Traccia di mezzogiorno: La maledizione delle piccole cose
Resti a pensarci un po’ su, poi mi fai: «Vivitela più alla leggera. Sai cosa diceva Oscar Wild? Solo i superficiali sanno essere veramente profondi». Mi dai una pacca sulla spalla, come fanno gli amici più grandi.
Che hai ragione lo so. Non si può rimanere sempre con la testa negli abissi, ci si perde. Ma è un po’ come dire a uno che ha ottima vista: «Quelle nuvole all’orizzonte… non vederle».
«Ciao», aveva sussurrato Martina, qualche giorno prima, e mi aveva sorriso. Indossava un giubbottino nero di pelle molto fico, e i jeans attillati non lasciavano alcun dubbio: voleva che le guardassi il sedere.
Non c’ero più abituato. Il vitino magro con l’ombelico scoperto, le natiche sode e ben fatte. Non posavo gli occhi su un corpo ventenne da quindici anni almeno, non mi sembrava vero che di lì a poco avrei potuto poggiarvi le mani.
«Ciao», le avevo fatto, nel mio outfit da avvocato, e avevo disteso il braccio a indicarle la direzione del bar.
È successo in quell’attimo: l’angolo sinistro della bocca le ha ceduto. Poi è tornato a ricomporre una coppia di ali spiegate.
Non ti rimprovererò mai abbastanza per non aver mai letto L‘insostenibile leggerezza dell’essere. L’avessi fatto, adesso, spiegarmi sarebbe più semplice.
«Succede appena all’inizio del libro», ti dico, «quindi non ti rivelo nulla, o almeno non troppo. Tereza piomba, valige in mano, a casa di Tomáš. Fanno l’amore. Lei, durante il viaggio, ha preso freddo; di sera, le sale la febbre. Tomáš non se la sente di mandarla via, e contravviene a una propria regola personale: non lasciar mai che le sue amanti si trattengano a dormire da lui».
Mi guardi come fai a volte con tua figlia, quando storpia i nomi delle cose. «Ma se non conosci, non dico il colore dei suoi capezzoli, ma nemmeno quello del reggiseno!», dici.
Non c’entra nulla con quello che volevo dire.
Abbiamo imboccato il vicolo che dal centro porta verso il parchetto. Non ricordo cosa le ho detto, prima di raggiungere il tavolino all’aperto e sederci, ma sono sicuro di aver parlato, per evitarle quei venti metri di imbarazzo. Senz’altro parole in automatico, tipo: «Hai avuto difficoltà a raggiungere il posto? Ci sei mai stata prima?».
Nel frattempo ragionavo. Venti metri di cammino possono contenere centinaia di pensieri.
«Dall’appartamento di Tomáš, Tereza non esce più. Lui ha davanti agli occhi l’immagine di un bambino messo da qualcuno in una cesta, e affidato alla corrente del fiume...».
Inizi a capire, perché il tuo sguardo adesso è più serio.
Quando una bocca si contorce solo da un lato forma la “S” di: “Stavolta?”. È una lettera che fa a cazzotti con un giubbotto di pelle.
La immagino meno camuffata, in giacca di jeans e con lo sguardo impaurito: è così che deve essersi presentata, in passato, agli appuntamenti. Poi, tornando in macchina a casa dai genitori, quei genitori con cui non va d’accordo e che non l’abbracciano mai, avrà incurvato le spalle sul volante.
Mi ha seguito restando un passo indietro, perché le facessi da frangiflutti contro la realtà che avanza. Arrendevole allo schianto, nel caso mi fossi scostato.
Due caffè non sono che due caffè: non possono nuocere più di tanto, nemmeno a poggiarci su una sigaretta. Eppure, a sera, le avrà fatto male la faccia, a furia di tener su le guance.
Io stavo comodo e caldo, col mio giubbotto antivento blu elettrico e la sciarpa a quadri scozzesi attorno al collo.
«“Non si può certo lasciare che una cesta con dentro un bambino vada alla deriva sulle acque agitate di un fiume!”, si dice Tomáš. Questo è l’incipit. Il resto non te lo dico; leggilo, una buona volta».
Spegni la sigaretta sotto il getto del rubinetto, ti volti, guardi un po’ il soffitto e poi mi fai: «Ok, giochiamo a questo gioco. Avessi scritto io la storia, potrebbe proseguire in due modi. Anzi, in tre. Tomáš potrebbe spaventarsi e cacciar via Tereza, e sarebbe un romanzo di rimpianti. Oppure potrebbe tenerla con sé, ma senza rinunciare alle sue amanti, così da renderla infelice: sarebbe un romanzo sulla differenza tra l’attrazione erotica e il senso del dovere e di protezione. Oppure, ancora, agli occhi di Tomáš, imbattersi in un bambino in balia dei flutti potrebbe rappresentare un segno divino. Non a caso l’immagine è mitologica. Lui allora non potrebbe che arrendersi e farsi carico di quell’amore».
«Beh, con una delle tre ci hai preso. Più o meno», ti rispondo.
«Il punto è: tu mica ti chiami Tomáš!».
Abbiamo preso posto. Ho ordinato i nostri due caffè.
«Cosicché, eccoci qui», ho detto.
