“Bel modo di controllare il bagaglio” rifletté. Le si sedette accanto e la guardò: le guance accaldate spiccavano sul dolcevita nero. All’anulare sinistro portava una sottile fedina d’oro.
“Se fingo di dormire” pensò Auretta, “mi verrà sonno sul serio. E almeno una mezz’ora passerà”. Aveva preso due pillole di valeriana e il sonno vero non tardò ad arrivare.
Mario rispose a un paio di e-mail e lesse la rassegna stampa aziendale. Il ritardo del volo lo infastidiva, e il colloquio con l'avvocato del giorno precedente pure. E poi quella ragazza, che gli aveva chiesto un’informazione al check-in e non l’aveva più mollato!
Chiuse gli occhi e infilò gli auricolari.
Qualcosa di peloso gli sfiorò l’orecchio destro: si ritrasse e portò la mano alla guancia, per grattarsi. Il capo della ragazza, lentamente, si reclinava sulla sua spalla, e i capelli gli solleticavano la tempia. Ecco cos’era quel pizzicore.
Rimase immobile per qualche secondo, poi sfilò piano gli auricolari. Era turbato: un contatto tale presupponeva un’intimità che non c’era. Sentiva profumo di neonato: pensò alla piccola figlia e ai baci allegri che le dava dopo il bagnetto.
Si accorse che la testa femminile stava scivolando lungo il suo petto. Ne rallentò la caduta con entrambe le mani, e con delicatezza se l'accomodò sulle cosce. Arrotolò un ricciolo della ragazza intorno al dito indice, sfiorò col dorso della mano la guancia liscia come un'albicocca. Non prese in considerazione l’eventualità di svegliare quella sconosciuta.
Lo colse un desiderio violento di baciarle il viso. Si trattenne e continuò a guardarla.
«Ehi! Ma dove sono? Cosa ci faccio sulle sue ginocchia?»
«Si è addormentata sulla mia spalla e poi è scivolata giù. Avrei dovuto svegliarla, mi dispiace.»
«No, ha fatto bene. Almeno è passato un po’ di tempo, spero. Mannaggia ai ritardi. È quasi ora di pranzo, voglio mangiare. Mi accompagna?»
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«Per me una fetta di torta rustica agli spinaci, una macedonia e un muffin al cioccolato, grazie.»
«Io prendo un fiordilatte, un’insalata mista e due pere. Le va di sederci a quel tavolino laggiù?»
«Certo.»
«Vogliamo presentarci come si deve? Mi chiamo Mario Ercoli.»
«Io sono Auretta. Che lavoro fa? Dalle sue mani direi un lavoro d’ufficio.»
«Sì, più o meno. Lei di che si occupa?»
«Sono segretaria in uno studio dentistico. Una noia mortale. Però ho un hobby: mi piace fare i massaggi, leggere la mano. Credo di avere talento. Non mi ha detto però che lavoro fa.»
«Lavoro in banca. O, meglio, per le banche.»
«Come mai va a Berlino? Io a trovare mio fratello che fa lì il cameriere. Mi ha regalato questo biglietto e ha detto che se stavolta non vado non mi vuole più vedere.»
«E perché mai?»
«Dice che sono piena di fissazioni, che non mi muovo mai da casa perché sono un grumo di paure. Il fatto è che non sono mai montata su un aereo in vita mia. Ho il terrore assoluto. Ecco, l’ho detto.»
«Mai? Neppure una volta? E allora come fa a sapere che ha paura? Non è logico.»
«Non c’è niente di logico nella paura.»
«Vero. Se pensa che sia utile, in aereo possiamo cercare di sedere vicini.»
«Lei perché va a Berlino?»
«Questioni di lavoro, rischierei di annoiarla. Parliamo invece della sua paura di volare. Magari potrei darle dei consigli, e inganneremo un’altra oretta.»
«Lei è destrorso o mancino?»
«Cosa? Ma che…?»
«Risponda, non è difficile: scrive con la mano destra o con la sinistra? Ho notato che prima ha preso il telefono con la destra, ma può non essere significativo. Risponda, su.»
