Una serata Tipica
Posted: Sat Jan 02, 2021 12:48 am
Col primo boccone non accade nulla, ma quando afferro il secondo mi becco la lezioncina, e solo perché ho osato chiamarlo sushi.
«Makizushi. È il termine che identifica il comune sushi arrotolato». Lo spiega puntandomi le bacchette. Poi con grazia ne prende uno e me lo mette di fronte agli occhi.
Si avvia quell'effetto a catena tipico di Lisa, fatto di argomenti a profusione apparentemente legati tra loro da un filo conduttore. In questo caso il tema prescelto è l'Anisakis, e mentre fa la maestra mi disegno sul volto quell'espressione che ha imparato a conoscere e rispettare, e che significa: non te l'ho chiesto.
Si blocca un attimo, nei suoi occhi blu osservo l'insistenza annegarvi poco alla volta. Infine desiste e mangia il... com'è che si chiamava? Makizushi, sì. Un altro termine made in Lisa che posso fare mio. Ti ringrazio, Lisa.
«Non ti sarai mica offesa, vero?»
Ha la bocca piena, mastica e scuote la testa, mi ricorda una scena da cartone animato, ma non so quale.
«Tranquilla, è normale. Non devi sforzarti, è più una questione di liberarsi, ecco». Sembro sempre un po' scemo quando le do consigli. Nell'istante in cui parlo mi domando come avrebbe formulato lei la frase.
Lisa va forte in queste cose: parole, argomenti, conoscenza in generale e via discorrendo.
«No, certo. Hai ragione, devo liberarmi, liberarmi, liberarmi». In realtà ripete per tre volte la parola emanciparmi, ma la traduco automaticamente.
Mi offre il suo sorriso, il solito sorriso strano tutto sbagliato. Un sorriso lezioso, affettato. Sinonimi che mi ha insegnato lei la prima volta che me l'ha mostrato; volevo fare il romantico, approfittare di quel diastema che appariva quando schiudeva le labbra, e dirle che era carino.
“Cioè... Non intendo solo lo spazio tra i denti, cioè, il tuo sorriso, ecco”, avevo detto.
Lei non aveva capito il complimento, più che altro si era fissata sui suoi incisivi centrali superiori, ma in compenso mi ero reso conto della presenza di una nota strana, stonata. Sorriso, sguardo, movimenti, tutto stonato. Tutto made in Lisa.
Il sushi è terminato da un po'. Il ristorante è un continuo tintinnare di bicchieri, di piatti, e di borbottii sommessi.
Lisa non parla, non resiste più. Lo capisco dalle posizioni stereotipate che assume. Ogni movimento è un'azione copiata da qualcuno che ha osservato, dalla scena di un film, o da chissà cos'altro. Si stiracchia e sembra imitare chi lo fa per davvero. Anche lo sguardo è meccanico; i suoi occhi si muovono circospetti, alla ricerca di schemi comportamentali, e sempre pronti a nascondersi dai miei.
«Se ti dà fastidio il rumore possiamo andarcene».
Silenzio.
«Non sarebbe mica un fallimento. Al Solstizio potrai...», mi guarda, in qualche modo sa già cosa sto per dire, «... emanciparti?».
Si alza furibonda ed esce dal ristorante. Pago il conto e la raggiungo. Poi, senza rivolgerci la parola, ci incamminiamo in direzione del Solstizio.
Bravo, l'hai trattata come un'aliena, penso. E mi chiedo anche se lei avrebbe compreso questo pensiero.
Lisa non va forte con queste cose: sarcasmo, ironia, e tutte quelle sfumature che si insinuano dietro le parole, dietro la logica nuda e cruda.
Ho imparato a privarmi del sarcasmo, me lo tengo per me. Mi tengo per me tutte quelle cose che possono dividerci.
Una volta ha detto che per i medici lei è semplicemente una neuroatipica, mentre per il resto del mondo è Sheldon Cooper . Poi mi ha chiesto chi fosse per me, e io le ho risposto che, tutt'al più, è la ragazza di Sheldon Cooper.
Complimenti, coglione, un vero genio!
Ovviamente non l'ha presa per niente bene, ma in compenso ho capito che, da quel momento, le parole avrebbero avuto un peso non indifferente.
«Sei ancora arrabbiata?»
Ha gli occhi puntati sul marciapiede. Non piange, non l'ho mai vista piangere.
