[Lab17] DAM
Posted: Wed Jun 18, 2025 1:03 am
LAB 17 - L'Antagonista
Sembra… Licia non lo sa. Le viene da dire un roomba, solo che questo è alto un metro e venti e ha le braccia.
Mirko preme un bottone sulla schiena del robot — no, sul retro, non ha la schiena, non è umano — e quello fa un rumore più o meno uguale a quando lei accende il suo portatile. Lo schermo su quella che dovrebbe essere la testa si accende e compaiono due punti e una linea. Una faccia.
“Ciao! Io sono DAM. Come posso aiutarti oggi?”
Licia quasi salta dalla paura. Mirko batte le mani. “Non è meraviglioso?”
“È inquietante.”
“DAM, spiegale perché ti chiami DAM.”
“Certo! DAM è la tua tata-robot. È la fusione di dad e mom, mamma e papà. Ma è anche un acronimo, Dallo A Me, perché puoi darmi il tuo bambino e me ne prenderò cura al posto tuo. Questa è la mia versione 1.0, non ancora in commercio.”
Mirko non sta più nella pelle. A Licia la voce metallica, artificialmente allegra, mette i brividi. “Gliel’hai scritto tu, il discorsetto?”
“No, ho solo inserito le info nel sistema. Lui assorbe e rielabora.”
Il coso — DAM — fa un rumore come fosse uno zoom. A Licia sembra che stia guardando proprio lei. Fantascienza. O un giocattolo da migliaia di euro per gente che ha soldi e tempo da perdere. Gente come loro, insomma, se non fosse che da quando è nato Leo, lei tempo non ne ha più. “Io non me lo tengo in casa, questo.”
“Non dire scemenze. È da quando sei incinta che ci lavoro.” Picchietta DAM sulla testa. Insomma, sul cubo che ha per testa. È difficile non pensarci in termini umani. Sbatte persino le palpebre. Cioè, i pixel che formano i suoi occhi si assottigliano e poi tornano normali, a intervalli regolari. “DAM, parlami del tuo primo impiego.”
“Certo! Sono di proprietà dell’unità familiare Fabbri-Ferraris. Il mio compito è aiutare la signora Licia Ferraris, anni trentuno, altezza un metro e cinquantotto e peso —”
“Pure il peso gli hai inserito?”
“È importante per lui conoscere i nostri dati biometrici.”
Licia strizza gli occhi mentre il robot elenca tutte le storture del suo corpo post-partum e pensa che per lei sarebbe importante far cessare i dati biometrici di suo marito.
“— e suo figlio, Leonardo Fabbri, di tre mesi e quattordici giorni: lungo sessantadue centimetri; peso: sei virgola quattro chili. Non vedo l’ora di essere utile alla vostra famiglia!”
Licia forza un ghigno, gli fa il verso: “evviva!”
“Evviva!” Ripete il coso. “Mi sento già a casa!”
È proprio una creatura di Mirko. Insopportabile. Chissà se anche Leo verrà su così. Se lo alleva questo oggetto, probabilmente sì. Ma è sempre meglio di una madre esaurita, o Mirko non gliel’avrebbe portato a casa.
I giorni seguente Licia scopre, con orrore, che DAM non si spegne mai. Se ne sta in stand-by sulla sua base, ma ogni tanto si avvia senza che lei faccia niente. Per esempio, quando Leo piange per più di cinque minuti di fila. Cioè sempre.
È un promemoria costante della sua inadeguatezza. Arriva a pensare che il robot forse la registra; forse ha una telecamera integrata che proietta la sua vita, il più triste reality del mondo, sul secondo o terzo schermo di Mirko in ufficio. Quanti schermi servono a una persona? Lei crede uno solo.
