[MI151] Due iris viola, un salice piangente
Posted: Sun May 23, 2021 9:34 pm
Traccia di mezzogiorno
Mi chiedi un racconto che parta dalla fine, ma non saprei dirti se è davvero questa, la fine.
So soltanto che ora sono in macchina, e appena vedo un bar mi fermo e cerco un bagno. Potrebbe essere che mi metta due dita in gola per vomitare, così, solo per provare anche un po' di dolore fisico, oppure che chieda un toast al prosciutto cotto e una coca cola, o magari soltanto un caffè macchiato.
Posso dirti che non più di un'ora fa la bara è stata calata giù, fino in fondo nella fossa, e noi, pochi, che stavamo lì intorno, abbiamo gettato sopra il legno qualche fiore preso dalle corone sparse qua e là.
Ho scelto due iris viola e, prima di lanciarli, li ho baciati a lungo, per pentirmene subito dopo perché c'è chi mi ha guardato come fossi un'attrice del muto, hai presente, quelle che si muovevano come se stessero sempre per accasciarsi a terra, e tutto volevo sembrare tranne una che attira l'attenzione. Il bacio era un saluto, un gesto d'amore, e, a pensarci bene, lo rifarei; andassero a quel paese quelli che pensano male.
Ti dicevo, dunque, che non so se quella di oggi si possa chiamare "fine", visto che i tizi del cimitero hanno detto che tra un paio di mesi si potrà pensare alla lapide; tornerò sicuramente, quindi, per controllare che tutto sia stato fatto a modo e, nel frattempo, avrò scelto come farla, questa lapide. Semplice, questo è certo. Di marmo bianco, con davanti la terra, per poter piantare un po' di verde. Vorrei farci scrivere sopra un versetto dei vangeli, forse Giovanni, qualcosa che faccia capire a chi legge (ma chi legge? era vuoto, oggi, il cimitero) che chi sta lì sotto credeva in Gesù Cristo.
Ecco, e qui ritorno al discorso di prima, quando ti accennavo al fatto che non saprei dirti quale mai possa essere la fine del mio racconto: forse scriverò la parola "fine" quando la lapide sarà stata posizionata? Oppure quando rimuoveranno i resti tra dieci o quindici anni, e le ossa saranno raccolte in una piccola teca? Oppure una fine non c'è, perché forse Dio esiste davvero e l'aver seppellito oggi mia madre è solo un passaggio obbligato per andare da qualche altra parte, come quando in autostrada paghiamo il pedaggio? Ammesso che sia così, mi chiedo comunque quanti anni mi separino dal rivederla e, soprattutto, se siano anni umani o divini.
Poco lontano da dove l'hanno seppellita ho visto un grande salice piangente, e, prima di andarmene, sono passata a controllare di chi ombreggiasse la tomba.
Un ragazzo: un diciottenne, mi pare.
Sullo spazio davanti alla lapide c'era una statua che lo raffigurava mentre calciava il pallone. Davanti era stata sistemata una panchina in legno chiaro e ferro battuto. L'avranno voluta lì i genitori, ne sono certa. Per poter avere la sensazione di guardarlo ancora giocare. E poi c'erano fiori sparsi dappertutto, e qua e là piccoli giochi, scudetti, animali di pezza. Eppure, ho letto, il ragazzo è morto sedici anni fa. Sembrava una tomba vivente, per quanto movimento c'era intorno.
Forse, un giorno, se mai andrò a trovare mia madre, potrò incontrare quei genitori. Forse m'inviteranno a sedere accanto a loro e, come tu ora, mi chiederanno di raccontare la mia storia dalla fine.
In ospedale, due giorni fa, mi hanno fatto andare via subito, nonostante sapessero che mamma aveva solo me, e non ci sarebbe stata la fila di parenti. Avrebbero potuto lasciarmi un po' sola con lei, visto che quando è morta, due ore prima che arrivassi, non c'ero.
Di tre mesi di ricovero ricordo l'attesa fuori della terapia intensiva: tutti seduti davanti a quella porta che non s'apriva mai.
Eppure, quando è entrata in ospedale non c'era urgenza, sembrava una cosa da poco. Non so quante volte ho pensato a Buzzati, al suo racconto Sette piani, hai presente? Mi era odioso parlare ogni giorno con quei maledetti medici, che volevano sembrare tutti Dio sceso in terra, e a noi che aspettavamo da loro una parola di speranza dicevano ogni volta "ma che venite a fare, se ci sono novità vi chiamiamo".