«Vuoi davvero andarci? Non ti perdi nulla, anzi, il Solstizio è tra le peggiori discoteche. Gente che si muove strana, musica assordante... ».
Si ferma e sbotta: «Non è necessario che tu dica: “gente che si muove strana”. Comprendo bene che ballano, non sono oligofrenica. E ti rammento che ho fatto una promessa e, in quanto tale, intendo mantenerla».
Quando si arrabbia troppo si irrigidisce. Le braccia sono abbandonate lungo i fianchi, gambe e piedi uniti. È tutta un unico pezzo con la bocca che si agita impazzita. Gli occhi sempre che mi stanno a sondare, sembra che a loro non gliene importi un fico secco del sottoscritto, freddi e distaccati, come se stessero sempre a fare altro. Guardatemi e basta, non chiedo molto.
«Non devi dimostrarmi nulla, a me neanche piacciono quei posti», dico.
Riprende il cammino decisa.
Nessuna parola, sbagliata o meno. Solo il silenzio. Quel tipo di silenzio che si crea tra due persone troppo diverse. Mi dico che sono innamorato di una aliena, e mi sento in colpa. Me la figuro dentro la discoteca, che impazzisce. Adesso cammina come un soldato, ha lo sguardo determinato.
Da quando ha detto che non era mai stata in una discoteca non si è data pace, diceva che avevo fatto una faccia troppo sorpresa, troppo brutta.
Io non sono stato in tantissimi posti, le avevo detto, l'importante è essere se stessi e quelle cavolate lì. Ma lei voleva provare. Forse in quel posto ci vede una scappatoia; tutti i suoi più grandi mali raggruppati in un'unica sala: luci, urla, bassi a tutto spiano, confusione, e ancora luci, e ancora urla, bassi, confusione, tutto insieme, tutto sparato al massimo, un caos impossibile da analizzare e schematizzare.
Forse è questo ciò a cui sta pensando adesso, non lo so, ma questa è la sua serata, e così sarà.
Quando arriviamo alla meta notiamo che sono già tutti dentro. Da fuori, la musica techno è attutita dalle mura del locale e assume i contorni di quello che a me sembra un richiamo diabolico. Sarà per via di Lisa che, una volta all'entrata, infila il suo braccio attorno al mio. Sarà perché questi posti li odio e maledico il giorno in cui ne abbiamo parlato. Oppure ho semplicemente paura, paura di vergognarmi di lei.
«Forza, entriamo», dice Lisa.
Le porte si aprono e tutto ci investe. Il suo braccio diventa una morsa. In faccia è sconvolta; la bocca spalancata, gli occhi sgranati e impietriti. Per un attimo perdo il controllo e inizio a tremare. Non riesco a smettere di fissarla. Davanti a noi un caleidoscopio di luci strobo immortala corpi di fricchettoni impazziti che saltano, urlano, gioiscono, a tempo di musica.
Bum, bum, bum, Lisa osserva tutto questo, e io osservo lei.
Mi lascia il braccio e si porta le mani alle orecchie, dopodiché inizia una nenia che le ho visto fare una sola volta; quando, imbottigliati nel traffico, siamo stati travolti dal rumore dei clacson.
La-la-la-la-la-la-la.
L'impulso di prenderla per le braccia e scuoterla è forte, ma non lo faccio. Vedo solo una bambina che emette lallazioni, e ciò mi fa sorridere.
Poi, come per magia, i suoi occhi incontrano i miei, mi guardano per davvero. Il mio sorriso la calma, e le sue mani scendono.
Le apre e le chiude, come a voler raccogliere tutta quella luce invadente che la colpisce.
Passo dopo passo, i movimenti del corpo vanno a tempo di musica. Chiude gli occhi e, infine, si scatena. Con le mani inizia a graffiare l'aria, scoppio a ridere perché mi fa pensare a una sorta di marionetta.
Allora decido di buttarmi, ballo anch'io.
Intere ore ci passano davanti scandite dai bassi. Rimaniamo soli, nel nostro pianeta, senza alcun bisogno di comprenderci, liberi dagli schemi, dalle regole e, soprattutto, dalle persone attorno a noi. Tiene fisso lo sguardo su di me e capisco che non è cambiato niente, che sta ancora fingendo, e tutto questo lo fa per noi. Solo adesso mi è chiaro cos'è che guardano quegli occhi: un alieno.
«Certo che sei bravo a ballare», mi sussurra all'orecchio.
«Grazie».
