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traccia di mezzogiorno
Odisseus non aveva detto a Kerikos che per entrare dentro quel mostruoso cavallo di legno, costruito per valicare le mura di Troia, c’erano due entrate. Non ci pensava Kerikos mentre seguiva i suoi compagni in quella notte d’estate, con lo scudo legato in spalla e l’odore del mare che li avvolgeva tutti.
Odisseus gli si mise di fronte per parlargli e questo fece piacere a Kerikos; Odisseus era il suo re, perché tutti e due appartenevano a Itaca. Ma la voce del re era triste mentre gli poggiava una mano sulla spalla, con il suo sorriso bianco nella notte.
«Ho dovuto chiedere a un Dio», disse nella dolce parlata di Itaca.
«Mi saranno favorevoli. Ma uno dei miei uomini dovrà garantire»
Kerikos non capiva, mentre si sentiva sprofondare e Odisseus si allontanava da lui. Eppure era sicuro di non muoversi.
«Mi dispiace», diceva il re. «Ma sono solo un uomo e devo obbedire»
«Cosa vuoi che faccia?»
«Che tu vada avanti e non mi odi»
«Non sarà mai. Ma cosa devo fare?»
«Non lo so fratello» disse Odisseus e sembrava sincero e strano che proprio lui non sapesse qualcosa.
Kerikos non sentì più nulla, con ancora tante domande nella testa.
La sua lancia urtò su una parete di pietre e pietra non avrebbe dovuto esserci sotto il cavallo di legno.
Si fece buio e silenzio. Il rumore del mare era molto affievolito, come se provenisse dall’esterno di una casa. Ma dov’erano i suoi compagni? Camminò tendendo la mano avanti come un cieco, c’era tanto spazio e sentiva una strada lastricata sotto i suoi piedi. I suoi schinieri di bronzo urtarono qualcosa all’altezza del ginocchio e cadde. Fu allora che sentì quel fiato sopra di lui, qualcosa che permaneva intorno, che non era del mondo ma che aveva già sentito: odore di sangue.
«Odisseus, mio re!» urlò inutilmente. Non c’era nessuno.
Sentiva freddo al cuore, come nell’imminenza di essere colpito da una lancia nel campo di battaglia.
“S-a-c-r-i-f-i-c-i-o” sentì nella sua mente. Sapeva di non averlo pensato, ma ora ebbe paura.
«Odisseus, mio re! Ricorda che hai una moglie e un figlio a Itaca! Dove sei?» Il sudore gli scendeva negli occhi, sulla bocca. Il sapore era di sangue. Qualcuno respirava intorno a lui, tutta l’aria era una presenza, ma non vedeva niente. Rumori lontani, urla disperate. Si sentì il sangue gelare. Levò lo scudo dalle spalle e sguainò la spada. Una corrente di aria gelida lo investì assieme a una pioggerella fine. Guardò in alto e gli sembrò di scorgere nuvole nere, ma ai suoi lati mura di pietra e questo non poteva essere, il cavallo era proprio sulla spiaggia, il muro che avevano eretto davanti a Troia era più lontano.
Si rialzò e cominciò a camminare chiamando i suoi compagni e il suo re, ma non rispondeva nessuno. Camminò a lungo, fino alle prime luci dell’alba. Era esausto ma guardava sbalordito le alte mura costituite da massi enormi che lo circondavano. Formavano lunghi canali con in mezzo una strada lastricata, si incrociavano, si univano, si staccavano da altre mura creando ampi incroci, altri corridoi che sbucavano in piazze chiuse, in strade sbarrate da pareti che lo costringevano a tornare indietro, a camminare all’infinito. In alto c’erano delle aperture, ma impossibili da raggiungere; i massi combaciavano perfetti e non lasciavano sporgenze o appigli.