Forse speranze non ce n'erano neppure quando stava su al reparto, forse sono io che non ho capito niente dall'inizio. Ma almeno lì mi guardava, si muoveva. Mi aveva anche chiesto i quotidiani e la "Settimana enigmistica", quindi tanto male non poteva stare.
Ci si è messa di mezzo l'età, mi hanno detto. E io voglio crederci. Se capita che per un'appendicite muoia un bambino, e so che accade, a maggior ragione è possibile che non ce la faccia una donna anziana.
Se penso che quando è stata ricoverata ero in trasferta, e ha chiamato da sola l'ambulanza, mi convinco che è stata davvero una donna eccezionale. Far nascere una figlia da sola, in Sicilia, con addosso le maldicenze di tutti, e poi venire a Torino, senza una lira, e lavorare tutta la vita solo per farmi studiare.
Vorrei cercare di ricordare l'inizio di tutta questa storia, che per me coincide con l'ultima volta che l'ho vista davvero felice.
Sì, ecco, mi sono ricordata. Non la laurea, e neppure quando m'hanno assunta al giornale. Meno che mai quando le presentavo i miei fidanzati.
Dunque, avrò avuto dieci, undici anni, e mi ero accorta che il giorno dopo sarebbe scaduto il termine per spedire i bollini ritagliati dalle fette biscottate con cui facevo colazione. Come premio avevo scelto uno strano pupazzetto, alto una trentina di centimetri, che nascondeva dentro matite colorate, gomme da cancellare di tutte le forme e blocchetti di carta. Mi piaceva da matti, ma i bollini non bastavano.
Mia madre mi vide così triste che mi portò di corsa al supermercato e lì, anche se i soldi non bastavano mai, comprammo insieme una montagna di prodotti della stessa marca delle fette biscottate.
La sera ritagliammo tutti i bollini, e la mattina dopo lei spedì la busta.
Ecco, sì. Quel pupazzetto, si può dire, è stato l'inizio.
(Boa: "non", "aveva")
Mi chiedi un racconto che parta dalla fine, ma non saprei dirti se è davvero questa, la fine.
So soltanto che ora sono in macchina, e appena vedo un bar mi fermo e cerco un bagno. Potrebbe essere che mi metta due dita in gola per vomitare, così, solo per provare anche un po' di dolore fisico, oppure che chieda un toast al prosciutto cotto e una coca cola, o magari soltanto un caffè macchiato.
Posso dirti che non più di un'ora fa la bara è stata calata giù, fino in fondo nella fossa, e noi, pochi, che stavamo lì intorno, abbiamo gettato sopra il legno qualche fiore preso dalle corone sparse qua e là.
Ho scelto due iris viola e, prima di lanciarli, li ho baciati a lungo, per pentirmene subito dopo perché c'è chi mi ha guardato come fossi un'attrice del muto, hai presente, quelle che si muovevano come se stessero sempre per accasciarsi a terra, e tutto volevo sembrare tranne una che attira l'attenzione. Il bacio era un saluto, un gesto d'amore, e, a pensarci bene, lo rifarei; andassero a quel paese quelli che pensano male.
Ti dicevo, dunque, che non so se quella di oggi si possa chiamare "fine", visto che i tizi del cimitero hanno detto che tra un paio di mesi si potrà pensare alla lapide; tornerò sicuramente, quindi, per controllare che tutto sia stato fatto a modo e, nel frattempo, avrò scelto come farla, questa lapide. Semplice, questo è certo. Di marmo bianco, con davanti la terra, per poter piantare un po' di verde. Vorrei farci scrivere sopra un versetto dei vangeli, forse Giovanni, qualcosa che faccia capire a chi legge (ma chi legge? era vuoto, oggi, il cimitero) che chi sta lì sotto credeva in Gesù Cristo.
