Gli stati mentali

1
Polvere, cenere, sassi. Della polvere, della cenere, dei sassi.

Siamo sdraiati per terra. Ricoperti da uno spesso strato di polvere che ci fa sembrare una maschera allegorica, di quelle plasmate in creta. Incrostati di cenere che ci tappa le narici, ci incolla le ciglia e ispessisce la pelle sotto le unghie. Sassi di arenaria e calcare ci fanno da materasso e per un attimo immaginiamo di essere uno di quei fachiri che si stendono su di un letto di chiodi; tanti piccoli chiodi che trafiggono la stuoia sottile sul dorso e ci dilaniano la pelle.

Si porta una mano sul viso e a fatica chiude il pugno, avvicina le nocche alle palpebre incrostate e tira via un po’ di cenere per poter riaprire gli occhi. Gira la testa su un lato rimanendo con il corpo in perfetta immobilità.

Ah, non “siamo”. Sono.

Osserva i resti delle capanne implose su se stesse. Fili di fumo tracciano disegni nell’aria appena sopra i tiranti che sono rimasti in piedi come totem. Sono l’unica cosa rimasta intatta, mentre tutti gli altri sembra stiano riposando sui letti chiodati. Riposando per davvero.

Si accorge che sono loro a fare fumo. I rivoli esalano dalla carne rossiccia e bruciacchiata. Sembra quasi che le anime abbiano deciso di prendere la fuga dai corpi e nel mischiarsi all’aria la cenere le abbia colorate di nero. O forse erano già nere di loro.

Prova ad alzarsi per poterne seguire il cammino più in alto, verso il cielo. Ha ancora le sembianze di una statua di creta, e nel guardarsi le mani lì per lì non le riconosce; non appartengono a lui, di sicuro. Il ginocchio destro è scoperto e il sangue ne fuoriesce con una velocità che intrappola anche l’ossigeno nei brandelli di carne, portando ad una reazione che produce fugaci bolle che esplodono un attimo dopo essere comparse. Mentre le osserva da vicino, una di queste è così grossa da scoppiargli in viso e lasciargli un rivolo rosso sullo zigomo sinistro, appena sotto l’occhio. Come una lacrima.

Sarà meglio che mi lavi.



Ha faticato non poco per imboccare la mulattiera che si dipana dal villaggio fin giù il fiume, tra le rupi salmastre e i rovi seccati dall’afa. Dopo aver gattonato sul ginocchio buono — Come gli equilibristi del circo, pensa — ha afferrato il resto di un tirante mezzo spezzato e l’ha strappato via per aggrapparcisi.

L’aria a valle è ancora più deprimente, ma si respira il pulito dell’acqua e il contrasto tra quello che prova dentro di sé e quello che sente sulla pelle è difficile da definire. Panku avrebbe detto “Straniante”, o un’altra di quelle parole difficili che usava lei.

Immerge un alluce con cautela e lo ritrae subito, lasciandosi dietro qualche crosticina di sporco che galleggia via. Il freddo dell’acqua gli pizzica le cervella, e per la prima volta riflette su quello che gli è capitato.

Difficile. Difficile da dire. Come me lo spiego?

Quando finiva di aiutare il padre al banco del pesce, quando la palla gialla era fin sul punto più alto della curva, andava con gli altri dalla vecchia Panku. Ascoltava le sue storie sul prima, e poi quelle sul primaprima. Quasi tutte avevano a che fare con dei tizi come loro, “Uguali sputati” diceva Panku. A questi tizi sembrava andare tutto bene, se non che un giorno uno di loro perde la testa e succede un casino mica da ridere. Questo comincia ad andarsene in giro senza testa, come fosse la cosa più normale del mondo. Faceva la spesa, salutava, mangiava in famiglia. E senza averci la testa. Poi Panku continuava dicendo che piano piano questo tizio aveva convinto sempre più gente a perdere la testa, e alla fine quasi tutti se ne andavano belli dritti in giro, dalla punta dei piedi al collo. E sopra più niente.

Panku era matta. Questo lo sapeva. Ed era vecchia. Di un vecchio che sembrava avesse potuto conoscerlo davvero, il primaprima. Non lo conosceva, ovvio. Ma sembrava. Diceva anche che una volta, tra il prima e l’ora, qualcos’altro era successo a quei tizi senza testa: erano stati mandati via dai loro posti. Mandati via da una forza cattiva che aveva dato fuoco a tutto il mondo, anche alle loro teste mozze.

E comunque, tra le tante cose matte che diceva, ogni tanto ne diceva qualcuna interessante o addirittura utile.

Ad esempio gli aveva insegnato che quando ci si trova davanti ad una situazione strana, a qualcosa a cui non siamo abituati, la prima cosa da fare non è — come invece sosteneva Barùdan, il nipote — tirargli un sasso; ma chiedersi “Come me lo spiego?”.



Sono morti. C’è stata un’esplosione, un grosso boom e sono morti tutti. No. Non c’è stato nessun boom. È stato più come quando peschi un pesce all’amo e quello rompe la superficie dell’acqua e fa “plop”. È stato un grande “plop” da sotto terra. È venuto fuori da sotto terra e ha bruciato tutto… no. È arrivato dall’alto. C’era un uccello enorme con le piume neropece e una palla di fuoco in bocca che ha tirato giù sul villaggio e poi…

- Nessuna delle due.

