il cui sguardo spazza via
ogni velo di nebbia residuo
Titolo: Le montagne nella nebbia
Traccia: La nebbia
Genere: Fantastico (sentimentale?)
Una fitta coltre di nebbia avvolge i palazzi e la guglia del campanile della cattedrale si distingue a malapena. Le viuzze strette che si diramano in tutte le direzioni, ispirano e espirano come bronchioli affannati l’aria densa e lattiginosa. Un bianco sporco, caliginoso e denso, ottenebra le mura, le finestre e i giardini, circonda le case che senza tinte appaiono tutte uguali; ne penetra subdolo all’interno, reca con sé il suo alito umido e cattura ogni persona che incontra.
Gli abitanti del paese sono tutti senza contorni, i colori zittiti.
Il giorno è invisibile, come il giorno prima e quello prima ancora, e indietro così di generazioni e generazioni, tante che nemmeno più il ricordo di quando la Nebbia giunse nella valle per la prima volta sfugge al suo oblio.
Alcuni raccontano di antiche maledizioni o punizioni divine, altri credono sia lì da ancor prima che il mattone originario del villaggio fosse posato. Nessuno sa con certezza da dove sia venuta e perché. C’è da chiedersi se davvero sia un morbo della terra e non piuttosto una infermità degli occhi.
È certo che lo spesso velo c’è e c’è sempre stato. Continua a ricoprire ogni cosa, in paese, e si appoggia al letto del fiume che scorre mesto nel suo grembo. Miliardi di goccioline deformi si attaccano alle materie e ai corpi come pidocchi.
Le aspre montagne che circondano la valle sono anch’esse soffocate dalla pallida foschia, così che qualunque cosa ci sia al di là di esse è nascosto alla vista da troppo tempo, del tutto sconosciuto agli abitanti della piccola città, che da secoli hanno imparato a vivere di sé stessi.
Il paese non è altro che un’isola remota in mezzo a un oceano di onde grigie, che nessuno prova ad attraversare.
Nessuno tranne T.
Nel deserto lattiginoso dell’alba, S. sta pensando a lui. Attraversa la piazza, le trecce che ondeggiano di un biondo splendido che nessuno può vedere. Costeggia la scuola. Il profilo dell’edificio emerge dalle ombre per qualche istante sulla sua destra.
Quando erano bambini, S. e T. si ritrovavano spesso a percorrere la strada per scuola in compagnia. Non era proprio come camminare insieme. Lei lo intravedeva comparire all’improvviso dalla Nebbia, come se fosse appena stato generato dal nulla, e ne seguiva i passi svelti e rassicuranti.
I ragazzi conoscevano tutti la via, ma alla piccola S., che incedeva lenta e indecisa nel vuoto, sembrava che T. la conoscesse meglio degli altri, che ne percepisse ostacoli e segreti. Non sapeva spiegarsi il motivo, era come se la… vedesse.
Cosi, la piccola S. si affidava a lui come un cieco al suo cane guida. Gli stava appiccicata perché le dava sicurezza , ed era certa che lui ne fosse cosciente e glielo lasciasse fare con una punta di orgoglio. Andavano così verso scuola, l’una attaccata all’altro, in silenzio.
Una volta, però, T. aveva allungato una mano attraverso la nebbia ad afferrare il polso di S. e le aveva sussurrato di seguirlo.
S. aveva avvertito che stavano deviando dal solito percorso e si inoltravano nel parco. Poi T. si era fermato e con uno scatto era salito sullo scheletro deforme di un albero che era parso nascere sotto i loro occhi solo un attimo prima.
“Vieni, su!” le aveva gridato dall’alto.
Ma S. era rimasta giù.
“Sei matto! Scendi, dai.”
Lei indugiava in basso, con gli occhi che si affannavano a seguire il corpicino di lui che balzava da un ramo all’altro, sempre più in alto, sempre più invisibile nel vapore che gli vorticava intorno.
“Dovresti proprio salire. Da quassù si vede qualcosa, sai? La nebbia è meno fitta. Anche l’odore è diverso.” le aveva gridato. “Laggiù mi sembra di vedere le montagne!”
Poi era saltato giù, rapido come era salito.
“Quando sarò grande le raggiungerò“, aveva detto. Poi si era avviato e lei era tornata a seguirlo sul cammino verso scuola.