Toccò la pietra grigia, ne respirò l’odore aspro; il sole non raggiungeva tutti i punti, un muschio secco, giallo e marrone si dipanava come dita adunche nell’ombra. Kerikos aveva sete. In alcune piazze cerano pozzi con dei sedili di pietra attorno. Ne raggiunse uno, ma non aveva niente per prendere l’acqua. Vide che il pozzo non era profondo e si calò dentro per bere. Mentre beveva un’ombra si delineò sopra di lui, specchiandosi sull’acqua. Per un attimo intravide un’ombra di forma umana con due lunghe corna sulla testa. Sollevò lo sguardo, estrasse la spada, ma non vide niente. Continuò a bere, ma l’acqua si trasformò in sangue. Spaventato e disgustato la sputò, risalì dal pozzo e si buttò su una panca di pietra che divenne come un corpo morto. Urlando Kerikos colpì la panca, diventata informe, facendone sprizzare sangue in abbondanza. Si allontanò da quel luogo. Corse lungo una salita, sperando di arrivare in cima a quelle mura, vedere cosa c’era intorno. La salita non finiva mai, a tratti si interrompeva in altre strade e doveva scegliere. Spesso tornava a scendere e preso dalla disperazione tornava indietro. Era esausto. Aveva di nuovo sete e fame quando cominciò a tramontare il sole su quella orribile giornata. Non vedeva vie d’uscita. E quell’ombra che sembrava spiarlo, pronto a ghermirlo, che si dileguava appena girava lo sguardo verso di lei… dapprima a tratti, poi sempre più frequentemente. Non la vedeva ma la sentiva. Poi gli parve di intravedere qualcosa, attraverso le ombre delle pareti di pietra.
«Chi sei?» urlò innumerevoli volte, ma inutilmente.
Venne di nuovo la notte. Era stanco. Questa volta vedeva qualcosa nel buio, forse c’era la luna piena. Esisteva la luna in quel posto? Non la vedeva, ma la luce era argentea, cercava di illudersi che fosse quella che vedeva specchiarsi nel mare di notte, davanti alla sua Itaca.
«Maledetto Odisseus, mi hai barattato con qualche Dio degli inferi per propiziarti la tua vittoria. Se esco da qui ti ucciderò!»
Ma ora Kerikos aveva fame. Sentiva dei passi che rimbombavano, sembravano trascinarsi sulla pietra. Allora Kerikos urlava e i passi si fermavano, come per sentire. Poi riprendevano. Ma non veniva nessuno. Kerikos sognava a occhi aperti che si era addormentato con la spada in pugno. E una lunga mano rugosa e venata come un vecchio tronco di vite gli accarezzava il petto, gli faceva male, un dolore che entrava dentro il cuore. Si svegliò e qualcosa si staccò repentinamente da lui.
Nell’aria azzurra e nera della notte permaneva odore di sangue, odore di mare.
Ritornò il giorno, ma non c’era gioia in Kerikos. Pensò di uccidersi con la sua spada, ma il pensiero che avrebbe sentito l’odore del sangue, da cui quel luogo era invaso, lo fermò.
Pensò di tracciare con la punta della spada una linea lungo il muro di pietra, in modo da avere una traccia e non ripassare negli stessi luoghi, ma dopo un po’, rendendosi conto dell’infinità e inutilità di questo lavoro, lasciò perdere. Non osava entrare dentro uno dei tanti pozzi per bere, nel timore che l’acqua si trasformasse in sangue, né sedersi sulle panche di pietra per timore si trasformassero in carne.
In carne. Prese a colpire la pietra con la spada, ma non successe niente. Sentì alle sue spalle una presenza che si dileguò appena volse il capo. Quella presenza mugolava in modo strano, sembrava piangere. La panca di pietra si inumidì fino a trasudare acqua. Kerikos si inginocchiò e bevve, dapprima riluttante, poi con sempre più avidità. L’acqua restò acqua. Poi la pietra si trasformò in carne, una massa informe. La tagliò con la spada, ne prese un pezzo, l’avvicinò alla bocca e mangiò. Sentì tornargli l’energia. Cadde addormentato.
Quando si risvegliò la panca era tornata di pietra. Provò a uscire da quello spiazzo, ma un’ombra si frappose all’uscita, una forma immateriale, impossibile da superare che lo fece indietreggiare fino alla panca. L’ombra sembrava respirare, emanare parole incomprensibili. Una forma adunca accarezzava la pietra, sembrava pulirla, prepararla, invitare. Invitare.
Quella mano rugosa… Kerikos voleva di nuovo uccidersi. Ma si sdraiò esausto sulla pietra. L’ombra si posava su di lui, lo avvolgeva, lo assorbiva, diventava lui. Si sentiva sazio. All’improvviso non aveva più fame né sete.
“Questo… è il tuo sacrificio. Vivrai.” Disse la voce dentro di lui.
Kerikos si mise a piangere. Non sarebbe morto di fame e di sete, ma non sarebbe mai più uscito da quel luogo. Quella creatura, quel Dio degli inferi, lo avrebbe accudito per sempre.
[MI145] Il labirinto di Kerikos
1Si salveranno solo coloro che resisteranno e disobbediranno a oltranza, il resto perirà.
(Apocalisse di S. Giovanni)
(Apocalisse di S. Giovanni)