Ecco, e qui ritorno al discorso di prima, quando ti accennavo al fatto che non saprei dirti quale mai possa essere la fine del mio racconto: forse scriverò la parola "fine" quando la lapide sarà stata posizionata? Oppure quando rimuoveranno i resti tra dieci o quindici anni, e le ossa saranno raccolte in una piccola teca? Oppure una fine non c'è, perché forse Dio esiste davvero e l'aver seppellito oggi mia madre è solo un passaggio obbligato per andare da qualche altra parte, come quando in autostrada paghiamo il pedaggio? Ammesso che sia così, mi chiedo comunque quanti anni mi separino dal rivederla e, soprattutto, se siano anni umani o divini.
Poco lontano da dove l'hanno seppellita ho visto un grande salice piangente, e, prima di andarmene, sono passata a controllare di chi ombreggiasse la tomba.
Un ragazzo: un diciottenne, mi pare.
Sullo spazio davanti alla lapide c'era una statua che lo raffigurava mentre calciava il pallone. Davanti era stata sistemata una panchina in legno chiaro e ferro battuto. L'avranno voluta lì i genitori, ne sono certa. Per poter avere la sensazione di guardarlo ancora giocare. E poi c'erano fiori sparsi dappertutto, e qua e là piccoli giochi, scudetti, animali di pezza. Eppure, ho letto, il ragazzo è morto sedici anni fa. Sembrava una tomba vivente, per quanto movimento c'era intorno.
Forse, un giorno, se mai andrò a trovare mia madre, potrò incontrare quei genitori. Forse m'inviteranno a sedere accanto a loro e, come tu ora, mi chiederanno di raccontare la mia storia dalla fine.
In ospedale, due giorni fa, mi hanno fatto andare via subito, nonostante sapessero che mamma aveva solo me, e non ci sarebbe stata la fila di parenti. Avrebbero potuto lasciarmi un po' sola con lei, visto che quando è morta, due ore prima che arrivassi, non c'ero.
Di tre mesi di ricovero ricordo l'attesa fuori della terapia intensiva: tutti seduti davanti a quella porta che non s'apriva mai.
Eppure, quando è entrata in ospedale non c'era urgenza, sembrava una cosa da poco. Non so quante volte ho pensato a Buzzati, al suo racconto Sette piani, hai presente? Mi era odioso parlare ogni giorno con quei maledetti medici, che volevano sembrare tutti Dio sceso in terra, e a noi che aspettavamo da loro una parola di speranza dicevano ogni volta "ma che venite a fare, se ci sono novità vi chiamiamo".
Forse speranze non ce n'erano neppure quando stava su al reparto, forse sono io che non ho capito niente dall'inizio. Ma almeno lì mi guardava, si muoveva. Mi aveva anche chiesto i quotidiani e la "Settimana enigmistica", quindi tanto male non poteva stare.
Ci si è messa di mezzo l'età, mi hanno detto. E io voglio crederci. Se capita che per un'appendicite muoia un bambino, e so che accade, a maggior ragione è possibile che non ce la faccia una donna anziana.
Se penso che quando è stata ricoverata ero in trasferta, e ha chiamato da sola l'ambulanza, mi convinco che è stata davvero una donna eccezionale. Far nascere una figlia da sola, in Sicilia, con addosso le maldicenze di tutti, e poi venire a Torino, senza una lira, e lavorare tutta la vita solo per farmi studiare.
Vorrei cercare di ricordare l'inizio di tutta questa storia, che per me coincide con l'ultima volta che l'ho vista davvero felice.
Sì, ecco, mi sono ricordata. Non la laurea, e neppure quando m'hanno assunta al giornale. Meno che mai quando le presentavo i miei fidanzati.
Dunque, avrò avuto dieci, undici anni, e mi ero accorta che il giorno dopo sarebbe scaduto il termine per spedire i bollini ritagliati dalle fette biscottate con cui facevo colazione. Come premio avevo scelto uno strano pupazzetto, alto una trentina di centimetri, che nascondeva dentro matite colorate, gomme da cancellare di tutte le forme e blocchetti di carta. Mi piaceva da matti, ma i bollini non bastavano.
Mia madre mi vide così triste che mi portò di corsa al supermercato e lì, anche se i soldi non bastavano mai, comprammo insieme una montagna di prodotti della stessa marca delle fette biscottate.
La sera ritagliammo tutti i bollini, e la mattina dopo lei spedì la busta.
Ecco, sì. Quel pupazzetto, si può dire, è stato l'inizio.
(Boa: "non", "aveva")