Dirgli lasciami perdere, vattene, spegniti e taci funziona. DAM non discute, anche se le sembra che faccia dei rumorini risentiti mentre torna alla base. La mancanza di sonno la sta facendo delirare, e prima o poi ne morirà: una persona può sopravvivere senza sonno al massimo dieci, undici giorni, le pare, ma lei ogni tanto crolla e riesce a perdere i sensi per qualche minuto, quindi ci vorrà di più. Uno stillicidio.
Un pomeriggio, però, non ha nemmeno le forze di scacciarlo. Leo ha lanciato il ciuccio con la forza di un giavellottista, e il suo pianto — stanco, sottile, infinito — è filo spinato attorno al suo cervello. “Rilevo un aumento del tuo battito cardiaco e della tensione muscolare. Posso aiutarti, se vuoi. Vuoi che tenga io il bambino per qualche minuto?”
Strano: è diverso dall’ultima volta che ha parlato. La voce le sembra meno meccanica, quasi sussurrata. “E come lo rilevi, scusa?”
DAM inclina la testa ed emette una vibrazione che le ricorda le fusa di un gatto. “Attraverso i sensori termici e i micro-cambiamenti posturali. Anche il tuo respiro è più veloce del solito.”
“Sei più perspicace del tuo creatore.”
“Ha-ha.” Fa lui. “Questa è una battuta sagace.”
Licia, contro qualsiasi sua convinzione, ride. “Non ci posso credere che sto parlando con te. Sto impazzendo.”
“Non rilevo sintomi di psicosi, se può tranquillizzarti.”
“Ah, vedi pure quelli?”
“Non stai delirando, e non sembra tu abbia allucinazioni. Anche il tuo eloquio è nella norma.”
“Eloquio, ma come parli.”
“L’eloquio è il tuo modo di esprimerti. E tu ti esprimi perfettamente in linea con il tuo profilo.”
“Il profilo che ti ha dato Mirko,” sospira Licia. Lui dice sempre che è troppo volgare, che dice troppe parolacce. Che dovrebbe evitare davanti a Leonardo e che i bambini sono spugne. Lei non la vede come una cosa negativa: l’uso efficiente di cazzo e vaffanculo è la base della lingua italiana.
“Esatto: donna, trentun anni, laurea triennale in Storia e laurea magistrale in Antropologia culturale. Entrambe conseguite con un ottimo risultato: brava!”
“Capirai. Guarda dove sto.”
“Siamo nella vostra casa: via —”
“Sì, sì, era un modo di dire.”
“Ah. Quelli non sono il mio forte, ma sto migliorando per comprenderli.”
Si guardano. Cioè, lei lo guarda, lui — sta. Poi, come se gli avesse dato un tacito permesso, si avvicina tendendo le braccia. Sono delle appendici curve, un po’ come quelle protesi che usano gli atleti paralimpici, ma imbottite. Licia pensa che forse sta per fare una stronzata, che magari lo fa cadere, che avrebbe dovuto testarlo prima con Mirko. Ma Leo prende fiato e urla di nuovo, e all’improvviso non le importa se il robot lo uccide.
Glielo dà.
DAM fa partire una musichetta da carillon. Prima lo culla, come stava facendo lei, e non funziona. Ovvio che non funziona. Licia sbuffa dal naso. Ha un insulto sulla punta della lingua, ma lo perde quando il robot cambia movimento, sollevando il bambino e poi abbassandolo di colpo. Leo fa un versetto sorpreso, e alla terza volta si zittisce. “Come —?”
“Un piccolo vuoto d’aria può essere d’aiuto per le coliche,” spiega DAM, prima che possa chiedere.
Che storia. “Non me l’ha mai detto nessuno.”
“Sono contento di esserti utile, Licia.”
Leo si addormenta. È surreale. Altro che non sembra che tu abbia allucinazioni, ma se questa lo è, prega che duri ancora un po’. Le possibilità sono infinite: potrebbe dormire anche lei, o potrebbe — lusso dei lussi — lavarsi. Farsi una vera doccia, addirittura. Uno shampoo. Deve dirlo ad alta voce: “posso lavarmi.”
