occhi, bocca, orecchie…
La sua presenza fisica pareva mantenuta vegeta solo per un fine ultimo: scrivere articoli seguendo i boriosi ritmi del giornale.
Passarono ore, minuti, forse secondi.

Uno dei suoi tarli riprese vita: la vecchia disputa con il Magnoni.
Da quella sera non aveva più giocato a una sola partita di Bridge. Lui non aveva mai perso una partita di Bridge. Non rammentò nemmeno per quale motivo avesse perso, eppure la folla, le voci, la musica di sottofondo erano ancora vivide in mente.
Luciano Pretis il giorno seguente, dopo aver passato la notte a riflettere sulle radici del fallimento sognando i suoi colleghi in atto di derisione nei suoi confronti, iniziò con fare maligno, e anche un po’ ingiusto, a covare strani pensieri verso gli stessi. Solo grazie una puntuale quanto vergognosa combutta Magnoni avrebbe potuto vincere. Si riguardò bene dal destare sospetti, ma già da allora il suo nervosismo prese a cavalcare.
Mentre buttava giù le ultime righe del suo brano sugli scandali fiscali di Colleaversa, sentì caldo e allargò spasmodicamente il colletto del completo. Un alone di sudore gli inumidiva ormai l’intera zona ascellare della camicia, nascosta solo dalla giacca. Non poteva toglierla, avrebbe messo in discussione la sua posizione e reputazione. Il capo redazione Rigoni non avrebbe permesso ad un suo sottoposto di corrompere l’aria pulita del nuovo condizionatore comperato con i soldi del suo immacolato lavoro. Continuò a battere più velocemente possibile sulla macchina da scrivere. I nomi dei più improbabili politici della regione, gli scorrevano tra le mani ingiallite dal fumo. A momenti pensò di vedere spruzzi di giallume sul nero mortifero della macchina.

La voce stridula di Rossella interruppe il suo flusso di coscienza.
«Pretis, il capo. Fra 10 minuti nel suo ufficio.»
Non rispose, odiava rispondere ad affermazioni che non potevano avere uno sviluppo d’argomento. Passò il resto della giornata a scrivere il Dossier di Cuneo.
Questo non fece altro che alimentare l’aria ansiogena della scrivania.
Si chiese se sarebbe bastato il dossier a scacciare la pressione impartita dalle regole ferree dettate dal Rigoni.
Non trovò risposta.

La settimana seguente, dopo che l’articolo fu stampato riuscì finalmente a rilassarsi nel suo oculo di scrittura. Ora poteva guardare gli altri scrivere e nonostante non volesse confessarlo a sé stesso, gli ispirava soddisfazione. Qualcosa, però, trattenne la catarsi di questo piacere.
Era una sensazione che non aveva mai provato. Di punto in bianco, Pretis, che era sempre stato un’ articolo indefinito, si sentì fin troppo definito.
In ogni suo minimo movimento avvertiva la presenza di qualcuno che lo stesse scrutando. Dall’angolo del muro, dalla fessura dei divisori, perfino dalla sua stessa macchina da scrivere.
Era evidente, qualcosa non andava. O magari era sempre stato così e lui non aveva mai avuto l’occasione di accorgersene. Si lasciò trasportare dall’angoscia. Riprese le sue cose e uscì del quotidiano sotto l’occhio austero e critico degli altri che, come studenti modello, si alzarono all’unisono, mostrando degli occhi spiritati rivolti proprio verso di lui. Si sbrigò sorpassando il solaio del piano superiore discendendo poi la larga scala dell’ingresso. La porta vetrata era di un colore atono, che rispecchiava esattamente quello che c’era fuori; l’aprì come se fosse un portale per l’ignoto: la nebbia era così folta da fuoriuscire dall’ingresso a pennellare il pavimento. La pioggia, invece, lenta e frustrante, sembrava annunciare un infausto avvenire.
Sentì dei passi che scendevano dalle scale, mentre la porta si chiudeva.
In men che non si dica si allontanò da quel riquadro monotono di mura; pensò allora di raggiungere il fratello Mario in periferia.

Una lunga strada, soprattutto per lui che, nonostante l’età del figlio di dio, non aveva una macchina. Si mise d’impegno camminando al limite della velocità consentita affinché diventasse corsa. Il pungente scroscio d’acqua picchiettava e oscurava il suo cappotto color miele bagnandolo; le persone parevano delle silhouette con degli ombrellini neri sulla testa. Era così agitato per l’accaduto, da non poter distogliere i pensieri da esso. Appena fu abbastanza lontano da non poter essere più seguito, si fermò sul ciglio del marciapiede, che visto da un’altra prospettiva con proporzioni diverse, avrebbe potuto avere la stessa forma e dinamica di un fiume. Tese il braccio verso la strada e alzò il pollice; l’autostop era l’unico modo (disperato) di raggiungere suo fratello. Restò freddato in quella posizione per almeno cinque minuti, fino a quando vide due luci trafiggere l’orizzonte nebuloso. Si avvicinavano senza però dare segno di interessamento. Follemente scattò al centro della strada. I due occhi gialli però, non ne vollero sapere: continuarono dritto.
L’auto lo investì.

