[Lab2] A. Heimer

1
Io.
Spalanco gli occhi d’improvviso.
Ho dormito?
Sì, penso di sì, anche se non ricordo di essermi coricato. In realtà non riesco a rammentare nulla della notte precedente.
Però la ragnatela di torpore che appesantisce le palpebre non lascia dubbi: ho dormito. E l’ho fatto a lungo. Forse tanto a lungo da averne perso la memoria.
No, non è possibile, come posso aver dimenticato una cosa del genere?
Potrei essermi sbronzato, ieri, sì, ma non riesco a crederlo. Non c’è lotta con i postumi dell’alcol, no, è qualche cos’altro.
Qualcosa di esterno, perché io…
Io…
Io?
Chi
sono
io?
Il petto si stringe di paura.
Io sono…
Non lo so.
La mente è vuota. Scruto in ogni angolo ma non c’è nessuno qui dentro. Non c’è nulla.
Sono un guscio disabitato.
Tremo. L’onda di panico mi sommerge.
Sfuggo serrando nuovamente le palpebre. Cancello ogni sensazione dietro al confortevole mantello della loro oscurità.
Stai calmo, mi dico. Respira normalmente e concentrati.
Magari è un incubo, uno di quelli in cui sogni d’essere sveglio.
Adesso apri gli occhi davvero e tutto sarà normale…

Sopra di me roteano silenziose le pale di un ventilatore.
L’occhio segue il loro girovagare lento, costante. Il loro spingere fili d’aria dal soffitto giù verso il letto: soffi appena percepibili nella vampa della stanza.
Una goccia di sudore scivola dalla fronte fino all’orecchio. Indugia un istante e poi corre dietro al collo; lì, tocca il cuscino e svanisce per sempre.
Accolgo la concretezza di queste percezioni come un appiglio tra i flutti, perché non ho idea di dove mi sono risvegliato. Ancora non ho memorie.
Provo paura, ma non come poco fa. Non mi pervade quel panico assoluto. Adesso è come se il mio corpo avesse preso il comando. Mi dice di stare attento, di non fare errori. Mi sussurra pericolo.
E io gli obbedisco.
Perlustro l’ambiente muovendo solo lo sguardo.
La luce è poca ma sembra vibrare nell’aria. Entra a fasci tra i listelli di una persiana serrata, accende i pulviscoli galleggianti.
La finestra è aperta. Le tendine pendono immobili, lasciano passare suoni soffusi di strada, parlottare indistinto. Una risata femminile.
Da lontano, il perpetuo frinire delle cicale. Un ritmo che mi dà conforto, che sa di casa.
Sono a casa, dunque?
Sento di no. Come se vi sia una nota falsa.
Perché non ricordo da dove vengo, né, tantomeno, chi sono.
Il battito accelera spaventato. Anticamera del panico montante: non voglio cedervi.
Mi concentro sul movimento del diaframma, lo rallento. Focalizzo l’attenzione sull’aria che scorre verso i polmoni e poi fuori, attraverso la gola, il naso. Libera.
Non so perché lo faccio, dove e quando abbia imparato, ma questo automatismo funziona. Il corpo si rilassa mentre la mente sembra focalizzarsi, sembra fissare un bersaglio, nitido nel mirino. Come se null’altro esistesse.
Un bersaglio?
Io con un fucile. Il legno duro contro la guancia, l’indice rigido sul grilletto. La tensione prima dello sparo.
Forse è un ricordo.
Sangue.
Balbetto:
-Chi sono io?
E inaspettata giunge una risposta…

Volto rapido la testa a sinistra, da dove è arrivato l’inatteso suono.
Sdraiata su due poltrone, una ragazza.
Non ha risposto alle mie parole, in realtà: dorme. Finisce il suo movimento, accompagnato da sussurri sconnessi, e torna quieta.
La mia guardiana?
Non riesco a distinguere bene il viso ma sembra giovane. Potrebbe avere trent’anni.
Più o meno come me.
Sorrido.
Un altro ricordo. La casa, il fucile, l’età.
E io sono…
Sono…
No, maledizione, ancora niente.
Vorrei urlare di rabbia. Vorrei afferrare per il collo la ragazza e costringerla a dirmi tutto. Scuoterla con tale forza da farle confessare quel che mi hanno fatto.
Ho l’impulso di farlo, quasi irrefrenabile, ma nuovamente il corpo sa controllare la mente e impone calma.
Nulla d’avventato deve essere fatto, il pericolo è grande e non posso farmi sopraffare.
Sì, nella rete di frammenti che provano a emergere, trovo l’urgenza di uno scopo. Ancora mi sfugge quale sia, ma preme sulla mia volontà dicendomi fuggi!