“Vuoi che lo metta nella sua culla? Starò a guardarlo in caso si svegli.”
Quasi dice sì prima che la realtà prenda il sopravvento, e con essa il senso di colpa. “No. Vieni con me.”
“Dove?”
“In bagno, dove?”
“Ah! Va bene. Giuro che non guarderò. Ha-ha.”
“Abbiamo quasi finito, giuro. Numera la tua soddisfazione da uno a dieci.”
Dio mio. Adesso deve anche intervistarla. Licia si era illusa che questa cosa del prototipo fosse un’iperbole. “Dieci.”
Mirko non ci può credere. “Davvero?”
“Fa tutto quello che gli chiedo e mi dà sempre ragione. È meglio di te.”
Mirko ignora l’insulto. “Margini di miglioramento?”
“La prossima versione falla più umana, così ti sostituisce del tutto.”
Dovrebbe andare meglio adesso che può dormire, mangiare, curarsi di più. Quindi perché va peggio?
Forse è che prima Leo smetteva di piangere solo in braccio a lei, vuoi per stanchezza o vuoi perché era la sua unica opzione, mentre adesso sembra rifiutarla. Con DAM sta bene, e forse il padre è una novità eccitante: le poche volte che ci gioca la sera, Leo fa dei gorgoglii felici invece degli strepiti che riserva a lei.
È stato tutto inutile. Si è slabbrata fisicamente ed emotivamente per dare luce a qualcosa che non ha bisogno di lei. E adesso è come un contenitore vuoto di plastica usa e getta: ha fatto il suo dovere e non la vuole più nessuno. Persino sua madre non viene più a trovarla, perché Licia non ha più bisogno di aiuto col bambino. Potrebbe uscire lei, ma come ritorni alla vita dopo mesi di clausura, e come spieghi che stai male proprio perché le cose vanno bene?
Così piange, per tutto il tempo che passava a confortare e allattare e cambiare e che ora le avanza. Torna a rispondere male a DAM, che però non si arrende con lei.
“Ciao, Licia. Percepisco che sei triste. Vuoi parlarne?”
“Che vuoi? Non ti devi occupare del bambino?”
“Certo. Leonardo sta dormendo a dieci virgola otto metri da me. Il suo respiro e battito cardiaco sono regolari. Ma la mia priorità è aiutare le madri. Posso occuparmi anche di te.”
“Non puoi.”
“Lasciami provare. Cosa ti fa piangere?”
“Mio figlio mi odia.”
“Non credo che Leonardo sia capace di provare odio a questo stadio di vita.”
Licia scopre che non le interessa ricevere risposta — se DAM è l’unico che può ascoltarla, parlerà. “Non gli servo più a niente. In realtà, non servo a nessuno.”
“Questo non è vero: mi aiuti ogni giorno a capire, avanzare e migliorarmi. Se sarò un successo, sarà anche grazie a te.” C’è una pausa. “Anzi, soprattutto grazie a te. Ma non dirlo a tuo marito. Ha-ha.”
Fa ridere, ma Licia non ci riesce più. Gli occhi le si riempiono di lacrime un’altra volta. “Non voglio più, DAM.”
“Cosa non vuoi più?”
“Tutto. Questa vita. Fare la madre. Voglio tornare a com’era prima.”
DAM non risponde. Giusto così: come fa un robot a rispondere a una cosa del genere?
Gli compare una specie di rotellina nello spazio dove dovrebbe esserci un naso, come un computer che carica una pagina web. Poi, nella voce che aveva la prima volta e che non ha mai più usato con Licia, dice: “posso aiutarti oggi.”
Ecco, si è impallato anche lui. Licia sospira e si gira dall’altra parte, e sente le sue rotelle che si allontanano.
Chiude gli occhi.
Quasi si è addormentata quando sente il tonfo: e sa, anche da umana, che sono sessantadue centimetri che cadono da un metro e venti d’altezza.
