[MI 155] È vuota negli insulti
Posted: Sun Oct 03, 2021 11:07 pm
Il mio commento
Traccia di mezzogiorno
È successo di giovedì.
No, forse era mercoledì.
Sì, un mercoledì.
Ah, quando ancora contavo i giorni della settimana.
Me lo ricordo come se fosse oggi, perché beh…
Brivido.
Era oggi.
È stato un passaggio rapido.
Penso spesso a cosa sarebbe successo se…
Brivido.
Un passaggio rapido davanti allo specchio del bagno.
Un passo con il piede destro, poi un passo con il piede sinistro.
A invertire il sinistro con il destro non sarebbe cambiato niente.
Di questo ormai sono sicuro.
C’era un bel sole, per essere un pomeriggio di fine ottobre. Un bel sole caldo.
E un raggio ardimentoso ha illuminato la mia figura riflessa.
È stato un attimo. Meno di un attimo. Cosa c’è sotto l’attimo? Esiste qualcosa sotto l’attimo?
L’ho visto con la coda dell’occhio.
Che idiota maledetto sono.
Avrei potuto far finta di niente.
Essere distratto come sempre.
Invece mi sono bloccato, mostrando il profilo della faccia allo specchio.
E ho girato il collo.
All’inizio ho sorriso.
Un piccolo peletto bianco in mezzo a tanti neri.
Mi sono detto: è sintomo di saggezza, sono ormai un uomo che sa il fatto proprio.
Poi è arrivato un pensiero imprevisto, impetuoso come un chiodo nella carne viva: la morte sta arrivando.
Posso sentirne i passi.
Da questo momento in poi è tutto declino, discesa.
Si guarda indietro con nostalgia, sorridendo amaramente ai ricordi.
Cosa c’è davanti?
Cosa si può costruire?
Un matrimonio?
Dei figli?
Tutte cose di cui la gente si lamenta.
E poi, dettaglio non da poco, dovrei prima trovare una persona che voglia farle con me queste cose.
Anche mia madre ha perso le speranze.
Papà mi diceva sempre che là fuori è pieno di pesci, che devo solo tendere la lenza nel punto giusto e lei annuiva, convinta.
Da quando papà è morto, non ha più nulla a cui annuire.
«Buongiorno, signor Tezzulli. Che bel sole per essere fine ottobre. Non trova?»
Mi blocco.
Per un attimo il mio respiro si ferma.
La vena sulla tempia destra comincia a pulsare.
Credo che urlerò.
Mi giro verso sinistra e nel mio campo visivo entra la figura di Dominguèz, il portiere peruviano del condominio.
Sente di aver sbagliato qualcosa, ma evidentemente non capisce cosa, visto che tarda a correggersi.
Le labbra cominciano a tremargli, mentre gli occhi stanno già implorando la mia pietà.
«Non crede?» dico con un filo di voce.
Sulle guance di Dominguèz torna un po’ di colore.
Ha capito.
«Mi scusi, la prego. Ho provato la battuta mille volte nell’ultima mezz’ora e quando l’ho vista, io… Devo aver perso la concentrazione.»
«Dov’è il ghiacciolo all’amarena?» chiedo con voce ancora più bassa. Sto reprimendo la bestia dentro di me che vorrebbe urlare e picchiarlo.
«Le giuro che non succederà mai più. In fondo è una frase. Una stupida e semplice frase.»
Non mi ha sentito. E questo mi fa incazzare di brutto.
«Dov’è il cazzo di ghiacciolo all’amarena, ho detto!» urlo a pieni polmoni.
Lui sbianca di nuovo e indietreggia impaurito.
«Signore, è dicembre. Il negozio dove lo prendo di solito ha terminato le scorte.»
Pensa che mi basti.
Pensa che io possa fargli un tenero sorriso e dire: «Ma tranquillo, carissimo.»
«Hai girato ogni singolo negozio della provincia?»
«No, signore. Il lavoro… Dovevo venire qui e non sapevo se avrei fatto… In tempo» farfuglia cose Dominguèz e io mi incazzo ogni secondo di più.
«Domani non ammetterò errori» dico con tono perentorio ed esco fuori dal portone.
Dominguèz non può sbagliare, perché è la prima persona che incontro al mattino. È come se desse il via al processo. È fondamentale affinché ieri e domani coincidano e si tendano la mano, in un oggi sempre uguale a sé stesso.
L’ho picchiato il giorno che ho deciso di fermare il tempo, perché non voleva aiutarmi. Dire una singola stupida frase e mangiare sempre lo stesso ghiacciolo all’amarena costa troppa fatica al giorno d’oggi, evidentemente.
