[MI156] La discesa rossa
Posted: Sun Oct 17, 2021 6:17 pm
Commento
Traccia di mezzanotte
Stavamo risalendo verso la superficie dopo una lunga giornata di campionamenti: il prof in testa, io in mezzo e la sua dottoranda in coda. Le torce illuminavano le pareti della caverna, lungo cui gocciolava lenta l'acqua. Ragni e ditteri penzolavano dal soffitto, qualcuno mezzo ammuffito. Dopo ore a misurare e pesare salamandre, il freddo e l'umidità mi erano penetrate nelle ossa. La speleologia, seppur a livelli amatoriali, mi divertiva, ed ero contento di aver scelto di fare la tesi di laura con quel gruppo di ricerca.
Il prof si fermò in cima alla galleria di risalita. «Questo è un problema», disse.
«Che succede?» Chiese la dottoranda.
«Abbiamo sbagliato strada».
«Com'è possibile?» La mia domanda rimbombò stupida. «Voglio dire, mi ricordo la via: le pozze d'acqua, il bivio. Non possiamo esserci sbagliati.»
«Lo so», rispose lui, secco, «ma è un vicolo cieco». Non avevamo una mappa e i cellulari non prendevano. Avevamo veramente sbagliato strada, o un qualche evento singolare aveva eretto quella parete liscia e regolare?
Tornammo indietro fino al bivio. «La strada è questa», constatò il prof, «non abbiamo sbagliato».
«C'è un'altra uscita?» Chiesi.
La dottoranda scosse la testa. «Conosciamo a fondo questa grotta, e l'ingresso è uno. Scendendo, torniamo ai siti con le salamandre e poco oltre il soffitto si abbassa fino a non poter avanzare neanche da sdraiati. La strada qui a destra invece si interrompe tra una ventina di metri.» Intercettai un'occhiata preoccupata tra lei e il prof e per la prima volta mi sentii in pericolo: non sapevano cosa fare.
«Dobbiamo cercare un'altra uscita, non abbiamo scelta», disse il prof. «Magari per qualche... qualche movimento geologico silenzioso» - si capiva che neanche lui credeva a quello che stava dicendo - «così come si è chiuso l'ingresso, può essersene aperto un altro».
Lasciammo le torce sulla luce rossa, a consumo minimo. Le pareti vermiglie e umide giocarono un brutto tiro alla mia mente stanca e mi sembrò che fossero ricoperte di sangue. Prendemmo la strada a destra, ma si interrompeva normalmente. Riprendemmo allora a scendere e tornammo alle pozze con le salamandre.
«Okay, dritti di qui dovremo avanzare a carponi», disse la dottoranda. «Anche se si scende, quindi non so quanto senso abbia».
Imboccai la strettoia. «Forza», esclamai, «usciamo da qui». Avanzai in testa. La luce rossa illuminava in modo spettrale il pertugio. Presto dovetti mettermi a strisciare sdraiato nel fango, tanto il soffitto era basso. Non credo avrei avuto le forze se avessimo dovuto risalire, ma avevo una fiducia inspiegata che mi spingeva ad andare avanti.
Sobbalzammo dal terrore quando sentimmo un urlo rimbombare davanti a noi. Era un verso anomalo e blasfemo, appartenente a chissà quale animale senza nome. Restammo immobili finché gli echi non si estinsero.
«Cosa cazzo era?» Bisbigliò la dottoranda.
«Non ho mai sentito niente del genere», rispose il prof.
«Forse un orso?» Provai a razionalizzare.
«Gli orsi non fanno così».
«Almeno vuol dire che c'è qualcosa, qui avanti». Tagliai corto, e ripresi a muovermi. La stanchezza mi aveva anestetizzato alla paura: volevo solo tornare a casa e fare una doccia calda.
Finalmente sbucammo in un'ampia sala. Dopo un paio di metri, uno strapiombo si apriva davanti a noi. Accendemmo le torce alla massima intensità e ci guardammo attorno: dalla piattaforma su cui eravamo non si vedeva l'altro lato. Raccolsi un ciottolo e lo lasciai cadere nell'abisso. Qualche secondo dopo, lo sentii toccare il fondo. Subito rispose un altro di quegli urli folli e bestiali, da sotto. Indietreggiai e dovetti reggermi a una parete per non svenire. Riabbassammo le torce alla minima intensità.
«Cosa facciamo?» Domandò la dottoranda, la voce incrinata.
«C'è una sola via», disse mesto il prof, «giù».
