Come insegnare a una donna a giocare a scacchi

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Alla TV davano una replica di Kurtz vs Komassov del 1974, uno dei primi incontri mai trasmessi via cavo per gli appassionati del genere. Poca roba, a dire il vero. Turni d’accesso preliminari ad un torneo regolamentare di Santa Barbara. Una crew del posto aveva organizzato la cosa a sorpresa dell’ospite russo, intendendo filmare le –approssimativamente – due o tre ore di partita per pubblicizzare il gioco degli scacchi negli States. Gli anni ’70 erano gli anni del poker, della voglia di rischiare. Una notte vinci una barca, quella dopo perdi anche i peli del culo. Nessuno voleva stare a guardare vecchi russi barbosi riflettere, ponderare, valutare, soppesare, decidere, ripiegare a proposito di alcuni pezzetti di legno su una griglia bianconera che sembrava uscita da uno di quei disegni nei libri di Carroll.

Jimmy Bowe, il proprietario della sala ristoro Chess&Digress dove si teneva l’incontro, aveva affittato un modello sperimentale di videocamera proveniente dal Giappone, la Betamax che poi avrebbe definito un’epoca, e s’era messo a registrare i due. Un miscuglio di fumi, messe a fuoco sballate e tremori di mano. Piani sequenza che avrebbero fatto dare di matto qualsiasi studente della SB School of Cinema.

Ma Jimmy era di quei tipi che le novità non le seguono, le precedono. Gli aprono la strada, capito no? Un giorno te lo vedevi arrivare con un vestito tutto sbrilluccicante e riflettente che non vedevi più niente fino alla fine della strada. “Che roba è, Jimmy?”, “Ah, questo? Questo è acrilico. Andrà alla grande, fidatevi”. E ci andava.



Jimmy Bowe era mio padre. E a me ogni tanto faceva piacere riguardare quelle riprese quando le beccavo in giro sul canale locale. Avrei dovuto conservare le copie in VHS a memoria del vecchio Jim ma a quindici anni ci ho registrato sopra alcune puntate del Saturday Night Live. Eddie Murphy e John Belushi come non li ho mai più rivisti. Ripensandoci, ‘fanculo gli scacchi. Ne è valsa la pena.



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Kevin è arrivato l’altro ieri dall’Ontario e s’è sistemato sul vecchio divano giù in cantina. È stata una bella fatica convincere Mary a farcelo restare qualche giorno, ma ha degli affari da sbrigare in città e non potevo lasciare che dormisse in uno di quei motel fuori la statale che l’azienda gli rimborsava al cinquanta percento. In realtà, la fatica è stata convincerla che a Kevin il divano in cantina sarebbe andato benissimo, dato che Mary voleva farlo stare nella camera che abbiamo in più al piano di sopra, ma lei lo sa che al momento la uso come studio e ho tutte le mie robe sparse in giro. Per Kevin sarebbe stato molto meglio dormire di sotto col confortante ronzio della caldaia, anziché su un letto di fogli scribacchiati respirando polvere dalla mia scrivania.

Kevin è mio fratello. Fratello minore, per la precisione. Fratellastro. Papà Jim s’era risposato con una immigrata siciliana dopo che la mamma era scappata col dentista e Kevin era il risultato di svariate notti ululanti.

Siamo stati più o meno sempre bene assieme. Andavamo d’accordo, niente di quelle storie tra fratellastri che non si sopportano o si rodono dalla gelosia reciproca.

Quando avevo qualche problema o avevo bevuto troppo o avevo fatto a pugni o ero corso nudo per il quartiere residenziale fuori il campus, Kevin c’era. Più o meno sempre, cioè. Tenevo il suo numero tra le chiamate d’emergenza e quando mi toccava fare La telefonata, anziché un avvocato che non avevo e non mi sarei potuto permettere, chiamavo Kevin. Tanto aveva bisogno di fare pratica prima dell’esame di sbarramento. Gli facevo un bel favore a metterlo in mezzo, e intanto si faceva conoscere. Per un avvocato è importante che la gente associ una faccia al nome sul biglietto da visita.



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– No, no. Il cavallo non muove così, Mary. Vuoi ascoltare, per favore?

Sabato pomeriggio c’è stata l’ennesima tormenta di neve. Glie l’avevo detto a Mary di andare a fare spesa finché era in tempo, ero sicuro ce ne sarebbe stata un’altra. Ah, certo la TV diceva di no. Ma quando mai ci prendono quelli? Le avevo detto di farsi dare una mano da Kevin con le buste che io avevo del lavoro da finire, e di sicuro a Kevin non sarebbe dispiaciuto rimandare la riunione di qualche ora per darle una mano.