Mi specchio nella vetrina del forno Curini, come ogni mattina, e sorrido compiaciuto. Il pelo bianco è sempre lì. Quel singolo pelo di quel giorn-
Brivido.
Quel singolo pelo di oggi.
Accelero il passo e, non appena il bus numero trentasei parte per la stazione, attraverso sulle strisce pedonali, quindi taglio per il parco.
È tempo di sedermi sulla panchina di fronte alla fontanella e dedicarmi per cinquantasei minuti al numero 4675 della Settimana Enigmistica del ventotto ottobre duemilaventuno.
Apro a pagina tredici e osservo con attenzione le definizioni orizzontali del cruciverba sillabico.
“È vuota negli insulti”.
Zucca.
So che è “zucca”.
C’è già scritto a matita da ier-
Brivido.
Da oggi.
Cancello con la gomma e lo riscrivo, ripassando perfettamente i segni.
«Non hai freddo?»
Scatto sulla panchina.
Una donna.
Si è seduta vicino a me.
Se non le rispondo, magari andrà via e potrò continuare la ricostruzione dell’oggi senza intoppi.
«Una magliettina di cotone a maniche lunghe a dicembre è da veri duri.»
Ha rincarato la dose.
Cosa faccio?
Si sta avvicinando?
Non voglio voltarmi verso di lei, altrimenti si sentirà autorizzata ad abusare ancora di più della mia compagnia.
Sarà come sottoscrivere un consenso.
«Ma scusa, il cruciverba è già fatto. Che fai, vuoi impararlo a memoria?»
Ride.
Sottolinea le mie stranezze e ride di gusto.
Invece di fuggire a gambe levate si avvicina e si gusta ogni mia stramberia.
«Forse sei muto. Ma io conosco il linguaggio dei segni.»
Continua a parlare a ruota. È incredibile.
Sto sudando freddo perché devo registrare ogni singola frase e ripetere il tutto domani. Magari pagando un’altra donna che la interpreti.
Ma sento di aver già scordato tutto quello che ha detto.
“Non hai freddo?” o “Non fa freddo?”
Qual è stata la prima domanda?
«Scusami ero soprappensiero.»
Le ho risposto.
Perché?
Mi odio.
Ora dovrò ricordare anche quello che ho detto io.
Ricostruire perfettamente il dialogo.
Si può essere più stupidi?
Guardo l’orologio.
Tre minuti oltre i cinquantasei che dovevo dedicare al cruciverba.
Devo rientrare assolutamente in casa e spruzzare il deodorante per ambienti in ogni dove.
Il cadavere di mia madre è in decomposizione e puzza sempre di più ormai. Ma non posso spostarla dal salotto. Andrei a compromettere totalmente la ricostruzione dell’oggi.
Benedetta ignoranza: le ho chiesto di aiutarmi per fermare il tempo e mi ha detto di no.
Io volevo solo tingerle i capelli.
Farle mettere sempre gli stessi vestiti e stabilire un dialogo di poche battute.
Cosa ti costava, mamma?
«Perché non ti ho mai visto qui al parco?»
Io e la donna ci stiamo guardando.
Mi fissa e non distoglie gli occhi dai miei.
È la prima donna con cui arrivo a un simile grado di intimità, se escludiamo la mia povera mamma.
«Perché sono un tipo schivo, solitario.»
Sorride.
«Anche io, sai? La solitudine è rassicurante.»
«Già.»
Continua a guardarmi e a sorridere.
Non so come uscire da questa situazione.
È come se mi stesse studiando.
«Ora devo scappare però, perdonami…»
«Sergio.»
Finalmente libero.
«Perdonami, Sergio. Io sono Futura.»
Brivido.
Mi tende la mano. La stringo con poca convinzione.
«Ti andrebbe se ci vedessimo per un caffè, domani?»
Brivido.
«Domani? Intendi oggi?»
Il sorriso scompare per un attimo dalla faccia di Futura.
Poi la donna scoppia in una sonora risata.
«Nel pomeriggio dovrei riuscire a liberarmi per le cinque, in realtà. Dici di essere schivo, ma bruci le tappe, vedo. Mi lasci il tuo numero? Così ci organizziamo!»
Glielo detto cifra per cifra, le stringo goffamente la mano e mi allontano a grandi falcate.
«Ti faccio uno squillo, così ti salvi il mio!» mi urla dietro.
Esco dal parco e attraverso sulle strisce pedonali con passo svelto.
Il riflesso del mio volto nella vetrina del forno Curini cattura la mia attenzione.
I peli bianchi nella barba ora sono due.
Scoppio in lacrime e mi lascio cadere con le ginocchia sul marciapiede.