Sono seduto sul letto.
La schiena madida di sudore. Dov’ero sdraiato, l’alone della mia sindone.
Non distolgo gli occhi dall’addormentata, mentre cauto appoggio un piede sul pavimento. La piastrella è fresca, piacevole, e la ragazza ha lineamenti dolci e armonici.
È bellissima.
Tra i braccioli delle due poltrone, sta rannicchiata. Lunghe gambe rosee, quasi bianche sul tessuto scuro. Pantaloncini da ginnastica e una canotta. Neri, come i suoi lunghi capelli.
Ne fisso il viso, cerco memoria di lei ma è solo una sensazione. Come se sapessi, ma il ricordo fosse appena fuori dalla vista, lì, in un angolo cieco.
Senza distogliere lo sguardo, mi rizzo in piedi.
Le gambe rispondono fiacche, la schiena si raddrizza lentamente.
L’intero corpo reagisce cauto, pauroso.
Non capisco cosa succede. Perché questa debolezza?
Alzo un braccio, porto la mano nel campo visivo e rimango stupefatto.
La pelle è molle sui tendini del dorso, le vene risaltano orribili. È magra, maculata. Secca.
È la mano di un vecchio, ma non è possibile.
Mi guardo intorno frenetico, devo capire.
Al di là del letto c’è un vecchio armadio a sei ante di legno scuro, quasi nero. È lavorato a intarsi e scanalature, con un lungo specchio appeso all’anta centrale. Uno specchio a figura intera.
Devo vedere.
Gambe non mie mi fanno avanzare. Sono rigide, doloranti, parte di un corpo estraneo.
Cosa mi hanno fatto?

Sono appoggiato con entrambe le mani allo specchio. Tra i riflessi delle braccia, mi guardo con occhi che non sono i miei. Osservo da un volto scavato e sconosciuto, un corpo ossuto dentro una ridicola canotta bianca e boxer troppo abbondanti.
Non sono io…
non
sono
io!
Mi volto lentamente verso la mia guardiana dormiente, il contenitore di carne in cui mi trovo freme di rabbia.
Io ho poco meno di trent’anni, io non sono questo.
Me lo hanno fatto loro. Loro mi hanno intrappolato qui.
Faccio due passi verso la ragazza e ciascuno genera nuova consapevolezza.
Questa casa che sento mia, le cicale che mi cullano: adesso so che è tutto falso! Sono fantasmi d’altri tempi. Abitazioni che non esistono più, animali estinti.
La mia mente in questo corpo così debole, la memoria anestetizzata, sono la prigione perfetta. Una tecnologia costosa ma conosciuta.
Brucio di furore.
Raggiungo le due poltrone. Nonostante la fiacchezza del corpo, sono convinto di poter sopraffare la ragazza ed eliminarla.
Posso afferrare il suo collo e spillarne via l’ultimo respiro. Vendicarmi.
Bramo farlo, ma temo che altri guardiani possano intervenire e impedirmi la fuga. Invece io devo scappare, perché se mi hanno fatto questo è per cancellare qualcosa che ho scoperto. Se mi avessero ucciso, avrebbero attirato l’attenzione della mia fazione, quindi hanno provato a neutralizzarmi così.
Ma se fuggo, forse i miei potranno recuperare le informazioni e forse, persino, rimettermi in un corpo adeguato…

Chiudo la porta della camera.
Dall’altro lato, la ragazza dorme ancora, ignara di dovermi la vita. Spero di non pentirmene, in futuro.
Mi guardo intorno.
La nuova stanza è illuminata dal sole. Anche qui hanno ricostruito il passato e sembra di essere in un museo. Il divano di stoffa verde, polverosa. Un tappeto floreale un po’ consunto, illuminato in un angolo dal fascio di luce dalla finestra e, costante, il rumore della strada e il frinire delle cicale.
Un tavolo scuro con quattro sedie. Al centro, un ricamo bianco con sopra una fruttiera decorata a limoni gialli.
Tutto come da manuale, sono bravi.
Ma non c’è nessuno.
Sorrido, si sentono troppo sicuri. Mi sottovalutano e io ne approfitterò.
Due porte si affacciano sulla stanza, identiche tra loro.
Mi avvicino alla prima.
Appoggio la mano sulla maniglia, fredda al tatto.
D’improvviso la vista si annebbia. È un attimo, ma capisco di essere più debole di quanto credessi. Devo fare in fretta, uscire da questa prigione e capire dove mi trovo. Ricordare finalmente.
La maniglia si abbassa silenziosa e socchiudo la porta di quel tanto che basta a far capolino.
C’è buio al di là, e un ritmico russare.
Ecco dov’è la seconda guardia.
Devo andarmene, fuggire.
E sto per farlo, quando noto una pistola su un ampio scrittoio.
La mia vendetta, la mia difesa.
Scivolo nella stanza. Dalla finestra filtra abbastanza luce da distinguere librerie colme e un uomo che dorme su un divano. Indossa la divisa degli altri.
I pedi appiccicano sul parquet mentre m’intrufolo, ma è un suono talmente lieve che raggiungo l’arma senza che lui si accorga di me.
So cosa devo fare.
Mi avvicino al divano e sollevo la pistola verso il soldato. Sono così debole che il braccio trema per il peso del ferro, ma da questa distanza non posso sbagliare.
Curvo l’indice sul grilletto…