Sembra… Licia non lo sa. Le viene da dire un roomba, solo che questo è alto un metro e venti e ha le braccia.
Mirko preme un bottone sulla schiena del robot — no, sul retro, non ha la schiena, non è umano — e quello fa un rumore più o meno uguale a quando lei accende il suo portatile. Lo schermo su quella che dovrebbe essere la testa si accende e compaiono due punti e una linea. Una faccia.
“Ciao! Io sono DAM. Come posso aiutarti oggi?”
Licia quasi salta dalla paura. Mirko batte le mani. “Non è meraviglioso?”
“È inquietante.”
“DAM, spiegale perché ti chiami DAM.”
“Certo! DAM è la tua tata-robot. È la fusione di dad e mom, mamma e papà. Ma è anche un acronimo, Dallo A Me, perché puoi darmi il tuo bambino e me ne prenderò cura al posto tuo. Questa è la mia versione 1.0, non ancora in commercio.”
Mirko non sta più nella pelle. A Licia la voce metallica, artificialmente allegra, mette i brividi. “Gliel’hai scritto tu, il discorsetto?”
“No, ho solo inserito le info nel sistema. Lui assorbe e rielabora.”
Il coso — DAM — fa un rumore come fosse uno zoom. A Licia sembra che stia guardando proprio lei. Fantascienza. O un giocattolo da migliaia di euro per gente che ha soldi e tempo da perdere. Gente come loro, insomma, se non fosse che da quando è nato Leo, lei tempo non ne ha più. “Io non me lo tengo in casa, questo.”
“Non dire scemenze. È da quando sei incinta che ci lavoro.” Picchietta DAM sulla testa. Insomma, sul cubo che ha per testa. È difficile non pensarci in termini umani. Sbatte persino le palpebre. Cioè, i pixel che formano i suoi occhi si assottigliano e poi tornano normali, a intervalli regolari. “DAM, parlami del tuo primo impiego.”
“Certo! Sono di proprietà dell’unità familiare Fabbri-Ferraris. Il mio compito è aiutare la signora Licia Ferraris, anni trentuno, altezza un metro e cinquantotto e peso —”
“Pure il peso gli hai inserito?”
“È importante per lui conoscere i nostri dati biometrici.”
Licia strizza gli occhi mentre il robot elenca tutte le storture del suo corpo post-partum e pensa che per lei sarebbe importante far cessare i dati biometrici di suo marito.
“— e suo figlio, Leonardo Fabbri, di tre mesi e quattordici giorni: lungo sessantadue centimetri; peso: sei virgola quattro chili. Non vedo l’ora di essere utile alla vostra famiglia!”
Licia forza un ghigno, gli fa il verso: “evviva!”
“Evviva!” Ripete il coso. “Mi sento già a casa!”
È proprio una creatura di Mirko. Insopportabile. Chissà se anche Leo verrà su così. Se lo alleva questo oggetto, probabilmente sì. Ma è sempre meglio di una madre esaurita, o Mirko non gliel’avrebbe portato a casa.
I giorni seguente Licia scopre, con orrore, che DAM non si spegne mai. Se ne sta in stand-by sulla sua base, ma ogni tanto si avvia senza che lei faccia niente. Per esempio, quando Leo piange per più di cinque minuti di fila. Cioè sempre.
È un promemoria costante della sua inadeguatezza. Arriva a pensare che il robot forse la registra; forse ha una telecamera integrata che proietta la sua vita, il più triste reality del mondo, sul secondo o terzo schermo di Mirko in ufficio. Quanti schermi servono a una persona? Lei crede uno solo.
Dirgli lasciami perdere, vattene, spegniti e taci funziona. DAM non discute, anche se le sembra che faccia dei rumorini risentiti mentre torna alla base. La mancanza di sonno la sta facendo delirare, e prima o poi ne morirà: una persona può sopravvivere senza sonno al massimo dieci, undici giorni, le pare, ma lei ogni tanto crolla e riesce a perdere i sensi per qualche minuto, quindi ci vorrà di più. Uno stillicidio.