«No, no, no», implorò lei.
«Ha sufficiente corda, prof?» Alzai lo sguardo, disperato. Era l'unico che sembrava aver mantenuto la calma e l'avrei seguito fino al cuore della Terra se mi avesse portato a casa.
«Lo spero», rispose.
La corda bastò. Ci vollero trenta minuti, ma alla fine riuscimmo ad arrivare sul fondo del pozzo. Cinque gallerie ad arco si aprivano a intervalli regolari lungo l’immensa parete. Si intuiva una qualche trama intricata sul muro illuminato di rosso. Mi avvicinai e quello che vidi per poco non mi fece impazzire. Si trattava di un complesso sistema di segni che sembravano proto-alfabetici, in gruppi di punti e linee che seguivano una geometria triangolare e che mi dettero la sensazione di non appartenere al mondo naturale. L’istinto mi suggeriva di un terrore antico e blasfemo che col tempo l’uomo aveva dimenticato, e la memoria non poté non ricordarmi delle terribili descrizioni lette in un antico e maledetto tomo conservato nella biblioteca universitaria.
«Professore, che cosa sono questi segni?» Mi voltai, ma era rimasta solo la dottoranda. Ricambiò l’occhiata interrogativa, poi si voltò e anche lei si accorse dell’assenza. Del prof c’era solo il casco a terra, la luce ancora accesa, con una striscia di qualcosa di rosso sopra – lo era veramente, o erano le nostre torce?
Lei gridò, e di nuovo l’urlo inumano rispose, e questa volta era sopra di noi, ed era vicino. «Corri!» Le dissi, imboccando una delle gallerie. Lei mi seguì. Qualcosa di enorme si schiantò al suolo, producendo un suono odioso e viscido, e quando mi accorsi che ci stava seguendo rischiai di precipitare nella follia più nera. Invece, non so ancora come, riuscii a mettere un passo dietro l’altro e percorrere quei cunicoli piene di segni e bassorilievi indescrivibili. La strada seguiva una curva anormale, muovendosi prima leggermente in salita, poi leggermente in discesa, lungo piani di fuga impossibili che appartenevano a geometrie che Euclide e Fibonacci non avrebbero mai potuto concepire.
Rallentammo solo quando i suoni alle nostre spalle cessarono, ma non ci concedemmo di fermarci. Le pareti ora sembravano essere tornate quelle naturali, rugose e umide. Ero così stanco che la vista mi andava assieme e mi sembrava che i muri si muovessero da sé.
«Che cos’era quella cosa?» Chiesi, guardando la dottoranda, ma nei suoi occhi illuminati di rosso vidi che anche lei come me era a un passo dalla follia.
Non mi rispose. «C’è del vento», disse invece, indicando avanti a noi. L’uscita non doveva essere troppo lontana. Mi permisi di fare una piccola sosta per bere un sorso d’acqua, e nel farlo poggiai una mano alla parete. La ritrassi subito: invece della roccia, avevo toccato qualcosa di caldo e molliccio. Misi la torcia alla massima potenza, e con orrore vidi che la luce bianca illuminava pareti scarlatte e pulsanti, come fatte di un gigantesco ammasso di carne.
Trattenni un conato e ripresi a correre, mentre un lamento misto a pianto mi saliva dal fondo della gola. Era stato il colpo di grazia per la mia mente stremata: non pensai neanche a richiudere lo zaino e corsi a perdifiato, corsi nonostante i piedi e le gambe doloranti, corsi finché il cuore in petto quasi non mi esplose. La dottoranda tenne il passo, e solo qualche minuto dopo che ci fermammo fui abbastanza lucido da guardarmi attorno e rendermi conto che conoscevo il luogo in cui ci trovavamo.
Era la linea rossa della metropolitana della mia città. Non aveva alcun senso, la grotta si trovava diverse decine di chilometri più a nord, non potevamo aver fatto tutta quella strada.
«Forza», disse lei, sorreggendomi con un braccio, «usciamo da qui».
Un treno mezzo distrutto e arrugginito stava sdraiato sui binari polverosi. Non avevo mai visto quel luogo senza persone. Salimmo le scale, passammo i tornelli divelti e finalmente l’aria aperta riempì i miei polmoni. Il cielo era grigio, il sole brillava rosso pallido, e l’aria puzzava di cenere. Il vento fischiava forte tra le strade deserte, spirava tra le auto abbandonate, faceva roteare la polvere nella piazza vuota e soffiava tra le vetrate rotte e le guglie del duomo.