Ah c’erano andati, sì sì. Ma il barattolo di silicone era della Mayer, non della Wurst, le pile per il faretto esterno erano zinco-carbone, non alcaline, e i bulloni erano da 13 anziché 12. Certo avrei potuto usarli lo stesso e spremerci un po’ di silicone dentro per riempire il mezzo millimetro di scarto, ma non è questo il punto.

Come diceva papà “Se vuoi fare una cosa per bene, devi fartela da solo”.

Quindi adesso eravamo bloccati in casa senza corrente, senza TV e senza torce per la luce. A Mary era venuta voglia di imparare a giocare a scacchi e Kevin ha tirato fuori dalla valigia una piccola scacchiera portatile, di quelle che ti danno sugli aerei di linea se viaggi in Business. Erano anni che Mary mi assillava con questa cosa degli scacchi. Credetemi, all’inizio ci ho anche provato: speravo potesse raggiungere un livello almeno decente, così da poterci sfidare ogni tanto ed ottenere comunque un qualcosa di stimolante. Ma si era rivelata cocciuta come in fatto di spesa, e non tanto più sveglia della madre.

– Ecco, vedi? Il cavallo muove a elle. A “L”. Così.

– Ti arrabbi sempre. Perché non provi a spiegarmi con calma, una volta?

– Ma lo faccio, lo faccio. Sono calmissimo. Ma guarda qua, dai. Prima delle regole, devi capire lo spirito del gioco. L’ideale. La vita di ogni pezzo sulla scacchiera.

– Non sapevo ti fossi appassionato così tanto agli scacchi, fratellone.

– Eh? Ma se ti ho insegnato io.

– Ah, scusa. Non me lo ricordavo.

Kevin guarda Mary e si scambiano un sorrisetto da quattro soldi. Come se non lo sapessi che l’unico sport a cui sono interessati è il tiro al Jimmy Junior. Sono affiatatissimi nel tirarmi frecciatine, fare battutine e infognarsi in una stupida riderella che mi tocca sopportare ogni volta finché Kevin non rifà i bagagli e alza i tacchi.

– Allora, Mary. Perché il cavallo muove così?

– Uhm… non lo so Jim. Perché ogni tanto è bello cambiare, no?

– Ma che significa? Dai Mary, è un pezzo di legno. Se fosse per quello allora potremmo anche far andare l’alfiere in orizzontale. E perché non il pedone al posto della torre? E perché…

– Ok, ok Jim. Credo che Mary abbia capito. Adesso giochiamo, dai.



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È ormai due settimane che Kevin abita da noi. Dico abita, perché non credo che questa volta abbia intenzione di andarsene. È come una sensazione che ho dietro la nuca. Niente di preciso, ma lui continua a passare le sue giornate come se non fosse un ospite qui, come se fosse la cosa più normale del mondo che uno arriva a casa del fratello, si piazza nei suoi spazi, occupa la sua aria, e nessuno gli dice Oh.

Dopo un po’ comunque ho dovuto cedere sullo studio. Se aveva intenzione di rimanere qui a lungo, non potevo lasciarlo dormire nella cantina. È più pulita e silenziosa, in un certo senso, ma anche più umida. Si è trasferito al piano di sopra.



Riguardo Kurtz vs Komassov su YouTube. Ho trovato un tizio che ha caricato tutte le vecchie VHS di papà che avevano trasmesso in TV. Il WiFi in casa non prende per via del maltempo, quindi mi sono trasferito a lavorare in cantina dove ho l’allaccio ethernet. La sera prendo sonno sempre più tardi, e mi piace perdermi in un’infinità di video sulla fotografia, pesci giapponesi e qualche roba hard ogni tanto. Anche gli scacchi. Non sono mai stato tipo da competizione o gruppi di studio, quindi meglio continuare ad imparare per conto proprio.

– Hey, Jimmy?

– Uhm?

– Ho finito i preservativi.

– Ah. Dovrebbe essercene uno nel mio comodino. Prendilo pure.

– Ok. Senti, prendo qualcosa da bere per me e Mary. Vuoi niente?

– Kev, per favore. Sto guardando un video.

– Oook.



Come diceva papà, “Se vuoi fare una cosa per bene, devi fartela da solo”. Metto su un porno e mi slaccio i pantaloni.

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