[MI151] Doni
Posted: Sun May 23, 2021 9:10 pm
Traccia di Mezzogiorno: "A rebours"
Boa - Palindromo "avallava"
Oh! Che luogo strano, ho una forma diversa e sono… instabile, in un modo che mi è insostenibile. Ma non sono io, ho delle propaggini che terminano in altre più piccole. Sembrano fragili, appena imbottite. Picchiettano sulla superficie di un ripiano che ho davanti. Sono dentro a una guerra di sensazioni che non conoscevo. Non sono solo qui dentro, c’è una Presenza, determinata, che non si ferma, si gonfia e sgonfia a ritmo costante… Perché risucchia ed espelle aria in continuazione? L’aria a cui ero abituato io era statica, talvolta qualche piccolo refolo mi portava in dono granelli di mondo.
Mi è tutto nuovo, anche questo mio esprimermi a cui non ho mai avuto accesso, Lei dice che mi sta personificando, condivide con me il suo pensiero, quindi sono.
Davanti vedo un vetro scuro da cui emerge un testo che, mi dice, parla di me, e sbiadita, sullo sfondo grigio, fluttua l’immagine di come sembro adesso; ma le parole sono scritte al contrario. Io lo so che è così, ne ho riflesse di scritte nella mia esistenza.
Si muove tutto, che impressione. La Presenza mi spiega che è una vertigine. Ero così stabile prima. Io, Specchio, come sono finito dentro questo involucro molle e poliforme che Lei chiama corpo?
Ricordo che in ogni parte di me era riflesso il cielo, ero tanti me, più piccoli e i gabbiani ci attraversavano tutti, seguendo rotte circolari. Lo schianto era stato tremendo: incorniciato in legni tarlati, ero stato divelto, perdendo tutti i doni del vento in un solo colpo. Nessuno aveva protetto il mio primo volo, mentre cadevo da quel nido. “Gravità” mi suggerisce la Presenza. “Sì, è stato grave” convengo.
Ricordo la mia unità mentre venivo rinchiuso in quell’atroce contenitore basculante e buio, percosso da altri come me. Ero ampio. “Eri incassato in una credenza” mi spiega Lei. Ogni giorno ricerco dentro di me l’ombra di quei volti che avevano chiuso il portellone. Chi mi aveva fatto questo? E mi accorgo che uno è suo, della Presenza che, pur sfumata, ora riconosco.
Non comprendo le ragioni di questa crisalide di pelle vivente che ora mi contiene, qual è il suo scopo. Non posso più riprodurre il mondo come solevo fare, la seguivo ogni volta che si presentava, sempre fedele, l’accompagnavo fino al mio limitare.
Raddoppiavo il suo mondo perché non si sentisse oppressa e la vedevo mutare. Mi presentava a degli sconosciuti tessendo le mie lodi, ma poi nessuno tornava a trovarmi. Lei mi guardava e diceva: “Non sei piaciuto”. Forse per via di quelle mie prime macchie e quegli aloni, che non venivano via anche se ero sempre lucido.
Era mesta quando siringava i miei legni e tappava i buchi dei tarli. Pareva delusa dalle piaghe del mio tempo. Nei giorni d’inverno, quando il periodo di festa le rimescolava tristi pensieri, mi si fermava davanti e ammirava la mia stanza, addobbata e colorata quanto la sua; ma nella mia, forse, cercava più sorprese.
Sorrideva e ondeggiava come una spiga di grano sotto al sole d’estate e, corrucciata, sbuffava quando da giovane qualcuno le diceva che mi doveva spolverare. L’ho vista sognare, studiare e da piccola giocare. Con un gattino, in due mi venivano a graffiare.
Tanto tempo avevo sperato con lei di abitare, perché portava la luce che volevo specchiare. Avrei voluto seguirla ovunque, come avevo fatto con i suoi genitori e, ancor prima, con i suoi nonni. Ricordo sua madre, con lei neonata, posare per una foto e, in segno di benvenuto, un raggio di sole su di loro feci deviare.