«Già», ha fatto Martina.
Le ho sorriso. Ci siamo guardati per la prima volta in faccia.
«…Ciao».
«…Ciao».
Che hai ragione lo so. Non si può rimanere sempre con la testa negli abissi, ci si perde. Ma è un po’ come dire a uno che ha ottima vista: «Quelle nuvole all’orizzonte… non vederle».
«Ciao», aveva sussurrato Martina, qualche giorno prima, e mi aveva sorriso. Indossava un giubbottino nero di pelle molto fico, e i jeans attillati non lasciavano alcun dubbio: voleva che le guardassi il sedere.
Non c’ero più abituato. Il vitino magro con l’ombelico scoperto, le natiche sode e ben fatte. Non posavo gli occhi su un corpo ventenne da quindici anni almeno, non mi sembrava vero che di lì a poco avrei potuto poggiarvi le mani.
«Ciao», le avevo fatto, nel mio outfit da avvocato, e avevo disteso il braccio a indicarle la direzione del bar.
È successo in quell’attimo: l’angolo sinistro della bocca le ha ceduto. Poi è tornato a ricomporre una coppia di ali spiegate.
Non ti rimprovererò mai abbastanza per non aver mai letto L‘insostenibile leggerezza dell’essere. L’avessi fatto, adesso, spiegarmi sarebbe più semplice.
«Succede appena all’inizio del libro», ti dico, «quindi non ti rivelo nulla, o almeno non troppo. Tereza piomba, valige in mano, a casa di Tomáš. Fanno l’amore. Lei, durante il viaggio, ha preso freddo; di sera, le sale la febbre. Tomáš non se la sente di mandarla via, e contravviene a una propria regola personale: non lasciar mai che le sue amanti si trattengano a dormire da lui».
Mi guardi come fai a volte con tua figlia, quando storpia i nomi delle cose. «Ma se non conosci, non dico il colore dei suoi capezzoli, ma nemmeno quello del reggiseno!», dici.
Non c’entra nulla con quello che volevo dire.
Abbiamo imboccato il vicolo che dal centro porta verso il parchetto. Non ricordo cosa le ho detto, prima di raggiungere il tavolino all’aperto e sederci, ma sono sicuro di aver parlato, per evitarle quei venti metri di imbarazzo. Senz’altro parole in automatico, tipo: «Hai avuto difficoltà a raggiungere il posto? Ci sei mai stata prima?».
Nel frattempo ragionavo. Venti metri di cammino possono contenere centinaia di pensieri.
«Dall’appartamento di Tomáš, Tereza non esce più. Lui ha davanti agli occhi l’immagine di un bambino messo da qualcuno in una cesta, e affidato alla corrente del fiume...».
Inizi a capire, perché il tuo sguardo adesso è più serio.
Quando una bocca si contorce solo da un lato forma la “S” di: “Stavolta?”. È una lettera che fa a cazzotti con un giubbotto di pelle.
La immagino meno camuffata, in giacca di jeans e con lo sguardo impaurito: è così che deve essersi presentata, in passato, agli appuntamenti. Poi, tornando in macchina a casa dai genitori, quei genitori con cui non va d’accordo e che non l’abbracciano mai, avrà incurvato le spalle sul volante.
Mi ha seguito restando un passo indietro, perché le facessi da frangiflutti contro la realtà che avanza. Arrendevole allo schianto, nel caso mi fossi scostato.
Due caffè non sono che due caffè: non possono nuocere più di tanto, nemmeno a poggiarci su una sigaretta. Eppure, a sera, le avrà fatto male la faccia, a furia di tener su le guance.
Io stavo comodo e caldo, col mio giubbotto antivento blu elettrico e la sciarpa a quadri scozzesi attorno al collo.
«“Non si può certo lasciare che una cesta con dentro un bambino vada alla deriva sulle acque agitate di un fiume!”, si dice Tomáš. Questo è l’incipit. Il resto non te lo dico; leggilo, una buona volta».
Spegni la sigaretta sotto il getto del rubinetto, ti volti, guardi un po’ il soffitto e poi mi fai: «Ok, giochiamo a questo gioco. Avessi scritto io la storia, potrebbe proseguire in due modi. Anzi, in tre. Tomáš potrebbe spaventarsi e cacciar via Tereza, e sarebbe un romanzo di rimpianti. Oppure potrebbe tenerla con sé, ma senza rinunciare alle sue amanti, così da renderla infelice: sarebbe un romanzo sulla differenza tra l’attrazione erotica e il senso del dovere e di protezione. Oppure, ancora, agli occhi di Tomáš, imbattersi in un bambino in balia dei flutti potrebbe rappresentare un segno divino. Non a caso l’immagine è mitologica. Lui allora non potrebbe che arrendersi e farsi carico di quell’amore».
«Beh, con una delle tre ci hai preso. Più o meno», ti rispondo.
«Il punto è: tu mica ti chiami Tomáš!».
Abbiamo preso posto. Ho ordinato i nostri due caffè.
«Cosicché, eccoci qui», ho detto.
«Già», ha fatto Martina.
Le ho sorriso. Ci siamo guardati per la prima volta in faccia.
«…Ciao».
«…Ciao».