«Scrivo con la mano sinistra. E allora?»
«Allora io so leggere la mano, e ho avuto modo di dare un’occhiata alle sue. Però non mi permetterei mai di intromettermi nella sua vita privata con la stessa facilità con la quale lei ora si sta intromettendo nelle mie paure. Mi ero tenuta sul vago: lei mi avrebbe raccontato cosa va a fare a Berlino e ci saremmo distratti parlando di cose leggere, poco importanti.»
«Cosa le fa pensare che il motivo del mio viaggio sia "leggero e poco importante"? E cos’è questa ridicolaggine della lettura della mano? Non mi dirà che crede a quelle scemenze.»
«Lei ha un piccolo cerchio sulla linea del cuore. Ed è presente in entrambe le mani.»
«La smetta.»
«Avrebbe bisogno di un massaggio rilassante alla schiena. È nervoso, agitato. Guardi che fa male alla salute.»
«Vuole massaggiarmi la schiena? Se ciò le tappa la bocca, accetto con piacere.»
«Non dica idiozie. Bisogna avere il torso scoperto, e stare sdraiati bocconi. Se vuole, però, possiamo tentare un massaggio del collo. Si tolga la cravatta, e slacci i primi bottoni della camicia. Non oltre il terzo.»
«Qui, nel ristorante dell'aeroporto? Lei è matta.»
«Che c’è di male? Forza, si tolga la cravatta. Sono sempre felice di esercitarmi.»
«E se arriva l’aereo? Non voglio correre all’imbarco con la cravatta in mano.»
«Hanno detto che il ritardo è di tre ore. Io in quindici minuti ho finito.»
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Mario pensò con sollievo ai minuti di silenzio che lo attendevano: eseguì gli ordini e le volse le spalle. Auretta tirò fuori dalla borsa un flaconcino di olio profumato al bergamotto e lo distribuì con delicatezza sulla punta delle dita.
«Abbassi il colletto della camicia. No, non così. Lo pieghi verso l’interno. Ora chiuda gli occhi.»
Le ragazza spinse vigorosamente i pollici alla base del collo e premette più volte le fasce muscolari. Cominciò a impastare e strizzare con movimenti potenti che dalle orecchie scendevano verso le spalle e da lì risalivano carezzando.
Squillò il telefono, e Auretta lasciò di colpo la testa.
«Che diamine! Mi ero quasi addormentato… perché è stata così brusca?»
«Mi scusi, ho sentito il telefono squillare e mi sono innervosita.»
Tirò fuori dalla borsa una salvietta umidificata profumata di lavanda e la passò ripetutamente tra le dita. Sfilò la fedina e la mise nel borsellino. Si avvolse intorno alle spalle uno scialle di lana arancione lavorata ai ferri, afferrò una rivista e fece finta di leggere.
«Il massaggio è stato fantastico. Lei è un’artista. Va tutto bene?»
«Sto leggendo, non vede? Si riassesti camicia e cravatta: è in disordine.»
La voce suonò aspra e Mario provò vergogna: era stata lei a dirgli di slacciarsi la camicia fino al terzo bottone, e ora lo guardava con disprezzo. Fece il nodo alla cravatta, infilò la giacca, prese il tablet e si allontanò.
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Auretta teneva gli occhi fissi sulla pagina aperta.
Una corrente dolorosa e fredda l'attraversava per intero: era logico che Lucio la tradisse, pensò. Era una bambina piccola, così piccola che avrebbe potuto stare nel palmo di una mano. Era una spaurita bambina, coi piedi scalzi e le trecce scomposte, i vestiti laceri e il volto rigato di lacrime. Le era sufficiente un mazzetto di fiori per essere felice, come poteva competere con una bionda dottoressa dalle dita inanellate?
«Ho bisogno di un caffè bollente», disse a voce alta e passando le dita nei capelli castani.
Guardò intorno e non vide nessuno. Dov’era finito quel signore distinto che le avrebbe permesso di sopportare il tempo che la separava dalla partenza? Doveva parlare con qualcuno per non ascoltare sé stessa.