Quanto testo mi scorre davanti, in senso contrario e capovolto, non possiamo proprio intenderci, ora lo capisco. Siamo uno il rovescio dell’altra, ecco perché questa distanza, ecco perché le nostre strade si sono divise.
Ma la vita che ho riflesso è ben più varia di quanto ho fin qui ricordato. Ricalcavo le vite di molti senza tuttavia mai compenetrarle, mi riempivo e poi mi svuotavo, senza mai liberarmi del tutto. Contenevo sempre qualcosa, per qualcuno anche solo il malinconico ricordo del riflesso di una persona cara. Ero sempre pieno d’attesa verso ciò che sarebbe apparso.
Ricordo certe vecchie stanze, nell’ombra, qualcuno alla finestra, di nascosto a scrutare. Vecchi malconci, soli e dai movimenti maldestri. Ricordo donne solerti con le carni da frollare, cacciagioni sparpagliate sul tavolo e bambini intenti a spennare. Donne in crinoline con uniformi da rammendare. Stanze di silenzi e di attese. Stanze di partenze, senza ritorno, di soldati, fuggiaschi o innamorati. Rifletto ancora l’ombra di un abbraccio, un bacio o una carezza, così come di uno schiaffo, una spinta e di mille maleparole. Non un rifiuto, mai sono retrocesso, davanti a uno scoppio d’ira o al suo tramonto. Ogni mia lamina avallava l’anima scura della schiera umana.
Ricordo il mio primo viaggio, la partenza da quella prima stanza. Rifletto ancora nella memoria la nostalgia più grande, della mano che mi creò e che mi rese così importante. Con quale orgoglio mi incastonò nel nido di legno, che più non ho.
E ancora mi scompongo e mi ricordo materia prima. Sono argento, di mano in mano trattato, prima ancora lavorato, separato dal piombo con cui riposavo abbracciato. Ero un minerale e da una miniera fui prelevato. Non ero uno specchio, ero la terra che qualcuno ha scavato. Ti lascio, Presenza, a questo vetro in cui mi hai richiamato. Riprenditi il tuo pensiero, ormai me ne sono andato, anzi no, alla terra sono tornato.
Boa - Palindromo "avallava"
Oh! Che luogo strano, ho una forma diversa e sono… instabile, in un modo che mi è insostenibile. Ma non sono io, ho delle propaggini che terminano in altre più piccole. Sembrano fragili, appena imbottite. Picchiettano sulla superficie di un ripiano che ho davanti. Sono dentro a una guerra di sensazioni che non conoscevo. Non sono solo qui dentro, c’è una Presenza, determinata, che non si ferma, si gonfia e sgonfia a ritmo costante… Perché risucchia ed espelle aria in continuazione? L’aria a cui ero abituato io era statica, talvolta qualche piccolo refolo mi portava in dono granelli di mondo.
Mi è tutto nuovo, anche questo mio esprimermi a cui non ho mai avuto accesso, Lei dice che mi sta personificando, condivide con me il suo pensiero, quindi sono.
Davanti vedo un vetro scuro da cui emerge un testo che, mi dice, parla di me, e sbiadita, sullo sfondo grigio, fluttua l’immagine di come sembro adesso; ma le parole sono scritte al contrario. Io lo so che è così, ne ho riflesse di scritte nella mia esistenza.
Si muove tutto, che impressione. La Presenza mi spiega che è una vertigine. Ero così stabile prima. Io, Specchio, come sono finito dentro questo involucro molle e poliforme che Lei chiama corpo?
Ricordo che in ogni parte di me era riflesso il cielo, ero tanti me, più piccoli e i gabbiani ci attraversavano tutti, seguendo rotte circolari. Lo schianto era stato tremendo: incorniciato in legni tarlati, ero stato divelto, perdendo tutti i doni del vento in un solo colpo. Nessuno aveva protetto il mio primo volo, mentre cadevo da quel nido. “Gravità” mi suggerisce la Presenza. “Sì, è stato grave” convengo.