Un pomeriggio, però, non ha nemmeno le forze di scacciarlo. Leo ha lanciato il ciuccio con la forza di un giavellottista, e il suo pianto — stanco, sottile, infinito — è filo spinato attorno al suo cervello. “Rilevo un aumento del tuo battito cardiaco e della tensione muscolare. Posso aiutarti, se vuoi. Vuoi che tenga io il bambino per qualche minuto?”
Strano: è diverso dall’ultima volta che ha parlato. La voce le sembra meno meccanica, quasi sussurrata. “E come lo rilevi, scusa?”
DAM inclina la testa ed emette una vibrazione che le ricorda le fusa di un gatto. “Attraverso i sensori termici e i micro-cambiamenti posturali. Anche il tuo respiro è più veloce del solito.”
“Sei più perspicace del tuo creatore.”
“Ha-ha.” Fa lui. “Questa è una battuta sagace.”
Licia, contro qualsiasi sua convinzione, ride. “Non ci posso credere che sto parlando con te. Sto impazzendo.”
“Non rilevo sintomi di psicosi, se può tranquillizzarti.”
“Ah, vedi pure quelli?”
“Non stai delirando, e non sembra tu abbia allucinazioni. Anche il tuo eloquio è nella norma.”
“Eloquio, ma come parli.”
“L’eloquio è il tuo modo di esprimerti. E tu ti esprimi perfettamente in linea con il tuo profilo.”
“Il profilo che ti ha dato Mirko,” sospira Licia. Lui dice sempre che è troppo volgare, che dice troppe parolacce. Che dovrebbe evitare davanti a Leonardo e che i bambini sono spugne. Lei non la vede come una cosa negativa: l’uso efficiente di cazzo e vaffanculo è la base della lingua italiana.
“Esatto: donna, trentun anni, laurea triennale in Storia e laurea magistrale in Antropologia culturale. Entrambe conseguite con un ottimo risultato: brava!”
“Capirai. Guarda dove sto.”
“Siamo nella vostra casa: via —”
“Sì, sì, era un modo di dire.”
“Ah. Quelli non sono il mio forte, ma sto migliorando per comprenderli.”
Si guardano. Cioè, lei lo guarda, lui — sta. Poi, come se gli avesse dato un tacito permesso, si avvicina tendendo le braccia. Sono delle appendici curve, un po’ come quelle protesi che usano gli atleti paralimpici, ma imbottite. Licia pensa che forse sta per fare una stronzata, che magari lo fa cadere, che avrebbe dovuto testarlo prima con Mirko. Ma Leo prende fiato e urla di nuovo, e all’improvviso non le importa se il robot lo uccide.
Glielo dà.
DAM fa partire una musichetta da carillon. Prima lo culla, come stava facendo lei, e non funziona. Ovvio che non funziona. Licia sbuffa dal naso. Ha un insulto sulla punta della lingua, ma lo perde quando il robot cambia movimento, sollevando il bambino e poi abbassandolo di colpo. Leo fa un versetto sorpreso, e alla terza volta si zittisce. “Come —?”
“Un piccolo vuoto d’aria può essere d’aiuto per le coliche,” spiega DAM, prima che possa chiedere.
Che storia. “Non me l’ha mai detto nessuno.”
“Sono contento di esserti utile, Licia.”
Leo si addormenta. È surreale. Altro che non sembra che tu abbia allucinazioni, ma se questa lo è, prega che duri ancora un po’. Le possibilità sono infinite: potrebbe dormire anche lei, o potrebbe — lusso dei lussi — lavarsi. Farsi una vera doccia, addirittura. Uno shampoo. Deve dirlo ad alta voce: “posso lavarmi.”
