[MI164] Come la mattina presto
Posted: Sun Mar 06, 2022 11:34 pm
« Si’ pront’? »
« … so’ pront! »
Era un motorino azzurro, uno di quelli che si mettono in moto pedalando, e forse a quei tempi neppure c’era il buco sul sellino nel quale veniva quasi automatico infilarci un dito.
Lo facevano tutti, dita grandi e piccole, e la cosa non mi ha mai sorpreso, il difettoso incuriosisce, qualche volta fa gola, dell’ordinario invece frega a pochi o peggio ancora stizza. Come una giornata troppo silenziosa o una strada troppo pulita.
È quando c’è qualcosa di strano che ti giri, ti avvicini -provi magari- anche solo se si tratta di un buco in un sellino. Dopotutto è nel difetto che si campa, quando ‘na cosa è troppa bona dà quasi fastidio. L’ordine sa di camposanto, di cappelle della gente con i soldi, con le lapidi di quattro generazioni una sull’altra, frasi importanti e manco un cazzo di fiore.
Non ero male con il motorino, anche qualche impennata ogni tanto, anche se era più bravo Carminiello Cimmino, un fenomeno, lui, che a raccontare, credetemi, non si può spiegare. Di guidarlo ero capace già da un anno: pedalavo con il cavalletto in posizione e la ruota posteriore alzata da terra, davo un colpo di acceleratore, il motorino andava in moto e lasciavo che il cavalletto scattasse all’indietro. Me lo aveva fatto vedere Gianluca, mio fratello.
Mai caduto. Mai! Nemmeno la prima volta, è come portare la bicicletta, niente di complicato.
Io non ho una testa da scienziato, non ricordo mai niente, ‘na schifezza di memoria, dimentico parole, numeri di telefono, nomi. Non ne parliamo di nomi, me lo devono dire almeno tre volte.
Però ricordo le facce.
Ricordo un sacco di facce.
Ho la testa piena di facce.
Facce immobili e silenziose su sfondi bianchi, il resto sfuma rapidamente, lo cancello, e mi restano solo facce.
Ho la testa piena di facce su sfondi bianchi.
Bianchi e basta, solo bianchi, bianchi proprio come le lapidi ordinate della gente con i soldi; così bianchi che a volte gli infilo colori e dettagli a casaccio, perché l’ordine mi stizza.
Dicono che Napoli è “’o paese d’ ‘o Sole” eppure io negli sfondi bianchi, non so perché, metto sempre la pioggia.
Potrei dire che nu me ricordo ‘na jurnata e’ Sole.
E potrei dire che pioveva anche quella mattina.
La faccia della donna aveva poco più di 30 anni, delle labbra sottili, gli occhi truccati con un ombretto turchese e un grazioso naso incipriato.
Era la prima volta, ma non avrei avuto problemi, lo sapevo.
Non me lo avevano spiegato com’è che si faceva. Né Gianluca, né Mano Mozza che perse la mano quando era criaturo e non ho mai saputo come.
A volte diceva che era stato per una bomba che aveva lanciato in acqua per pescare ma era scoppiata troppo presto. Altre volte raccontava che l’aveva persa in un incidente stradale, altre ancora che era caduto in un vecchio pozzo coperto da metalli taglienti e arrugginiti. Ma la sua mano, però, valeva per tre mani normali, era veloce e faceva di tutto: si allacciava le scarpe. Ci penso spesso a come Mano mozza si allacciava le scarpe.
Sono cose che sai senza sapere; come girare la forchetta, non è che lo spiegano come si fa, ma quando ti trovi un piatto di spaghetti davanti la fai girare, in un modo o nell’altro. Cose che sai fare, punto e basta, e nemmeno ti viene il dubbio non sia in grado di farla.
E allora anche la prima volta, io lo sapevo come si faceva.
Infilai il mento nel bavero del cappotto e mi avvicinai a lei con passo rapido, senza pensare troppo, lo feci e basta. Come un tuffo nell’acqua di mattina presto, quando è ancora troppo fredda, e più tempo ci metti più brividi senti.
Manco fece caso a me che arrivavo, chissà cosa le passava per la testa: croste sulla padella che non riusciva a raschiare o rate di un mutuo che le intossicava le notti. Un marito fuori per lavoro, figli che era costretta a parcheggiare da parenti.
Non ci mise molto a capire, bastarono due parole e quelle labbra sottili si contrassero fino a diventare una linea orizzontale, come a sottolineare il grazioso naso incipriato.
Mi diede la borsa senza dire nulla, la strinsi forte e corsi verso il motorino.