Ricordo la mia unità mentre venivo rinchiuso in quell’atroce contenitore basculante e buio, percosso da altri come me. Ero ampio. “Eri incassato in una credenza” mi spiega Lei. Ogni giorno ricerco dentro di me l’ombra di quei volti che avevano chiuso il portellone. Chi mi aveva fatto questo? E mi accorgo che uno è suo, della Presenza che, pur sfumata, ora riconosco.
Non comprendo le ragioni di questa crisalide di pelle vivente che ora mi contiene, qual è il suo scopo. Non posso più riprodurre il mondo come solevo fare, la seguivo ogni volta che si presentava, sempre fedele, l’accompagnavo fino al mio limitare.
Raddoppiavo il suo mondo perché non si sentisse oppressa e la vedevo mutare. Mi presentava a degli sconosciuti tessendo le mie lodi, ma poi nessuno tornava a trovarmi. Lei mi guardava e diceva: “Non sei piaciuto”. Forse per via di quelle mie prime macchie e quegli aloni, che non venivano via anche se ero sempre lucido.
Era mesta quando siringava i miei legni e tappava i buchi dei tarli. Pareva delusa dalle piaghe del mio tempo. Nei giorni d’inverno, quando il periodo di festa le rimescolava tristi pensieri, mi si fermava davanti e ammirava la mia stanza, addobbata e colorata quanto la sua; ma nella mia, forse, cercava più sorprese.
Sorrideva e ondeggiava come una spiga di grano sotto al sole d’estate e, corrucciata, sbuffava quando da giovane qualcuno le diceva che mi doveva spolverare. L’ho vista sognare, studiare e da piccola giocare. Con un gattino, in due mi venivano a graffiare.
Tanto tempo avevo sperato con lei di abitare, perché portava la luce che volevo specchiare. Avrei voluto seguirla ovunque, come avevo fatto con i suoi genitori e, ancor prima, con i suoi nonni. Ricordo sua madre, con lei neonata, posare per una foto e, in segno di benvenuto, un raggio di sole su di loro feci deviare.
Quanto testo mi scorre davanti, in senso contrario e capovolto, non possiamo proprio intenderci, ora lo capisco. Siamo uno il rovescio dell’altra, ecco perché questa distanza, ecco perché le nostre strade si sono divise.
Ma la vita che ho riflesso è ben più varia di quanto ho fin qui ricordato. Ricalcavo le vite di molti senza tuttavia mai compenetrarle, mi riempivo e poi mi svuotavo, senza mai liberarmi del tutto. Contenevo sempre qualcosa, per qualcuno anche solo il malinconico ricordo del riflesso di una persona cara. Ero sempre pieno d’attesa verso ciò che sarebbe apparso.
Ricordo certe vecchie stanze, nell’ombra, qualcuno alla finestra, di nascosto a scrutare. Vecchi malconci, soli e dai movimenti maldestri. Ricordo donne solerti con le carni da frollare, cacciagioni sparpagliate sul tavolo e bambini intenti a spennare. Donne in crinoline con uniformi da rammendare. Stanze di silenzi e di attese. Stanze di partenze, senza ritorno, di soldati, fuggiaschi o innamorati. Rifletto ancora l’ombra di un abbraccio, un bacio o una carezza, così come di uno schiaffo, una spinta e di mille maleparole. Non un rifiuto, mai sono retrocesso, davanti a uno scoppio d’ira o al suo tramonto. Ogni mia lamina avallava l’anima scura della schiera umana.
Ricordo il mio primo viaggio, la partenza da quella prima stanza. Rifletto ancora nella memoria la nostalgia più grande, della mano che mi creò e che mi rese così importante. Con quale orgoglio mi incastonò nel nido di legno, che più non ho.
E ancora mi scompongo e mi ricordo materia prima. Sono argento, di mano in mano trattato, prima ancora lavorato, separato dal piombo con cui riposavo abbracciato. Ero un minerale e da una miniera fui prelevato. Non ero uno specchio, ero la terra che qualcuno ha scavato. Ti lascio, Presenza, a questo vetro in cui mi hai richiamato. Riprenditi il tuo pensiero, ormai me ne sono andato, anzi no, alla terra sono tornato.