- Ah! Scusa… io non, non mi ero accorto di star parlando ad alta voce.

Vede una ragazzina, forse poco più di una bambina. Gli si è avvicinata mentre era intento a lavarsi via la pelle superficiale di cenere e polvere e ragionava su quanto fosse accaduto. Senza accorgersene deve aver cominciato a ragionarci su ad alta voce.

- Da dove vieni?

- Dall’altro lato della valle. Ero venuta per raccogliere gli asfodeli. Sai, per mia nonna. All’improvviso ho sentito urlare e ho risalito la mulattiera per vedere che stava succedendo.

- E che… che stava succedendo?

- Niente di quello che hai detto. Hanno semplicemente preso fuoco - dice.

- Ma che significa “semplicemente preso fuoco”? Come fa uno semplicemente a prendere fuoco?

- Beh non è poi così difficile, credo. Anche mia nonna ogni tanto prende fuoco, ma un po’ meno di quelli lì nel villaggio. È per questo che le vengo a prendere gli asfodeli; pesto le radici e ne ricavo un unguento per tutta la pelle morta che rimane quando ha finito di prendere fuoco.

È matta. Come Panku. Sono bruciati tutti e l’unica rimasta è matta.

- Ma se hai visto, perché non hai chiamato aiuto? Perché non hai gridato qualcosa? E perché io non ho preso fuoco?

Adesso la faccia è piuttosto pulita e gli resta solo qualche rivolo di impasto mollo che gli solca il viso in strisce verticali e parallele. Sembra quasi truccato per andare in guerra.

- Beh, ho avuto paura no?

La ragazzina fa qualche passo verso un cespuglio di asfodeli e ne tira via alcune radici.

Come me lo spiego? Uno prende fuoco così, senza altro motivo? Tutti insieme hanno preso fuoco e io no. Forse hanno bevuto qualcosa, di quell’acqua forte e acida che bevono per festeggiare la nascita di un piccolo, talmente forte e acida che sta volta li ha bruciati da dentro?

- E adesso che fai? - lo guarda.

- Devo fermare il sangue, sennò muoio. - Immerge il ginocchio fin dentro l’acqua più e più volte, fino a colorare una buona porzione di fiume di un rosso ceruleo che scivola via verso chissà dove, ma ogni volta che riemerge, il sangue continua a fiottare.

- Così sì che muori. Sta fermo. - due mani piccole, ricoperte di calli e grinze sulle dita ossute. Si avvicinano al volto e raschiano via i residui di quell’impasto molle. Lo rimestano con sapienza, pressandolo e compattandolo in una sottile membrana. Una nuova pelle di cenere e polvere che applica sul ginocchio. Il non-guerriero ha perso la sua maschera di guerra.

Come ha fatto? Sembra una magia.

La nuova pelle aderisce a quella vecchia e sembra legarsi ai brandelli di carne, ricucendo la ferita. Sostituendosi ad essa.



- Ne hai mai visti di granchi, da queste parti?

Camminavano da un po’ con un’andatura perfetta, a ritmo sostenuto. Il ragazzo le stava dietro nonostante la pelle nuova e l’agilità di lei.

- Cos’è “granchi”?

- Lascia perdere.

- Insomma, mi dici dove stiamo andando? Io devo tornare al villaggio!

- Andiamo a Ovest. Non c’è nessun villaggio a cui tornare. - Questo lui l’aveva capito, ma non voleva arrendersi all’idea.

- Cos’è “ovest”?

- Lascia perdere.

Sì, questa è matta almeno tanto quanto Panku.

- Chi è Panku?

- La vecchia del villaggio che non c’è più.

- Le volevi bene?

- Beh, insomma. Volevo più bene ai miei genitori.

- E ti dispiace che non ci siano più?

- … - non ci aveva pensato.

Non ci avevo pensato.

- Non ci avevo pensato.

- L’hai già detto due volte.

- Come scusa?

- Lascia perdere.

- Ma che andiamo a fare a questo “ovest”?

- Per i granchi.

Ma perché cammina così veloce? Com’è possibile che cammini così? Sembra stia strisciando i piedi ma devo correre per starle dietro.

- Ehi senti, puoi rallentare? Mi hai appena fatto il ginocchio nuovo, non ti sto dietro.

- È quasi notte, dobbiamo arrivare prima che il sole cali.

- Cos’è il… lascia perdere. E tua nonna?

- Hm?

- Tua nonna. Quella che prende fuoco.

- Ah, sì. Anche lei è a ovest. Ma i granchi sono più importanti.

- Come mai?

- Beh, sai cosa succede ad un gruppo di granchi quando sono in trappola?

- Non so neanche cosa è un granchio, figurati se so com’è fatto un gruppo di granchi.

- Quando sono in trappola, ad esempio ammassati in un secchio, se uno di loro prova a risalirne la superficie liscia e quasi quasi ce la fa, gli altri lo afferrano per la chela e lo ritirano giù.

Mi sembra una cosa orribile.

- Mi sembra una cosa orribile. E perché lo fanno?

- Beh, perché è il loro stato mentale. Se non possono salvarsi loro, non deve salvarsi nessuno.

Capisci?

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