D’improvviso s’accende la luce.
Sulla soglia la ragazza. Sapevo che me ne sarei pentito.
Eppure, non sembra avere armi e il suo sguardo è terrorizzato, non aggressivo.
Parla, ma non posso sentirla. Le orecchie sono colme del suono d’uno spezzarsi. Come l’aprirsi di lunghe crepe sul giaccio, o su uno specchio.
Il suo volto.
Trovo parte di me in lei.
Perché io…
Frammenti dello specchio s’infrangono nella mia mente.
L’uomo in divisa si è svegliato e anche lui mi parla spaventato.
C’è di me anche in lui.
Perché loro…
Io…
Infine, crolla.
Sfibrato dall’intreccio di crepe, lo specchio frana a terra.
E dietro, io.
Io che so chi sono, infine.
E mio figlio nella divisa da poliziotto, e mia nipote sulla soglia.
Io, noi, e la malattia che mi consuma la mente.
Che inesorabile uccide il presente e mi fa vivere nel passato, o, peggio, come ora, credere di essere l’eroe creato dalla mia penna. Dalla mia fantasia.
La malattia che a volte mi libera e, per poco tempo, mi lascia essere chi sono davvero.
Come ora.
Disperarmi per ciò che ero e per il peso che sono per chi mi ama…

Con orrore vedo la pistola tra le dita.
So ciò che stavo per fare a mio figlio, o ad Aurora, nel mio caos mentale…
Piango.
Non è vita.
Io
non
voglio
essere
questo.
Ruoto l’arma e la punto alla mia gola.
Non più, non più!
Abbasso le palpebre…

Io.
Apro gli occhi all’improvviso.
Mi guardo attorno, non capisco dove sono.
Perché stringo una pistola?
Io…
Chi
sono
io?

Re: [Lab2] A. Heimer

2
L ha scritto: Frammenti dello specchio s’infrangono nella mia mente.
L’uomo in divisa si è svegliato e anche lui mi parla spaventato.
C’è di me anche in lui.
Perché loro…
Io…
Infine, crolla.
Sfibrato dall’intreccio di crepe, lo specchio frana a terra.
E dietro, io.
Io che so chi sono, infine.
E mio figlio nella divisa da poliziotto, e mia nipote sulla soglia.
Io, noi, e la malattia che mi consuma la mente.
Che inesorabile uccide il presente e mi fa vivere nel passato, o, peggio, come ora, credere di essere l’eroe creato dalla mia penna. Dalla mia fantasia.
La malattia che a volte mi libera e, per poco tempo, mi lascia essere chi sono davvero.
Come ora.
Disperarmi per ciò che ero e per il peso che sono per chi mi ama…
Caro @L'illusoillusore    :)

A te vorrei parlare del Pov in prima persona. con riferimento al paragrafo citato sopra.
A me suona strano che, in un momento di lucidità, il vecchio "sappia" anche dei momenti in cui è in preda alla malattia. Che sappia quale sia il suo male, ossia quello che uccide il presente...
Non so se mi spiego ma, come il malato, nelle crisi, dimentica chi sia, così nelle brevi "coscienze di sé" non può ricordare se stesso in preda all'Alzheimer...
A me, sembrerebbe più logico, nelle pause dal male,  interrogare chi mi vedo vicino e caro sulla mia condizione, avrei una sete di sapere di me irrefrenabile... E capirei quello che mi si dicesse, in quel momento. Ma non ricorderei le mie crisi, no. Ma crederei di averle avute se i miei cari me le rivelassero (ma lo farebbero?).

Quella che ti ho scurito, sopra, sembra la voce del narratore onnisciente... non il Pov del malato.

Ma è solo quel paragrafo il "problema", volendo esserti di aiuto nella disamina  del tuo testo.

Per tutto il resto, per l'idea dell'intreccio e il tuo stile complimenti e grazie per la lettura, @L'illusoillusore   :)   :libro:
Di sabbia e catrame è la vita:
o scorre o si lega alle dita.