Mio fratello si allontanò senza indugiare, senza perder’ tiempo. Durante il tragitto tenni lo sguardo basso, ma non per paura, con Gianluca non mi sono mai pigliato paura, ma perché mi piaceva guardare la strada scorrere sotto le ruote del motorino, avevo la sensazione di andare più veloce. Non saprei dire cosa ci passava intorno, auto parcheggiate, forse, palazzi, probabilmente, e poi facce, come sempre, ricordo facce.
Quelle pietose dei neri che vendevano braccialetti da frocio, quelle frettolose incravattate che correvano al lavoro, quelle distratte e nervose delle donne che facevano la spesa per qualche marito cornuto.
Facce pietose, frettolose, distratte e nervose che scivolavano ai lati della nostra strafottenza.
Nella borsa c’era qualche cianfrusaglia per il trucco, un portafoglio con meno di 100 mila lire, documenti, una piccola margherita ormai appassita, la foto di un vecchio e un pacchetto di Merit.
Tenni tutto per me e a lui stette bene.
«Basta che non metti ‘o russetto».
Sorrisi e cercai di colpirlo ma bastò una sua spinta a farmi cadere co’ culo n’ derra.
E lo sentii inchiodato il mio culo, ero già in mezzo, non sapevo di preciso come c’ero arrivato, ma ero sicuro di esserne al centro e quando sei al centro è troppo lontano ogni punto, il centro è sempre il posto peggiore se vuoi andare via.
Guardai la faccia di Gianluca e dietro la sua mi sembrò di vedere tutte le altre: quella della signora, quelle che scorrevano sul marciapiede, il vecchio della foto. Ogni faccia che ricordavo.
Ordinarie e ordinate, di quelle che ti scivolano indifferentemente a lato, di quelle che sanno di camposanto.
E me le sentii tutte addosso, tutte rivolte verso la mia di faccia, improvvisamente strana, difettosa; come le cose che incuriosiscono, che ti fanno girare, provare magari, anche solo per vedere se il tuo dito c’entra.
Gianluca mi allungò la mano con il ghigno rassegnato di chi la sa troppo lunga per potertela raccontare tutta, io mi alzai di scatto, senza il suo aiuto, dopotutto, pensai, cadere e rialzarsi è il modo migliore per imparare a camminare.
E io solo quello ho fatto.
Ho solo camminato.
« … so’ pront! »
Era un motorino azzurro, uno di quelli che si mettono in moto pedalando, e forse a quei tempi neppure c’era il buco sul sellino nel quale veniva quasi automatico infilarci un dito.
Lo facevano tutti, dita grandi e piccole, e la cosa non mi ha mai sorpreso, il difettoso incuriosisce, qualche volta fa gola, dell’ordinario invece frega a pochi o peggio ancora stizza. Come una giornata troppo silenziosa o una strada troppo pulita.
È quando c’è qualcosa di strano che ti giri, ti avvicini -provi magari- anche solo se si tratta di un buco in un sellino. Dopotutto è nel difetto che si campa, quando ‘na cosa è troppa bona dà quasi fastidio. L’ordine sa di camposanto, di cappelle della gente con i soldi, con le lapidi di quattro generazioni una sull’altra, frasi importanti e manco un cazzo di fiore.
Non ero male con il motorino, anche qualche impennata ogni tanto, anche se era più bravo Carminiello Cimmino, un fenomeno, lui, che a raccontare, credetemi, non si può spiegare. Di guidarlo ero capace già da un anno: pedalavo con il cavalletto in posizione e la ruota posteriore alzata da terra, davo un colpo di acceleratore, il motorino andava in moto e lasciavo che il cavalletto scattasse all’indietro. Me lo aveva fatto vedere Gianluca, mio fratello.
Mai caduto. Mai! Nemmeno la prima volta, è come portare la bicicletta, niente di complicato.
Io non ho una testa da scienziato, non ricordo mai niente, ‘na schifezza di memoria, dimentico parole, numeri di telefono, nomi. Non ne parliamo di nomi, me lo devono dire almeno tre volte.
Però ricordo le facce.
Ricordo un sacco di facce.
Ho la testa piena di facce.
Facce immobili e silenziose su sfondi bianchi, il resto sfuma rapidamente, lo cancello, e mi restano solo facce.
Ho la testa piena di facce su sfondi bianchi.
Bianchi e basta, solo bianchi, bianchi proprio come le lapidi ordinate della gente con i soldi; così bianchi che a volte gli infilo colori e dettagli a casaccio, perché l’ordine mi stizza.
