Mio padre mi aveva insegnato che davanti agli ostacoli non ci si arrende e mia madre mi ripeteva, di sovente, che gli ostacoli bisogna evitarli, aggirarli o, nel caso specifico, raggirarli.
Chi avevo davanti in quel mattino di lunedì, estate calda, ore 8 e 40, giugno 24, anno 2020, per la precisione, profumava di colla vinilica misto a odore di cane bagnato.
Ma non era un animale e neppure un foglio di carta incollato: poteva piuttosto avvicinarsi, nella struttura fisica, a un preside di scuola media superiore: altezza un metro e settantacinque circa, senza barba, un paio di baffetti grigi e la mano sinistra con il dito indice puntato verso la mia bocca aperta.
Sudava il professore e, per non essere da meno, io tentavo di imitarlo, ma nemmeno una goccia mj colava dalla fronte o usciva da sotto le ascelle, nel vestitino con le spalline sottili, a rendere ancor più ridicolo il mio corpo ossuto.
Soffrivo di una malattia rara, displasia ectodermica ipoidrotica, e il sudore era un lusso che non potevo permettermi.
Quindi niente gocce.
La mia mente viaggiava. Il mio corpo pure Mi piaceva andare in giro per l’Italia. Conducevo i miei attributi, pochi per la verità, a passeggio. Andavo per funghi, mi sfogavo, mi esprimevo, usavo qualche accortezza ma mi divertivo, frequentando corsi di furbizia.
Convivevo, poi, con la nausea, che mi accompagnava dal mattino alla sera.
Per questa, comprensibile, ragione, il sole che spariva era la mia parte del giorno preferita.
Avevo un debole per i tramonti in genere. E probabilmente il fatto che coincidessero con la fine del mio malessere, li rendeva meravigliosi, agognati, attesi ogni mattina.
Aprivo gli occhi e una nuova serie di ore era pronta per rovinarmi la vita.
Ma poi, alla fine del giorno, tutto si dissolveva, spariva, si trasformava, magicamente.
Niente di particolare sosteneva il professore, aveva solo intenzione di ribadire il proprio concetto.
“E adesso puoi andare a fumare nel bagno!” – le sue ultime parole.
Ma stava delirando?
Forse, avevo consegnato qualche compito in bianco, avevo fatto qualche scena muta, avevo messo qualche topo morto nelle tasche del cappotto di qualche compagna, avevo puntato la campanella dieci minuti prima o avevo combinata qualche marachella per finire tutti i giorni in punizione, ma fumare nel bagno mai e poi mai!
Non l’avrei fatto solo perché i miei genitori avrebbero sofferto troppo: “Tutto, fuorché la salute!”
Si sarebbero rassegnati agli insuccessi scolastici, ai compiti mancati, alle note sul registro, ma non avrebbero mandato giù il più lieve cambiamento nella mia condizione fisica.
Erano già fin troppo presi dalla mia malattia rara, e tenevo per me quella nausea che si sarebbe solo aggiunta alle angosce, nate per loro, con l’età del mio sviluppo.
Stavo crescendo e ogni minuscola variazione del mio stato produceva ansia sul futuro che si stava avvicinando e per il quale non mi vedevano preparata.
Nessuno mi amava o mi faceva la corte, nemmeno quel ragazzo dalle spalle spioventi di cui mi ero invaghita. Lo avevo sempre davanti agli occhi.
Compagni di classe, di catechismo, di lezioni collettive di chitarra e di gare di sputi alle quali venivamo iscritti, ogni sei mesi, dai rispettivi genitori. Rispettivi non per rispetto ma perché ognuno aveva i suoi ed era meglio così.
Il ragazzo non aveva la stessa malattia rara che mi spossava ma nausea, quella sì, dalla sera al mattino.
A scuola era un campione. Non gli sembrava vero che la maledetta al mattino passasse; così, quando faceva giorno, compilava i compiti in cinque minuti, studiava in dieci ed era preparato in tutte le materie; primo in catechismo, primo nelle lezioni collettive di chitarra e primo assoluto nelle gare di sputi.
Ai suoi genitori non importava come trascorreva le notti: “quello che conta è il risultato!” – sostenevano - “e i risultati ci sono!”
I professori erano contenti, il preside felice che nella scuola ci fosse un fenomeno.
Nessuno conosceva il suo segreto.
Neanche io che, come già detto, me n’ero innamorata.
“Ma il destino ci mette lo zampino” e le parti, o forse sarebbe meglio dire le nausee, si invertirono.
Io la ebbi di notte e quel ragazzo di giorno.
Anche i comportamenti scolastici, all’inizio del secondo quadrimestre, si modificarono.
Io diventai un fenomeno e lui una birba, al punto che la metamorfosi fu evidente.
Invece no.
La trasformazione venne attribuita a fattori caratteriali, indipendenti per ognuno di noi, ad accadimenti o pensieri sorti al nostro interno.
Cambiano le mode, i comportamenti, persino le abitudini ma occorre tempo per sradicare pregiudizi e variare ruoli. Le condizioni sono vissute, da noi, parenti o amici, in modo diverso. “...sarà come mi vedono gli altri… ” recitava il testo di una canzone che mi torna in mente.
I genitori affermarono, riguardo a me, che la sfuriata del professore era servita perché avevo messo la testa a posto; quanto al ragazzo, i suoi dicevano che avere un fenomeno in famiglia non faceva parte delle loro caratteristiche, quindi giudicavano normale questa trasformazione.
Gli insegnanti non si ponevano domande e il preside stava attento a non sbilanciarsi.
Ma siccome “il destino ci mette lo zampino”, io, per caso, scoprii il segreto del ragazzo.
Lo vidi barcollare in classe, nel banco, e riconobbi quel moto particolare che provoca l’andare in barca, mi colpì quel particolare di tenersi la mano al caldo. Il suo stomaco era rivoltato dalla nausea.
Fu in quel momento che capii. Lo capii. Gli illustrai il mio punto di vista e la mia decisione divenne la nostra decisione. In silenzio, ci tenemmo per mano durante l’intervallo, condividendo le reciproche illuminazioni.
Da allora diventammo inseparabili.
Dalle medie all’università, sempre insieme.
Dopo l’università, sposati.
Niente figli, per scelta.
Fino alla fine dei giorni.
Non importa chi se ne andrà per primo o quel che diventeremo, ciò che ci piacerà.
Non contano i motivi della nostra unione.
Conta che trascorreremo il nostro tempo nauseabondo, felici e contenti.
Come nelle fiabe.