«Ah, eccola qui. Le offro un caffè. Torna a sedersi?»
«No, grazie.»
«No grazie al caffè o a farmi compagnia?»
«No grazie a entrambe le cose.»
«Perché è così scortese? Un caffè bollente, per piacere.»
«Visto che lei è qui, io torno in sala d’aspetto.»
«Oh, le sono proprio antipatica! E dire che mi piaceva parlare con lei.»
«Non mi è antipatica, mi innervosisce. Quindi cerco di porre una certa distanza tra noi due.»
«Anch’io ho un piccolo cerchio sulla linea del cuore. So come ci si sente.»
«Come ci si sente cosa? Ora ricomincia a parlare a vanvera?»
«Non faccia finta di non capirmi. Mi riferisco a quel peso sullo stomaco, alla tristezza che annebbia il cervello. Su, non può non conoscere quella sensazione. Come la chiama lei? malinconia, inquietudine, pessimismo sconsolato?»
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Mario era in piedi davanti a lei, che nel frattempo si era seduta e aveva poggiato la tazzina sul tavolo.
Si guardò il palmo delle mani e notò in entrambe un piccolo cerchio sulla linea più vicina alla base delle dita.
«Se si siede, le spiego meglio. Non è l’unica caratteristica che ho potuto osservare. Ha perso la parola?»
Non le rispose. Osservò lo scialle arancione di lana bucherellata, con le frange svolazzanti: non vedeva un indumento simile dai tempi della sua infanzia. Sedette.
«Lei ha quel cerchietto sulla linea del cuore, che indica tendenza alla malinconia. La linea del cuore, però, è molto accentuata: mi dia le mani, glielo faccio vedere. Noti che solchi: sono l’eco di sentimenti appassionati e tenaci.
Guardi ora la linea della mente: è lunga e profonda. Sa cosa significa? Chiarezza di pensieri, sete di conoscenza, intelletto vigoroso.
La linea della vita è dritta e vicina all’estremità del palmo, e ciò indica cautela nelle relazioni.
Ora osservi bene: la sua linea del successo parte da quella del destino. Non lo avevo mai visto prima. Vuol dire che una costante applicazione l’ha condotta a una carriera ricca di soddisfazioni. Guardi attentamente il suo monte di Venere, questa zona al di sotto del pollice: se è gonfia e rosea indica energia ed entusiasmo per la vita. E lei ne ha da vendere.»
Mario aveva l’impressione di parlare con un essere venuto da un altro pianeta. Eppure, capiva la sua lingua, e i concetti espressi erano chiari. Lettura delle mani? Era sconcertato. Prima aveva pensato a uno scherzo, e invece ora quella donna scesa da un’astronave gli aveva raccontato sé stesso esaminando linee casuali che lui neppure sapeva di avere.
Ma come era riuscita a osservare con quella diligenza le sue mani? Cercò di dire qualcosa ma dalla bocca usciva solo il respiro, e la ragazza penetrò con garbo nella sua afasia.
«Mio fratello ha ragione. Ho paura di svegliarmi cieca, di morire mentre dormo. Ho anche l’angoscia che mi amputino le braccia, oppure di vomitare in mezzo alla strada.»
Bevve il caffè amaro, poi aprì due bustine di zucchero di canna e le versò delicatamente nella bocca. Schiacciò fra i denti i granelli dorati e poi lasciò che si sciogliessero. Deglutì e respirò con soddisfazione.
«È una tecnica che le ha insegnato il suo dentista?»
«Ah! Certo che no. Amo lo zucchero e me lo mangio, tanto sono magra, che m’importa? Comunque, tornando alle paure, qualcuno mi disse che nascondono tanta voglia di vivere.»
«Lei ha detto su di me cose generiche, che si attaglierebbero a milioni di persone.»
«Dalla sua reazione non si direbbe. Penso invece di aver colto nel segno. E comunque non le ho detto proprio tutto.»
«Ah, no? E quali altre stupidaggini mi vuole propinare? Me la immagino con un turbante in testa davanti a una palla di vetro a ingannare qualche poveretto. Con quello scialle che indossa sarebbe perfetta.»