Dopo quasi tre mesi di oggi è arrivato domani.
Traccia di mezzogiorno
È successo di giovedì.
No, forse era mercoledì.
Sì, un mercoledì.
Ah, quando ancora contavo i giorni della settimana.
Me lo ricordo come se fosse oggi, perché beh…
Brivido.
Era oggi.
È stato un passaggio rapido.
Penso spesso a cosa sarebbe successo se…
Brivido.
Un passaggio rapido davanti allo specchio del bagno.
Un passo con il piede destro, poi un passo con il piede sinistro.
A invertire il sinistro con il destro non sarebbe cambiato niente.
Di questo ormai sono sicuro.
C’era un bel sole, per essere un pomeriggio di fine ottobre. Un bel sole caldo.
E un raggio ardimentoso ha illuminato la mia figura riflessa.
È stato un attimo. Meno di un attimo. Cosa c’è sotto l’attimo? Esiste qualcosa sotto l’attimo?
L’ho visto con la coda dell’occhio.
Che idiota maledetto sono.
Avrei potuto far finta di niente.
Essere distratto come sempre.
Invece mi sono bloccato, mostrando il profilo della faccia allo specchio.
E ho girato il collo.
All’inizio ho sorriso.
Un piccolo peletto bianco in mezzo a tanti neri.
Mi sono detto: è sintomo di saggezza, sono ormai un uomo che sa il fatto proprio.
Poi è arrivato un pensiero imprevisto, impetuoso come un chiodo nella carne viva: la morte sta arrivando.
Posso sentirne i passi.
Da questo momento in poi è tutto declino, discesa.
Si guarda indietro con nostalgia, sorridendo amaramente ai ricordi.
Cosa c’è davanti?
Cosa si può costruire?
Un matrimonio?
Dei figli?
Tutte cose di cui la gente si lamenta.
E poi, dettaglio non da poco, dovrei prima trovare una persona che voglia farle con me queste cose.
Anche mia madre ha perso le speranze.
Papà mi diceva sempre che là fuori è pieno di pesci, che devo solo tendere la lenza nel punto giusto e lei annuiva, convinta.
Da quando papà è morto, non ha più nulla a cui annuire.
«Buongiorno, signor Tezzulli. Che bel sole per essere fine ottobre. Non trova?»
Mi blocco.
Per un attimo il mio respiro si ferma.
La vena sulla tempia destra comincia a pulsare.
Credo che urlerò.
Mi giro verso sinistra e nel mio campo visivo entra la figura di Dominguèz, il portiere peruviano del condominio.
Sente di aver sbagliato qualcosa, ma evidentemente non capisce cosa, visto che tarda a correggersi.
Le labbra cominciano a tremargli, mentre gli occhi stanno già implorando la mia pietà.
«Non crede?» dico con un filo di voce.
Sulle guance di Dominguèz torna un po’ di colore.
Ha capito.
«Mi scusi, la prego. Ho provato la battuta mille volte nell’ultima mezz’ora e quando l’ho vista, io… Devo aver perso la concentrazione.»
«Dov’è il ghiacciolo all’amarena?» chiedo con voce ancora più bassa. Sto reprimendo la bestia dentro di me che vorrebbe urlare e picchiarlo.
«Le giuro che non succederà mai più. In fondo è una frase. Una stupida e semplice frase.»
Non mi ha sentito. E questo mi fa incazzare di brutto.
«Dov’è il cazzo di ghiacciolo all’amarena, ho detto!» urlo a pieni polmoni.
Lui sbianca di nuovo e indietreggia impaurito.
«Signore, è dicembre. Il negozio dove lo prendo di solito ha terminato le scorte.»
Pensa che mi basti.
Pensa che io possa fargli un tenero sorriso e dire: «Ma tranquillo, carissimo.»
«Hai girato ogni singolo negozio della provincia?»
«No, signore. Il lavoro… Dovevo venire qui e non sapevo se avrei fatto… In tempo» farfuglia cose Dominguèz e io mi incazzo ogni secondo di più.
«Domani non ammetterò errori» dico con tono perentorio ed esco fuori dal portone.
Dominguèz non può sbagliare, perché è la prima persona che incontro al mattino. È come se desse il via al processo. È fondamentale affinché ieri e domani coincidano e si tendano la mano, in un oggi sempre uguale a sé stesso.
L’ho picchiato il giorno che ho deciso di fermare il tempo, perché non voleva aiutarmi. Dire una singola stupida frase e mangiare sempre lo stesso ghiacciolo all’amarena costa troppa fatica al giorno d’oggi, evidentemente.