S. tira dritto, e l’edificio è inghiottito nuovamente dall’indefinito. Percorre il corso del paese ed entra nel parco. L’odore acre della terra bagnata le afferra le narici. Si accovaccia per un istante a toccarla. Sotto le mani sente il terriccio limaccioso e ruvido.
“Erba?” aveva ripetuto S., con l’aria sorpresa di chi pronuncia parole in una lingua sconosciuta
“Sì, erba.” T. stava muovendo la mano con delicatezza sul terreno, come se stesse accarezzando un animaletto bisognoso di affetto. “E prato, e fiori! Ti dico che esistono queste cose. O almeno, prima c’erano, anche qui. Adesso, non lo so, da qualche parte…”
S. aveva iniziato a muovere anch’essa la mano sul suolo umido e morto, alla ricerca di qualcosa. Per un istante le due mani si toccarono.
“Il Sole…” pensò lei.
S. si stringe nel bavero della giacca. L’aria del primo mattino è marcia e fredda, intorno a lei. Eppure, nascosto da qualche parte dietro quella tenda triste e grigia, un disco dorato deve aver cominciato a irradiare il cielo della sua luce rosata. S. tende il collo e il viso verso l’alto, un tentativo di farsi raggiungere almeno in parte da quel calore lontano.
“Dev’essere stupendo, il cielo!”
A scuola non c’andavano più, per loro quel tempo era passato.
Erano nella stanza di T.
All’interno delle case la Nebbia entra ma incede più lieve, come se anch’essa, nonostante la sua natura, serbi un leggero pudore e un certo rispetto per l’intimità. Pur se velati, due sorrisi erano visibili sui loro volti.
T. era alla finestra.
S. si chiese cosa stesse guardando, lì fuori. Lei percepiva solo pallore cinereo. Lei vedeva un enorme vuoto, mentre lui sembrava riempirlo con lo sguardo.
Il cielo, aveva detto.
Cielo e terra, in paese, erano un unico sfondo addormentato e appannato. Ma T. le diceva di alberi fioriti, di frutti, di colori. Le raccontava di un cielo stellato, e di come in qualche luogo la sua presenza stesse guidando un uomo attraverso la tempesta. Le parlava di come il sole riflettesse su capelli dorati come i suoi, o descriveva posti dove puoi fermarti a guardare fino a quanto in là i tuoi occhi riescono, fino a una linea che si chiama orizzonte.
Poi avevano fatto l’amore, per la prima volta.
S. ripensa alla sera prima, la notte prima di Natale.
T. le era sembrato inquieto. C’era qualcosa, nella sua voce, che le suonava diverso. Una fiamma vibrante.
Erano a letto, ma non avevano fatto l’amore. Lei aveva la testa poggiata sul suo petto, e ne percepiva il respiro irregolare. Lui la teneva stretto con il braccio sinistro, mentre con la mano destra le carezzava un fianco. Anche la mano, però, pareva muoversi secondo un ritmo sconosciuto, come se a guidarla non fosse l’amore ma un desiderio di possesso quasi avido che non aveva mai avvertito prima.
Parlò guardando dritto di fronte a sé, al soffitto:
“A me sembra che qui c’è la prendiamo con la nebbia, mentre è solo che la gente non ha il coraggio di guardare al di là del proprio naso”.
Disse solo questo.
A S. non venne da rispondere nulla. Era totalmente disorientata. Così non disse niente.
Stettero entrambi in silenzio per il tempo che rimaneva alla sera, fino a che a S. parve di ascoltare solo un sussurrato “mi dispiace”, un attimo prima che la nebbia del sonno la rapisse per il resto della notte.
Quando si era svegliata, lui non c’era più, e nemmeno il suo calore nel letto, avvolto dalla foschia.
S. si ferma ai margini della città.
Impigliati nella ragnatela opaca che avvolge il mondo scorge a malapena i profili dei tronchi caduchi che annunciano l’inizio delle montagne e dei boschi tetri che le accompagnano. L’aria umida le sferza il viso, le punge il naso.
Ma è poco più su che sta piangendo.
Nel cuore che batte forte è appena iniziata una lotta tra un desiderio fortissimo e una paura profonda.
Sotto il velo di lacrime che le bagna gli occhi, quello di nebbia pare diradarsi per qualche istante, e allora crede di vederlo:
un filo di erba fiorita a carezzare le montagne;
una linea di azzurro e rosa a colorare il cielo;
un uomo che cammina lungo un sentiero illuminato.