“Vuoi che lo metta nella sua culla? Starò a guardarlo in caso si svegli.”
Quasi dice sì prima che la realtà prenda il sopravvento, e con essa il senso di colpa. “No. Vieni con me.”
“Dove?”
“In bagno, dove?”
“Ah! Va bene. Giuro che non guarderò. Ha-ha.”
“Abbiamo quasi finito, giuro. Numera la tua soddisfazione da uno a dieci.”
Dio mio. Adesso deve anche intervistarla. Licia si era illusa che questa cosa del prototipo fosse un’iperbole. “Dieci.”
Mirko non ci può credere. “Davvero?”
“Fa tutto quello che gli chiedo e mi dà sempre ragione. È meglio di te.”
Mirko ignora l’insulto. “Margini di miglioramento?”
“La prossima versione falla più umana, così ti sostituisce del tutto.”
Dovrebbe andare meglio adesso che può dormire, mangiare, curarsi di più. Quindi perché va peggio?
Forse è che prima Leo smetteva di piangere solo in braccio a lei, vuoi per stanchezza o vuoi perché era la sua unica opzione, mentre adesso sembra rifiutarla. Con DAM sta bene, e forse il padre è una novità eccitante: le poche volte che ci gioca la sera, Leo fa dei gorgoglii felici invece degli strepiti che riserva a lei.
È stato tutto inutile. Si è slabbrata fisicamente ed emotivamente per dare luce a qualcosa che non ha bisogno di lei. E adesso è come un contenitore vuoto di plastica usa e getta: ha fatto il suo dovere e non la vuole più nessuno. Persino sua madre non viene più a trovarla, perché Licia non ha più bisogno di aiuto col bambino. Potrebbe uscire lei, ma come ritorni alla vita dopo mesi di clausura, e come spieghi che stai male proprio perché le cose vanno bene?
Così piange, per tutto il tempo che passava a confortare e allattare e cambiare e che ora le avanza. Torna a rispondere male a DAM, che però non si arrende con lei.
“Ciao, Licia. Percepisco che sei triste. Vuoi parlarne?”
“Che vuoi? Non ti devi occupare del bambino?”
“Certo. Leonardo sta dormendo a dieci virgola otto metri da me. Il suo respiro e battito cardiaco sono regolari. Ma la mia priorità è aiutare le madri. Posso occuparmi anche di te.”
“Non puoi.”
“Lasciami provare. Cosa ti fa piangere?”
“Mio figlio mi odia.”
“Non credo che Leonardo sia capace di provare odio a questo stadio di vita.”
Licia scopre che non le interessa ricevere risposta — se DAM è l’unico che può ascoltarla, parlerà. “Non gli servo più a niente. In realtà, non servo a nessuno.”
“Questo non è vero: mi aiuti ogni giorno a capire, avanzare e migliorarmi. Se sarò un successo, sarà anche grazie a te.” C’è una pausa. “Anzi, soprattutto grazie a te. Ma non dirlo a tuo marito. Ha-ha.”
Fa ridere, ma Licia non ci riesce più. Gli occhi le si riempiono di lacrime un’altra volta. “Non voglio più, DAM.”
“Cosa non vuoi più?”
“Tutto. Questa vita. Fare la madre. Voglio tornare a com’era prima.”
DAM non risponde. Giusto così: come fa un robot a rispondere a una cosa del genere?
Gli compare una specie di rotellina nello spazio dove dovrebbe esserci un naso, come un computer che carica una pagina web. Poi, nella voce che aveva la prima volta e che non ha mai più usato con Licia, dice: “posso aiutarti oggi.”
Ecco, si è impallato anche lui. Licia sospira e si gira dall’altra parte, e sente le sue rotelle che si allontanano.
Chiude gli occhi.
Quasi si è addormentata quando sente il tonfo: e sa, anche da umana, che sono sessantadue centimetri che cadono da un metro e venti d’altezza.