Dicono che Napoli è “’o paese d’ ‘o Sole” eppure io negli sfondi bianchi, non so perché, metto sempre la pioggia.
Potrei dire che nu me ricordo ‘na jurnata e’ Sole.
E potrei dire che pioveva anche quella mattina.
La faccia della donna aveva poco più di 30 anni, delle labbra sottili, gli occhi truccati con un ombretto turchese e un grazioso naso incipriato.
Era la prima volta, ma non avrei avuto problemi, lo sapevo.
Non me lo avevano spiegato com’è che si faceva. Né Gianluca, né Mano Mozza che perse la mano quando era criaturo e non ho mai saputo come.
A volte diceva che era stato per una bomba che aveva lanciato in acqua per pescare ma era scoppiata troppo presto. Altre volte raccontava che l’aveva persa in un incidente stradale, altre ancora che era caduto in un vecchio pozzo coperto da metalli taglienti e arrugginiti. Ma la sua mano, però, valeva per tre mani normali, era veloce e faceva di tutto: si allacciava le scarpe. Ci penso spesso a come Mano mozza si allacciava le scarpe.
Sono cose che sai senza sapere; come girare la forchetta, non è che lo spiegano come si fa, ma quando ti trovi un piatto di spaghetti davanti la fai girare, in un modo o nell’altro. Cose che sai fare, punto e basta, e nemmeno ti viene il dubbio non sia in grado di farla.
E allora anche la prima volta, io lo sapevo come si faceva.
Infilai il mento nel bavero del cappotto e mi avvicinai a lei con passo rapido, senza pensare troppo, lo feci e basta. Come un tuffo nell’acqua di mattina presto, quando è ancora troppo fredda, e più tempo ci metti più brividi senti.
Manco fece caso a me che arrivavo, chissà cosa le passava per la testa: croste sulla padella che non riusciva a raschiare o rate di un mutuo che le intossicava le notti. Un marito fuori per lavoro, figli che era costretta a parcheggiare da parenti.
Non ci mise molto a capire, bastarono due parole e quelle labbra sottili si contrassero fino a diventare una linea orizzontale, come a sottolineare il grazioso naso incipriato.
Mi diede la borsa senza dire nulla, la strinsi forte e corsi verso il motorino.
Mio fratello si allontanò senza indugiare, senza perder’ tiempo. Durante il tragitto tenni lo sguardo basso, ma non per paura, con Gianluca non mi sono mai pigliato paura, ma perché mi piaceva guardare la strada scorrere sotto le ruote del motorino, avevo la sensazione di andare più veloce. Non saprei dire cosa ci passava intorno, auto parcheggiate, forse, palazzi, probabilmente, e poi facce, come sempre, ricordo facce.
Quelle pietose dei neri che vendevano braccialetti da frocio, quelle frettolose incravattate che correvano al lavoro, quelle distratte e nervose delle donne che facevano la spesa per qualche marito cornuto.
Facce pietose, frettolose, distratte e nervose che scivolavano ai lati della nostra strafottenza.
Nella borsa c’era qualche cianfrusaglia per il trucco, un portafoglio con meno di 100 mila lire, documenti, una piccola margherita ormai appassita, la foto di un vecchio e un pacchetto di Merit.
Tenni tutto per me e a lui stette bene.
«Basta che non metti ‘o russetto».
Sorrisi e cercai di colpirlo ma bastò una sua spinta a farmi cadere co’ culo n’ derra.
E lo sentii inchiodato il mio culo, ero già in mezzo, non sapevo di preciso come c’ero arrivato, ma ero sicuro di esserne al centro e quando sei al centro è troppo lontano ogni punto, il centro è sempre il posto peggiore se vuoi andare via.
Guardai la faccia di Gianluca e dietro la sua mi sembrò di vedere tutte le altre: quella della signora, quelle che scorrevano sul marciapiede, il vecchio della foto. Ogni faccia che ricordavo.
Ordinarie e ordinate, di quelle che ti scivolano indifferentemente a lato, di quelle che sanno di camposanto.
E me le sentii tutte addosso, tutte rivolte verso la mia di faccia, improvvisamente strana, difettosa; come le cose che incuriosiscono, che ti fanno girare, provare magari, anche solo per vedere se il tuo dito c’entra.
Gianluca mi allungò la mano con il ghigno rassegnato di chi la sa troppo lunga per potertela raccontare tutta, io mi alzai di scatto, senza il suo aiuto, dopotutto, pensai, cadere e rialzarsi è il modo migliore per imparare a camminare.
E io solo quello ho fatto.
Ho solo camminato.