Traccia di mezzanotte
Stavamo risalendo verso la superficie dopo una lunga giornata di campionamenti: il prof in testa, io in mezzo e la sua dottoranda in coda. Le torce illuminavano le pareti della caverna, lungo cui gocciolava lenta l'acqua. Ragni e ditteri penzolavano dal soffitto, qualcuno mezzo ammuffito. Dopo ore a misurare e pesare salamandre, il freddo e l'umidità mi erano penetrate nelle ossa. La speleologia, seppur a livelli amatoriali, mi divertiva, ed ero contento di aver scelto di fare la tesi di laura con quel gruppo di ricerca.
Il prof si fermò in cima alla galleria di risalita. «Questo è un problema», disse.
«Che succede?» Chiese la dottoranda.
«Abbiamo sbagliato strada».
«Com'è possibile?» La mia domanda rimbombò stupida. «Voglio dire, mi ricordo la via: le pozze d'acqua, il bivio. Non possiamo esserci sbagliati.»
«Lo so», rispose lui, secco, «ma è un vicolo cieco». Non avevamo una mappa e i cellulari non prendevano. Avevamo veramente sbagliato strada, o un qualche evento singolare aveva eretto quella parete liscia e regolare?
Tornammo indietro fino al bivio. «La strada è questa», constatò il prof, «non abbiamo sbagliato».
«C'è un'altra uscita?» Chiesi.
La dottoranda scosse la testa. «Conosciamo a fondo questa grotta, e l'ingresso è uno. Scendendo, torniamo ai siti con le salamandre e poco oltre il soffitto si abbassa fino a non poter avanzare neanche da sdraiati. La strada qui a destra invece si interrompe tra una ventina di metri.» Intercettai un'occhiata preoccupata tra lei e il prof e per la prima volta mi sentii in pericolo: non sapevano cosa fare.
«Dobbiamo cercare un'altra uscita, non abbiamo scelta», disse il prof. «Magari per qualche... qualche movimento geologico silenzioso» - si capiva che neanche lui credeva a quello che stava dicendo - «così come si è chiuso l'ingresso, può essersene aperto un altro».
Lasciammo le torce sulla luce rossa, a consumo minimo. Le pareti vermiglie e umide giocarono un brutto tiro alla mia mente stanca e mi sembrò che fossero ricoperte di sangue. Prendemmo la strada a destra, ma si interrompeva normalmente. Riprendemmo allora a scendere e tornammo alle pozze con le salamandre.
«Okay, dritti di qui dovremo avanzare a carponi», disse la dottoranda. «Anche se si scende, quindi non so quanto senso abbia».
Imboccai la strettoia. «Forza», esclamai, «usciamo da qui». Avanzai in testa. La luce rossa illuminava in modo spettrale il pertugio. Presto dovetti mettermi a strisciare sdraiato nel fango, tanto il soffitto era basso. Non credo avrei avuto le forze se avessimo dovuto risalire, ma avevo una fiducia inspiegata che mi spingeva ad andare avanti.
Sobbalzammo dal terrore quando sentimmo un urlo rimbombare davanti a noi. Era un verso anomalo e blasfemo, appartenente a chissà quale animale senza nome. Restammo immobili finché gli echi non si estinsero.
«Cosa cazzo era?» Bisbigliò la dottoranda.
«Non ho mai sentito niente del genere», rispose il prof.
«Forse un orso?» Provai a razionalizzare.
«Gli orsi non fanno così».
«Almeno vuol dire che c'è qualcosa, qui avanti». Tagliai corto, e ripresi a muovermi. La stanchezza mi aveva anestetizzato alla paura: volevo solo tornare a casa e fare una doccia calda.
Finalmente sbucammo in un'ampia sala. Dopo un paio di metri, uno strapiombo si apriva davanti a noi. Accendemmo le torce alla massima intensità e ci guardammo attorno: dalla piattaforma su cui eravamo non si vedeva l'altro lato. Raccolsi un ciottolo e lo lasciai cadere nell'abisso. Qualche secondo dopo, lo sentii toccare il fondo. Subito rispose un altro di quegli urli folli e bestiali, da sotto. Indietreggiai e dovetti reggermi a una parete per non svenire. Riabbassammo le torce alla minima intensità.
«Cosa facciamo?» Domandò la dottoranda, la voce incrinata.
«C'è una sola via», disse mesto il prof, «giù».
«No, no, no», implorò lei.