«Non le piace? L’ha lavorato ai ferri la mia bisnonna. Lo porto sempre con me.»
«Mi scusi, non lo sapevo.»
«Uh, che bello, è passata un’altra ora. Vogliamo tornare in sala d’aspetto? Da qui non si vedono i cartelloni coi voli.»
«Prima voglio sapere cosa mi ha tenuto nascosto.»
«Promette che non si arrabbierà, e non mi terrà il muso fino alla fine del viaggio? Prometta solennemente.»
«Sì, sì, prometto.»
«Scherza? Pretendo una promessa come si deve. Ripeta con me: “Lo sai cosa vuol dire essere amici? / Vuol dire che non mi tradisci mai. / Che io ci credo, a tutto ciò che dici, / che io mi fido, di tutto ciò che fai. / Vuol dire che qualunque cosa accada / io da te non mi aspetto nessun male”.»
«Ma… no, non è possibile! Lei è completamente matta. Ma quanti anni ha, mi scusi? A occhio, direi una trentina. E ancora si trastulla con le filastrocche? Ho bisogno di una boccata d’aria, soffoco.»
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Auretta tirò fuori il cellulare e notò altre chiamate perse da parte di Lucio. Oh, ancora la cercava, quel traditore?
«Senta, sono stato un po’ brusco, le chiedo scusa. Mi dia il tempo di abituarmi ai suoi discorsi assurdi. Tenga, guardi: le do le mie mani. Cos’è che non mi ha detto?»
«È sufficiente la sinistra. La poggi sul tavolo. Vuole veramente saperlo?»
«Sicuro. Avanti.»
«Vede questa piccola protuberanza sotto il dito indice? Si chiama monte di Giove.»
«E allora?»
«Guardi con attenzione: c’è un piccolo segno a forma di ypsilon. Lo vede?»
«Sì, lo vedo. Lei è esasperante.»
«Questo segno indica inequivocabilmente la fine di un matrimonio. Ecco, l’ho detto. Mi dispiace.»
Mario ritrasse la mano e la guardò negli occhi. Auretta aveva abbassato lo sguardo e teneva le mani una sull’altra, poggiate sul tavolino in modo compito.
«La comprendo, sa? È dolorosissimo. Che fa, non mi parla? Ha visto che avevo ragione? Non dovevo dirglielo.»
Prese la borsa e tornò in sala d’aspetto.
Si sedette e scoppiò in singhiozzi. Non riusciva a smettere di piangere. Desiderava che qualcuno l’abbracciasse così forte da farle male e con l’abbraccio le facesse schizzare fuori dal corpo quel dolore che non l’abbandonava mai. Che le leccasse dalle guance tutte le lacrime, e baciandole gli occhi le dicesse piano che quella sofferenza aveva un senso, e il senso erano quei baci dolci, piccoli fiori mattutini.
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Mario la vide e si avvicinò. Lei teneva ancora il viso tra le mani e piangeva senza ritegno.
Le si sedette accanto e attese qualche minuto. Voleva che si accorgesse di lui, ma i singulti e i palmi schiacciati sugli occhi lo impedivano. Temette di essere stato la causa di quella disperazione. Forse poteva stringerla in un abbraccio e tentare così di calmarla. Con la piccola figlia ci riusciva quasi sempre, e la pediatra gli aveva detto che era un ottimo metodo.
Le cinse le spalle con le braccia e la accostò delicatamente a sé: di nuovo una fragranza colma di tenerezza lo fece tremare.
Si scostò un poco, intimorito dal suo stesso desiderio, ma Auretta ormai aveva accolto quell’abbraccio certa che si trattasse di un sogno, e si era stretta a lui sperando di trovare sollievo in quella fantasia così reale.
Mario le carezzò il capo morbido di capelli e lei si abbandonò al suo dolore baciando a lungo con passione la bocca di uno sconosciuto.
Poi si addormentò tra le sue braccia e sognò che la madre aveva mandato un angelo dal cielo per consolarla.
La filastrocca citata è di Bruno Tognolini