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palindromo
Sopra il tavolo della stanza di servizio il sergente maggiore Alessandro Beneiras mise la sua pistola d’ordinanza, estraendola dalla fondina di canapa e staccandola dal correggiolo appeso al collo.
-Finirà tutto molto presto- pensava.
Perché doveva finire così? Sapeva che si sarebbe distratto, che i pensieri lo avrebbero avvolto facendogli male. Ma la notte era giovane come dice l’allegria della vita, aveva appena eseguito il cambio della guardia e l’ispezione. Nessuno lo avrebbe disturbato fino alla sveglia, era solo. Ma era sempre stato solo. Avvicinò la pistola sotto il mento. Bella, nera, lucida, perfettamente oliata, inspirò a occhi chiusi l’odore del solvente, inebriante come il mosto in autunno. Doveva solo premere il grilletto. Rimise l’arma sul tavolo. Passò il dito sul manico zigrinato, piacevole al tatto. Lesse in un angolo la scritta: 1937 – XV E.F.
La guerra era finita da settanta anni, ma il loro scalcinato esercito aveva ancora quelle vecchie pistole, chissà a chi era appartenuta la sua, chissà quanto aveva sparato, forse ucciso. Ma certo non aveva ucciso chi la possedeva. Dicevano che c’era sempre una prima volta: le chiacchiere al caffè, al dopopranzo, il fumo della sala biliardo, l’angolo dei giornali…
Dalla finestra della sua stanza entrava una luce gialla, quella dell’androne che dava al corpo di guardia. Rumori attutiti dalla notte, gracidare di rane, il canto di un cuculo. Era indeciso se aspettare il prossimo cambio; i soldati insonnoliti con in bocca il gusto del caffè che si sarebbero preparati a rilevare i loro colleghi avrebbero sentito il colpo, si sarebbero precipitati da lui; forse avrebbe fatto in tempo a vederne qualcuno attraverso la nebbia della morte. Forse.
Ci teneva? Aveva paura, voleva calore umano? Nostalgia? Di cosa? Sarebbe stato lo stesso se fosse rimasto a casa a zappare nella sua isola di pietra e di mare anziché venire a morire ai confini d’Italia? Era sudato nonostante fosse inverno. Si allentò il fazzoletto al collo, con i colori neri e viola del suo battaglione. Guardò la bottiglia d’acqua. Bevve con avida disperazione. E acqua gli venne in mente, non solo del suo mare lontano ma di quella palude vicina a Venezia, intorno a quell’isolotto di conchiglie bianche dove andavano a sparare… Quanto era bello quel posto però, anche se non c’era niente, solo colline di conchiglie che odoravano di sole. Non era un pittore, avrebbe voluto esserlo, come tante altre cose in cui non era riuscito, ma aveva guardato con stupore tutte quelle divise verdi sopra il bianco delle conchiglie, una strana voluttà nel sentirne il crocchiare sotto gli scarponi e poi… E poi che bisogno c’era di aiutare Martinat ad attraversare quel piccolo guado?
Martinat, che lavorava con lui nel magazzino vestiario, che non vedeva l’ora di tornare a casa, che non capiva perché si trovava in divisa e che nonostante tutto rideva ancora come un bambino.
Era bello parlare con lui, anche in quello stanzone dalle pareti bianche piene di impronte di scarponi, calci dati con rabbia da generazioni di soldati in mezzo a montagne di coperte e alla puzza di naftalina.
Poi Martinat si era fatto degli amici. Ma andava bene. Poi era passato ai colleghi di Alessandro Beneiras e questo non andava bene. La mattina tornava con le occhiaie e Alessandro sapeva perché, non riusciva a dormire al pensiero e provava fastidio nel sentire i consigli di qualche collega anziano che gli diceva ridendo sotto i baffi di farsi una vita fuori dalla caserma.
Ma Alessandro non ci riusciva, non poteva, forse non voleva. Aveva paura e allo stesso tempo era affascinato all’idea che quella caserma in mezzo ai campi di granoturco, ai lati d’Italia, fosse diventata il suo mondo per sempre e che per lui ci fosse un solo modo per lasciarla. Quando Alessandro aveva visto il sergente maggiore Deneis attraversare il guado dell’isola delle conchiglie mettendosi a cavalcioni Martinat, quando li aveva visti ridere tutti e due di gioia senza nemmeno guardarlo mentre passavano, allora si era convinto che non sarebbe mai stato felice, che era in più nel mondo, incapace, oggetto di fastidio; che il regno dell’ordine dove lavorava, lo stanzone imbiancato a calce con l’odore di naftalina non era un mondo piacevole.
Poi aveva trovato Martinat che fumava con altri soldati, nascosti dietro i rottami di un barchino arrugginito. Fumavano e ridevano in quell’odore di incenso che sprigiona l’hashish. Alessandro guardava Martinat, come a chiedergli perché. Ed era comparso Deneis, che fumava anche lui.
-Gliel’ho fatta io la sigaretta- aveva detto con un ghigno cattivo. –Volevi essere tu a farla?- Poi si era avvicinato ad Alessandro e soffiandogli fumo nell’orecchio aveva sussurrato
-E volevi essere tu a mischiare la tua saliva con la sua? Perché non lo hai fatto tu?- E rideva. Ed era perfetto, assolutamente perfetto e l’unico fuori posto, fuori del mondo era lui, Alessandro Beneiras.
Non si poteva risolvere. O forse si, ma in quel mondo circoscritto sarebbe scoppiato il caos. Alessandro non amava, temeva il caos. Era ancora giovane, era scapolo, poteva dare le dimissioni, andarsene all’altro capo del mondo… Ma le rate da pagare, i debiti non tanto suoi ma della famiglia, come fare? No, abbandonare tutto no, per così poco poi? Avrebbe avuto un altro soldato magazziniere, qualcuno con cui passare le sue giornate, parlare, sorridere, sognare e forse… Forse l’inimmaginabile che tormentava i giorni e le notti insonni di Alessandro. Non succedeva mai, non era mai successo, ma il pensiero lo manteneva vivo, febbrilmente vivo. Ma era già morto, lo sapeva bene. Il rituale quotidiano di quella maledetta caserma lo teneva in vita, gli diceva cosa fare in ogni momento, tutto era già scritto, dattilografato, firmato e timbrato. In fondo era più comodo vivere così, giorno dopo giorno, sempre uguale. C’era un motivo, un ordine. E il suo tormento.
Però Martinat non lo voleva più nel suo magazzino. Gli avrebbero dato un altro soldato, era naturale con i periodici congedamenti e avvicendamenti degli scaglioni dei militari di leva. Ma non sarebbe stato lo stesso. Perché? Non voleva confessarlo nemmeno a se stesso il perché, ma Alessandro lo sapeva bene. Si era anche inventato e imposto due regole da un po’ di tempo, che contribuivano a mettere ordine nel tortuoso labirinto della sua mente assetata di vita e piena di disperazione.
Primo: Ricominciare tutto da capo. Sapeva che sarebbe avvenuto anche senza il suo intervento, tutto era già scritto…
Secondo: Non ce la faccio. Semplice. Definitivo.
E l’idea di come andarsene da tutto e da tutti gli venne passando davanti all’armeria, con i forti odori dei solventi per pulire le armi e degli oli per lubrificarle che emanavano un odore stordente, come il mosto d’autunno della sua infanzia perduta. Leggere nebbie che avvolgevano le case fino al mare, rumori ovattati nel mattino, salite di strade di pietra del suo paese, odori di fumo dai camini, risate di uomini e donne felici.
Ritornare al mosto d’autunno.