«Era sarcasmo», aggiunge, con una strana intonazione, e sempre con quella risata sbagliata, tutta sua: made in Lisa.
«Makizushi. È il termine che identifica il comune sushi arrotolato». Lo spiega puntandomi le bacchette. Poi con grazia ne prende uno e me lo mette di fronte agli occhi.
Si avvia quell'effetto a catena tipico di Lisa, fatto di argomenti a profusione apparentemente legati tra loro da un filo conduttore. In questo caso il tema prescelto è l'Anisakis, e mentre fa la maestra mi disegno sul volto quell'espressione che ha imparato a conoscere e rispettare, e che significa: non te l'ho chiesto.
Si blocca un attimo, nei suoi occhi blu osservo l'insistenza annegarvi poco alla volta. Infine desiste e mangia il... com'è che si chiamava? Makizushi, sì. Un altro termine made in Lisa che posso fare mio. Ti ringrazio, Lisa.
«Non ti sarai mica offesa, vero?»
Ha la bocca piena, mastica e scuote la testa, mi ricorda una scena da cartone animato, ma non so quale.
«Tranquilla, è normale. Non devi sforzarti, è più una questione di liberarsi, ecco». Sembro sempre un po' scemo quando le do consigli. Nell'istante in cui parlo mi domando come avrebbe formulato lei la frase.
Lisa va forte in queste cose: parole, argomenti, conoscenza in generale e via discorrendo.
«No, certo. Hai ragione, devo liberarmi, liberarmi, liberarmi». In realtà ripete per tre volte la parola emanciparmi, ma la traduco automaticamente.
Mi offre il suo sorriso, il solito sorriso strano tutto sbagliato. Un sorriso lezioso, affettato. Sinonimi che mi ha insegnato lei la prima volta che me l'ha mostrato; volevo fare il romantico, approfittare di quel diastema che appariva quando schiudeva le labbra, e dirle che era carino.
“Cioè... Non intendo solo lo spazio tra i denti, cioè, il tuo sorriso, ecco”, avevo detto.
Lei non aveva capito il complimento, più che altro si era fissata sui suoi incisivi centrali superiori, ma in compenso mi ero reso conto della presenza di una nota strana, stonata. Sorriso, sguardo, movimenti, tutto stonato. Tutto made in Lisa.
Il sushi è terminato da un po'. Il ristorante è un continuo tintinnare di bicchieri, di piatti, e di borbottii sommessi.
Lisa non parla, non resiste più. Lo capisco dalle posizioni stereotipate che assume. Ogni movimento è un'azione copiata da qualcuno che ha osservato, dalla scena di un film, o da chissà cos'altro. Si stiracchia e sembra imitare chi lo fa per davvero. Anche lo sguardo è meccanico; i suoi occhi si muovono circospetti, alla ricerca di schemi comportamentali, e sempre pronti a nascondersi dai miei.
«Se ti dà fastidio il rumore possiamo andarcene».
Silenzio.
«Non sarebbe mica un fallimento. Al Solstizio potrai...», mi guarda, in qualche modo sa già cosa sto per dire, «... emanciparti?».
Si alza furibonda ed esce dal ristorante. Pago il conto e la raggiungo. Poi, senza rivolgerci la parola, ci incamminiamo in direzione del Solstizio.
Bravo, l'hai trattata come un'aliena, penso. E mi chiedo anche se lei avrebbe compreso questo pensiero.
Lisa non va forte con queste cose: sarcasmo, ironia, e tutte quelle sfumature che si insinuano dietro le parole, dietro la logica nuda e cruda.
Ho imparato a privarmi del sarcasmo, me lo tengo per me. Mi tengo per me tutte quelle cose che possono dividerci.
Una volta ha detto che per i medici lei è semplicemente una neuroatipica, mentre per il resto del mondo è Sheldon Cooper . Poi mi ha chiesto chi fosse per me, e io le ho risposto che, tutt'al più, è la ragazza di Sheldon Cooper.
Complimenti, coglione, un vero genio!
Ovviamente non l'ha presa per niente bene, ma in compenso ho capito che, da quel momento, le parole avrebbero avuto un peso non indifferente.
«Sei ancora arrabbiata?»
Ha gli occhi puntati sul marciapiede. Non piange, non l'ho mai vista piangere.
«Vuoi davvero andarci? Non ti perdi nulla, anzi, il Solstizio è tra le peggiori discoteche. Gente che si muove strana, musica assordante... ».