Mi specchio nella vetrina del forno Curini, come ogni mattina, e sorrido compiaciuto. Il pelo bianco è sempre lì. Quel singolo pelo di quel giorn-
Brivido.
Quel singolo pelo di oggi.
Accelero il passo e, non appena il bus numero trentasei parte per la stazione, attraverso sulle strisce pedonali, quindi taglio per il parco.
È tempo di sedermi sulla panchina di fronte alla fontanella e dedicarmi per cinquantasei minuti al numero 4675 della Settimana Enigmistica del ventotto ottobre duemilaventuno.
Apro a pagina tredici e osservo con attenzione le definizioni orizzontali del cruciverba sillabico.
“È vuota negli insulti”.
Zucca.
So che è “zucca”.
C’è già scritto a matita da ier-
Brivido.
Da oggi.
Cancello con la gomma e lo riscrivo, ripassando perfettamente i segni.
«Non hai freddo?»
Scatto sulla panchina.
Una donna.
Si è seduta vicino a me.
Se non le rispondo, magari andrà via e potrò continuare la ricostruzione dell’oggi senza intoppi.
«Una magliettina di cotone a maniche lunghe a dicembre è da veri duri.»
Ha rincarato la dose.
Cosa faccio?
Si sta avvicinando?
Non voglio voltarmi verso di lei, altrimenti si sentirà autorizzata ad abusare ancora di più della mia compagnia.
Sarà come sottoscrivere un consenso.
«Ma scusa, il cruciverba è già fatto. Che fai, vuoi impararlo a memoria?»
Ride.
Sottolinea le mie stranezze e ride di gusto.
Invece di fuggire a gambe levate si avvicina e si gusta ogni mia stramberia.
«Forse sei muto. Ma io conosco il linguaggio dei segni.»
Continua a parlare a ruota. È incredibile.
Sto sudando freddo perché devo registrare ogni singola frase e ripetere il tutto domani. Magari pagando un’altra donna che la interpreti.
Ma sento di aver già scordato tutto quello che ha detto.
“Non hai freddo?” o “Non fa freddo?”
Qual è stata la prima domanda?
«Scusami ero soprappensiero.»
Le ho risposto.
Perché?
Mi odio.
Ora dovrò ricordare anche quello che ho detto io.
Ricostruire perfettamente il dialogo.
Si può essere più stupidi?
Guardo l’orologio.
Tre minuti oltre i cinquantasei che dovevo dedicare al cruciverba.
Devo rientrare assolutamente in casa e spruzzare il deodorante per ambienti in ogni dove.
Il cadavere di mia madre è in decomposizione e puzza sempre di più ormai. Ma non posso spostarla dal salotto. Andrei a compromettere totalmente la ricostruzione dell’oggi.
Benedetta ignoranza: le ho chiesto di aiutarmi per fermare il tempo e mi ha detto di no.
Io volevo solo tingerle i capelli.
Farle mettere sempre gli stessi vestiti e stabilire un dialogo di poche battute.
Cosa ti costava, mamma?
«Perché non ti ho mai visto qui al parco?»
Io e la donna ci stiamo guardando.
Mi fissa e non distoglie gli occhi dai miei.
È la prima donna con cui arrivo a un simile grado di intimità, se escludiamo la mia povera mamma.
«Perché sono un tipo schivo, solitario.»
Sorride.
«Anche io, sai? La solitudine è rassicurante.»
«Già.»
Continua a guardarmi e a sorridere.
Non so come uscire da questa situazione.
È come se mi stesse studiando.
«Ora devo scappare però, perdonami…»
«Sergio.»
Finalmente libero.
«Perdonami, Sergio. Io sono Futura.»
Brivido.
Mi tende la mano. La stringo con poca convinzione.
«Ti andrebbe se ci vedessimo per un caffè, domani?»
Brivido.
«Domani? Intendi oggi?»
Il sorriso scompare per un attimo dalla faccia di Futura.
Poi la donna scoppia in una sonora risata.
«Nel pomeriggio dovrei riuscire a liberarmi per le cinque, in realtà. Dici di essere schivo, ma bruci le tappe, vedo. Mi lasci il tuo numero? Così ci organizziamo!»
Glielo detto cifra per cifra, le stringo goffamente la mano e mi allontano a grandi falcate.
«Ti faccio uno squillo, così ti salvi il mio!» mi urla dietro.
Esco dal parco e attraverso sulle strisce pedonali con passo svelto.
Il riflesso del mio volto nella vetrina del forno Curini cattura la mia attenzione.
I peli bianchi nella barba ora sono due.
Scoppio in lacrime e mi lascio cadere con le ginocchia sul marciapiede.
Dopo quasi tre mesi di oggi è arrivato domani.