«Ha sufficiente corda, prof?» Alzai lo sguardo, disperato. Era l'unico che sembrava aver mantenuto la calma e l'avrei seguito fino al cuore della Terra se mi avesse portato a casa.
«Lo spero», rispose.
La corda bastò. Ci vollero trenta minuti, ma alla fine riuscimmo ad arrivare sul fondo del pozzo. Cinque gallerie ad arco si aprivano a intervalli regolari lungo l’immensa parete. Si intuiva una qualche trama intricata sul muro illuminato di rosso. Mi avvicinai e quello che vidi per poco non mi fece impazzire. Si trattava di un complesso sistema di segni che sembravano proto-alfabetici, in gruppi di punti e linee che seguivano una geometria triangolare e che mi dettero la sensazione di non appartenere al mondo naturale. L’istinto mi suggeriva di un terrore antico e blasfemo che col tempo l’uomo aveva dimenticato, e la memoria non poté non ricordarmi delle terribili descrizioni lette in un antico e maledetto tomo conservato nella biblioteca universitaria.
«Professore, che cosa sono questi segni?» Mi voltai, ma era rimasta solo la dottoranda. Ricambiò l’occhiata interrogativa, poi si voltò e anche lei si accorse dell’assenza. Del prof c’era solo il casco a terra, la luce ancora accesa, con una striscia di qualcosa di rosso sopra – lo era veramente, o erano le nostre torce?
Lei gridò, e di nuovo l’urlo inumano rispose, e questa volta era sopra di noi, ed era vicino. «Corri!» Le dissi, imboccando una delle gallerie. Lei mi seguì. Qualcosa di enorme si schiantò al suolo, producendo un suono odioso e viscido, e quando mi accorsi che ci stava seguendo rischiai di precipitare nella follia più nera. Invece, non so ancora come, riuscii a mettere un passo dietro l’altro e percorrere quei cunicoli piene di segni e bassorilievi indescrivibili. La strada seguiva una curva anormale, muovendosi prima leggermente in salita, poi leggermente in discesa, lungo piani di fuga impossibili che appartenevano a geometrie che Euclide e Fibonacci non avrebbero mai potuto concepire.
Rallentammo solo quando i suoni alle nostre spalle cessarono, ma non ci concedemmo di fermarci. Le pareti ora sembravano essere tornate quelle naturali, rugose e umide. Ero così stanco che la vista mi andava assieme e mi sembrava che i muri si muovessero da sé.
«Che cos’era quella cosa?» Chiesi, guardando la dottoranda, ma nei suoi occhi illuminati di rosso vidi che anche lei come me era a un passo dalla follia.
Non mi rispose. «C’è del vento», disse invece, indicando avanti a noi. L’uscita non doveva essere troppo lontana. Mi permisi di fare una piccola sosta per bere un sorso d’acqua, e nel farlo poggiai una mano alla parete. La ritrassi subito: invece della roccia, avevo toccato qualcosa di caldo e molliccio. Misi la torcia alla massima potenza, e con orrore vidi che la luce bianca illuminava pareti scarlatte e pulsanti, come fatte di un gigantesco ammasso di carne.
Trattenni un conato e ripresi a correre, mentre un lamento misto a pianto mi saliva dal fondo della gola. Era stato il colpo di grazia per la mia mente stremata: non pensai neanche a richiudere lo zaino e corsi a perdifiato, corsi nonostante i piedi e le gambe doloranti, corsi finché il cuore in petto quasi non mi esplose. La dottoranda tenne il passo, e solo qualche minuto dopo che ci fermammo fui abbastanza lucido da guardarmi attorno e rendermi conto che conoscevo il luogo in cui ci trovavamo.
Era la linea rossa della metropolitana della mia città. Non aveva alcun senso, la grotta si trovava diverse decine di chilometri più a nord, non potevamo aver fatto tutta quella strada.
«Forza», disse lei, sorreggendomi con un braccio, «usciamo da qui».
Un treno mezzo distrutto e arrugginito stava sdraiato sui binari polverosi. Non avevo mai visto quel luogo senza persone. Salimmo le scale, passammo i tornelli divelti e finalmente l’aria aperta riempì i miei polmoni. Il cielo era grigio, il sole brillava rosso pallido, e l’aria puzzava di cenere. Il vento fischiava forte tra le strade deserte, spirava tra le auto abbandonate, faceva roteare la polvere nella piazza vuota e soffiava tra le vetrate rotte e le guglie del duomo.