Aprì gli occhi, c’era l’alba fuori.
Un altro giorno di lavoro lo aspettava.

Re: Complotto

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Devo ammettere che verso la fine del racconto tutto stava diventando confuso, continuando però a mantenere un buon ritmo e un lessico sciolto e piacevole. Trattandosi di un sogno, come si scopre alla fine, acquisisce senso il no sense. Forse avrei reso qualche passaggio centrale un pò più incalzante, trattandosi di un sogno, ma nel complesso mi è piaciuto molto.
In bocca al lupo!

Re: Complotto

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A Silent Kotobi ha scritto: mer gen 06, 2021 1:58 pm
Le solite abitudini erano difficili da scardinare ma
virgola (per aprire l'inciso)
con la volontà ringiovanita dal suo presentimento, forse quel giorno sarebbe riuscito a parlare con la segretaria.
Fece la doccia, lavò denti e faccia e
virgola (apertura inciso)
una volta asciutto, indossò completo e cappotto.

Uscì di casa e si diresse verso la redazione a un paio di miglia da casa sua, camminando fra le caliginose strade della città. Non poté evitare di respirare lo Smog della metropoli: enormi colossi d’acciaio lo sovrastavano, risaltando i banchi di fumo

ti suggerisco, al posto del gerundio, "facendo risaltare" i banchi di fumo

che avanzavano lentamente fra gli incroci delle strade;

Luciano Pretis
virgola
il giorno seguente, dopo aver passato la notte a riflettere sulle radici del fallimento sognando i suoi colleghi in atto di derisione nei suoi confronti, iniziò con fare maligno, e anche un po’ ingiusto, a covare strani pensieri verso gli stessi. Solo grazie una puntuale

grazie a una puntuale

quanto vergognosa combutta Magnoni avrebbe potuto vincere.
Si riguardò bene

Si guardò bene

dal destare sospetti, ma già da allora il suo nervosismo prese a cavalcare.
Continuò a battere più velocemente possibile

il più velocemente possibile

sulla macchina da scrivere. I nomi dei più improbabili politici della regione, gli scorrevano tra le mani ingiallite dal fumo. A momenti pensò di vedere spruzzi di giallume sul nero mortifero della macchina.

La voce stridula di Rossella interruppe il suo flusso di coscienza.
«Pretis, il capo. Fra 10 minuti nel suo ufficio.»

I numeri meglio in lettere che in cifre.

Non rispose, odiava rispondere ad affermazioni che non potevano avere uno sviluppo d’argomento.

Per non far confondere il lettore, che creda tu ti riferisca alla segretaria, potresti dire:
"Non si mosse, odiava rispondere alle affermazioni del capo che non potevano ecc."


La settimana seguente, dopo che l’articolo fu stampato
virgola
riuscì finalmente a rilassarsi nel suo oculo di scrittura. Ora poteva guardare gli altri scrivere e nonostante non volesse confessarlo a sé stesso, gli ispirava soddisfazione. Qualcosa, però, trattenne la catarsi di questo piacere.
Era una sensazione che non aveva mai provato. Di punto in bianco, Pretis, che era sempre stato un’ articolo indefinito,

un articolo (senza apostrofo)
si sentì fin troppo definito.
In ogni suo minimo movimento avvertiva la presenza di qualcuno che lo stesse scrutando. Dall’angolo del muro, dalla fessura dei divisori, perfino dalla sua stessa macchina da scrivere.
Era evidente, qualcosa non andava. O magari era sempre stato così e lui non aveva mai avuto l’occasione di accorgersene. Si lasciò trasportare dall’angoscia. Riprese le sue cose e uscì del quotidiano
uscì dalla Redazione
sotto l'occhio austero e critico degli altri che, come studenti modello, si alzarono all’unisono, mostrando degli occhi spiritati rivolti proprio verso di lui.

Una lunga strada, soprattutto per lui che, nonostante l’età del figlio di dio,
Dio
non aveva una macchina. Si mise d’impegno camminando al limite della velocità consentita affinché diventasse corsa.

Non capisco: C'è un limite di velocità a piedi?

Il pungente scroscio d’acqua picchiettava e oscurava il suo cappotto

Ti suggerisco: scuriva, al posto di "oscurava"
Hai scritto e decritto con scioltezza come la routine di un giornalista frustrato, di una metropoli cupa e piena di smog, venga, in una sola giornata, prima illuminata da un presagio positivo di cambiamento, per poi scatenare tutt'altro, nella mente del nostro. Un'isteria da complotto che aleggia intorno alla sua persona, il personaggio paranoico che finisce sotto un'auto...

Ma poi si sveglia... con la prospettiva della solita, noiosa e snervante giornata lavorativa.

Ben raccontato questo sogno. Bravo, @A Silent Kotobi :)
Di sabbia e catrame è la vita:
o scorre o si lega alle dita.


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