L’alba l’aveva colta alla fermata del tram: l’odore della notte di città appiccicata ai vestiti come il fumo che da tempo le si era infiltrato nella pelle e nei pensieri.
Biascicava saliva amara, mentre una zanzara avida lamentava il suo magro pasto.
Per lei il tempo era un difetto della mente, la pazienza una dote che aveva scoperto di avere con l’età.
Le parole? Non le servivano a molto. Sapeva quelle necessarie per scucire ai passanti qualche spicciolo. Magari un bicchiere di vino. Conosceva anche qualche imprecazione, le riteneva molto utili per difendersi specie se accompagnate da robuste dosi di sputi.
La barbona non si prendeva neppure la briga di coniugare i pochi verbi che sapeva. Trovava che l’infinito fosse perfetto. Così “mangiare”, “bere”, “fumare” avevano da tempo sostituito tutta una inutile serie di frasi che avrebbero avuto solo il fastidioso effetto di distoglierla dalle sue riflessioni.
La fermata del sessantuno a poco a poco si era riempita di varie umanità. Immagini di donne, uomini e ragazzi, si srotolavano davanti ai suoi occhi come pellicole di un vecchio film. Questi riuscivano a scansare con abilità il cartone dove era sdraiata, scivolandole accanto senza degnarla di uno sguardo, coi volti impietriti, affamati d’aria. Frettolosi, andavano a stiparsi il più lontano possibile da lei. Aliti di caffè si mescolavano con sentori di dopobarba a buon mercato in un variegato ribollire di odori che avevano il profumo fresco delle case al mattino.
Lina, così si chiamava la senzatetto, adorava la libertà che le era concessa dalla sua condizione. Nessuno sapeva che età avesse. A volte era così sporca che si durava fatica a vederle gli occhi.
C’era chi pensava che fosse ancora piuttosto giovane e chi giurava di averla vista da sempre in città.
Doveva essere stata bella, Lina. O forse lo era ancora.
Una volta uno zelante giornalista aveva cercato di intervistarla. Una risata irrefrenabile e sguaiata aveva fatto sussultare il suo scherzo di seno al solo ricordo.
«Perché ha scelto questa vita?»
«Cosa le è capitato?»
«Ha figli?»
«Ha avuto problemi con il fisco?»
Lei non aveva mai sentito domande più idiote. Ricordava solo che per tutta risposta aveva scorreggiato. Così, l’intervista era sfumata nel fragore di un peto.
Il tram doveva essere in ritardo quella mattina. Ormai la gente non faceva più caso alla presenza della barbona e aveva calpestato ricche porzioni del suo cartone accalcandosi sulla piccola striscia di marciapiede; Lina avrebbe dovuto cercarne un altro più tardi; quello ormai era divenuto inservibile.
Fu mentre cercava di alzarsi per andare via da quel delirio di umanità, che lo vide.
Sulle prime non lo aveva riconosciuto. Poi, una folata di vento improvvisa, gli aveva portato il suo odore. Una inconfondibile essenza muschiata mista a un ricordo di liquirizia. L’aroma dolce di una miscela di tabacco che ricordava fin troppo bene. Un tempo lo fumava il suo uomo, ed era l’unico momento in cui lei poteva rilassarsi un poco. Sembrava che ritrovasse la calma, quando lui assaporava con lente boccate la sua pipa, prima del delirio alcolico.
Ormai non le avrebbe più fatto male, né a lei né a nessun’altra, sorrise.
Poi, lo sguardo corse verso le mani del fumatore sconosciuto. Rabbrividì.
Sul dorso della mano che reggeva il fornello c’era il tatuaggio di un asso di picche. Un conato di vomito le invase la gola. Sentì pulsare il cuore nel collo e faceva fatica a respirare. Chiuse gli occhi, ingoiando il dolore del ricordo che la tormentava da settimane.
L’uomo continuava a fumare tranquillo come se non l’avesse riconosciuta.
Ma Lina poteva sentire ancora la stretta delle sue dita tozze che la frugavano dappertutto. Si era difesa come poteva. Le aveva morse, quelle dita. Forte. Così forte da perderci uno dei suoi ultimi denti buoni. Lei, una lurida scommessa tra porci.
Se te la fai ti paghiamo il prossimo giro!
Quell’animale l’aveva presa da vigliacco: alle spalle. Non le aveva dato il tempo di reagire, di scappare. Un coro di animali che le pareva provenire dall’inferno lo incitava a consumarla sempre più forte. E lui l’aveva violata da dietro, bloccandole la testa con una mano per non farla voltare. L’aveva abbandonata lì come uno straccio tra i rifiuti, con una risacca di voci nella testa, il corpo piegato da dolore e l’anima ferita dall’umiliazione.
Cazzo, l’hai fatto davvero!
Vecchia puttana!
Dalle fuoco!
Poi, era stato il vuoto. Per ore, per giorni. Non avrebbe saputo dirlo. Forse avrebbe preferito essere morta, ma alla fine si era ripresa.
Lina non aveva mai capito fino in fondo cosa fosse un desiderio, prima di allora.
Ora, lo sentiva ardere nelle vene e tenderle i muscoli come la corda di un arco pronto a scoccare la freccia.
Vendetta, questo era il suo desiderio. Doveva pensarci da sola, volersi bene. Del resto, chi l’avrebbe mai creduta? Non aveva un volto da riconoscere, aveva solo un tatuaggio.
Una volta acceso, il faro del desiderio l’aveva guidata. Era stato più facile del previsto procurarsi un coltello. Se ne era fatto scivolare uno in tasca alla mensa dei poveri. Oh, ma quello non lo usava mai per mangiare. Quello doveva servire per esaudirla, un giorno.
Lei teneva molto al suo coltello. Lo lucidava, ci parlava ogni notte. Era divenuto un inseparabile compagno, un segreto confidente.
Lina era stata paziente e ora il destino le aveva finalmente riservato una buona carta. Proprio quando meno se lo aspettava, le aveva servito il suo aguzzino.
Il desiderio, affilato come la lama del coltello che stringeva tra le mani, bussava alla sua testa prepotente. Lucido come può essere un pensiero folle.
Inattesa, la giustizia si era piegata al suo richiamo. Rideva, Lina, stupita per quella fortuna insperata.
Approfittando della confusione si fece largo tra la gente. Il tram stava per arrivare, ma Lina non aveva fretta. Voleva assaporare ogni attimo. Allungò un poco il passo, ma solo per superare il suo bersaglio. Voleva guardarlo negli occhi mentre affondava la lama. Non lo avrebbe mai colpito alle spalle: non era una vigliacca, lei.
Quando gli fu abbastanza vicina, l’uomo ebbe un sussulto. Il viso imperlato da un pallido stupore, si contrasse nella beffa di una smorfia prima che il corpo si accasciasse a terra.
Lina fu travolta da una nuvola di gente stordita.
«Fate largo, per favore!»
«Chiamate un’ambulanza! Presto! Quest’uomo ha bisogno di aria!»
Nessuno si accorse di lei. Un fiotto di lacrime caldo irrigava i solchi inariditi dei suoi occhi.
«È morto. Un infarto, pare.»
Il sessantuno era arrivato e i viaggiatori si accalcarono alle porte per salire; le voci concitate si persero nello stridore dei freni.
Sul marciapiede rimasero un lenzuolo bianco, una coltello dalla lama lucente e una donna dal desiderio infranto.