Si ferma e sbotta: «Non è necessario che tu dica: “gente che si muove strana”. Comprendo bene che ballano, non sono oligofrenica. E ti rammento che ho fatto una promessa e, in quanto tale, intendo mantenerla».
Quando si arrabbia troppo si irrigidisce. Le braccia sono abbandonate lungo i fianchi, gambe e piedi uniti. È tutta un unico pezzo con la bocca che si agita impazzita. Gli occhi sempre che mi stanno a sondare, sembra che a loro non gliene importi un fico secco del sottoscritto, freddi e distaccati, come se stessero sempre a fare altro. Guardatemi e basta, non chiedo molto.
«Non devi dimostrarmi nulla, a me neanche piacciono quei posti», dico.
Riprende il cammino decisa.
Nessuna parola, sbagliata o meno. Solo il silenzio. Quel tipo di silenzio che si crea tra due persone troppo diverse. Mi dico che sono innamorato di una aliena, e mi sento in colpa. Me la figuro dentro la discoteca, che impazzisce. Adesso cammina come un soldato, ha lo sguardo determinato.
Da quando ha detto che non era mai stata in una discoteca non si è data pace, diceva che avevo fatto una faccia troppo sorpresa, troppo brutta.
Io non sono stato in tantissimi posti, le avevo detto, l'importante è essere se stessi e quelle cavolate lì. Ma lei voleva provare. Forse in quel posto ci vede una scappatoia; tutti i suoi più grandi mali raggruppati in un'unica sala: luci, urla, bassi a tutto spiano, confusione, e ancora luci, e ancora urla, bassi, confusione, tutto insieme, tutto sparato al massimo, un caos impossibile da analizzare e schematizzare.
Forse è questo ciò a cui sta pensando adesso, non lo so, ma questa è la sua serata, e così sarà.
Quando arriviamo alla meta notiamo che sono già tutti dentro. Da fuori, la musica techno è attutita dalle mura del locale e assume i contorni di quello che a me sembra un richiamo diabolico. Sarà per via di Lisa che, una volta all'entrata, infila il suo braccio attorno al mio. Sarà perché questi posti li odio e maledico il giorno in cui ne abbiamo parlato. Oppure ho semplicemente paura, paura di vergognarmi di lei.
«Forza, entriamo», dice Lisa.
Le porte si aprono e tutto ci investe. Il suo braccio diventa una morsa. In faccia è sconvolta; la bocca spalancata, gli occhi sgranati e impietriti. Per un attimo perdo il controllo e inizio a tremare. Non riesco a smettere di fissarla. Davanti a noi un caleidoscopio di luci strobo immortala corpi di fricchettoni impazziti che saltano, urlano, gioiscono, a tempo di musica.
Bum, bum, bum, Lisa osserva tutto questo, e io osservo lei.
Mi lascia il braccio e si porta le mani alle orecchie, dopodiché inizia una nenia che le ho visto fare una sola volta; quando, imbottigliati nel traffico, siamo stati travolti dal rumore dei clacson.
La-la-la-la-la-la-la.
L'impulso di prenderla per le braccia e scuoterla è forte, ma non lo faccio. Vedo solo una bambina che emette lallazioni, e ciò mi fa sorridere.
Poi, come per magia, i suoi occhi incontrano i miei, mi guardano per davvero. Il mio sorriso la calma, e le sue mani scendono.
Le apre e le chiude, come a voler raccogliere tutta quella luce invadente che la colpisce.
Passo dopo passo, i movimenti del corpo vanno a tempo di musica. Chiude gli occhi e, infine, si scatena. Con le mani inizia a graffiare l'aria, scoppio a ridere perché mi fa pensare a una sorta di marionetta.
Allora decido di buttarmi, ballo anch'io.
Intere ore ci passano davanti scandite dai bassi. Rimaniamo soli, nel nostro pianeta, senza alcun bisogno di comprenderci, liberi dagli schemi, dalle regole e, soprattutto, dalle persone attorno a noi. Tiene fisso lo sguardo su di me e capisco che non è cambiato niente, che sta ancora fingendo, e tutto questo lo fa per noi. Solo adesso mi è chiaro cos'è che guardano quegli occhi: un alieno.
«Certo che sei bravo a ballare», mi sussurra all'orecchio.
«Grazie».
«Era sarcasmo», aggiunge, con una strana intonazione, e sempre con quella risata sbagliata, tutta sua: made in Lisa.