Poeta con te - Tre spunti di versi

Re: [Lab2] A. Heimer

3
@Poeta Zaza ciao!
Grazie del passaggio, ma non sono d’accordo con te. Può capitare che i momenti di lucidità portino consapevolezza della malattia. Ti incollo un passaggio su cui mi sono documentato prima di scrivere:

“[font="Open Sans", Asap, Sans]Questi momenti non sono sempre felici, però. Le persone hanno preso atto con grande tristezza che a volte la lucidità permette alla persona di rendersi conto di avere la demenza. Ho sentito diverse storie su questa situazione. E' successo anche a Ed una volta. Come scrivo nel mio libro, mi stava mostrando un giorno il giornale e mi diceva quanto era confuso e che non riusciva a capire tutte le storie. Improvvisamente mi guardò con un'espressione triste e disse: "Sono così confuso. Forse dovrei andare in una struttura per persone con problemi mentali". E' stato un momento eternamente triste.[/font]”  LINK

Io ho romanzato, non c’è dubbio, così come romanzata è l’immedesimazione in un personaggio di fantasia!

Ciao e grazie per lo stimolo!

Re: [Lab2] A. Heimer

4
in realtà la parte che mi convince meno, perchè in fondo pare una sottolineatura non necesaria e come tale stona alle mie orecchie di lettore è quella in cui ripeti "io, chi sono io?" (all'inizio, alla fine), per il resto invece il tuo racconto ha buoni spunti e in generale riesce a dare vita al senso di spaesamento della malattia. Ben fatto!

Non mi resta che citare: "A lungo, mi sono coricato di buonora. Qualche volta, appena spenta la candela, gli occhi mi si chiudevano così in fretta che non avevo il tempo di dire a me stesso: "Mi addormento". E, mezz'ora più tardi, il pensiero che era tempo di cercar sonno mi svegliava; volevo posare il libro che credevo di avere ancora fra le mani, e soffiare sul lume; mentre dormivo non avevo smesso di riflettere sulle cose che poco prima stavo leggendo, ma le riflessioni avevano preso una piega un po' particolare; mi sembrava d'essere io stesso quello di cui il libro si occupava: una chiesa, un quartetto, la rivalità di Francesco I e Carlo V."

Re: [Lab2] A. Heimer

6
Ciao [font="Open Sans", "Segoe UI", Tahoma, sans-serif] @L'illusoillusore [/font]
Il titolo, lo si comprende bene alla fine, rimanda a una terribile malattia. 
Penso che non sia stato affatto facile immedesimesimarsi nella situazione e vivere “nella testa” di un anziano affetto da questa patologia.
Ti posso assicurare di aver provato il disorientamento leggendo e dunque direi che hai raggiunto lo scopo, quindi ti faccio i complimenti.
Oltretutto,  il protagonista, per la gran parte della storia, è disteso sul letto e immobile. Per cui, riuscire a dare movimento alla scena non è impresa  
così  scontata.
È vero che, a volte, i malati hanno sprazzi di lucidità per cui trovo coerente e commovente la scelta di far riconoscere i figli e riacquistare se pur per un breve momento, la consapevolezza della propria identità.
Ci sono alcuni passaggi un po’ troppo pensati e che forse potresti rielaborare per rendere il testo più “vero”. Ti faccio qualche esempio:
L ha scritto: Non c’è lotta con i postumi dell’alcol
Ora, chi penserebbe così?  Magari un saporaccio in bocca, non so qualcosa che renda vivida la sensazione e non “la racconti”.
L ha scritto: porto la mano nel campo visivo
Ok. Può darsi che l’anziano fosse un medico quando era in sé. Ma parlare di campo visivo in un pensiero di un uomo disorientato mi fa storcere il naso.
L ha scritto: Frammenti dello specchio s’infrangono nella mia mente.
Poetica… ma. 
L ha scritto: Le orecchie sono colme del suono d’uno spezzarsi. Come l’aprirsi di lunghe crepe sul giaccio,
A parte il piccolo refuso (ghiaccio) anche in questo caso trovo la descrizione e similitudine  (molto bella, peraltro) [font="Open Sans", "Segoe UI", Tahoma, sans-serif]poco plausibile messa nella testa di un anziano disorientato.[/font]
L ha scritto: Sfibrato dall’intreccio di crepe, lo specchio frana a terra.
Wow. Tutto molto bello, ma un po’ eccessivo visto il contesto.

Complimenti per la scelta del tema che trovo molto azzeccata.

Re: [Lab2] A. Heimer

7
Mi ha colpito molto questo racconto che parte come l'avventura di un cecchino forse, a cui hanno cancellato la memoria, tenuto prigioniero da una bella ragazza.
La virata verso "qualcosa" di peggio come essere ospite del corpo di un vecchio ti é riuscita benissimo.
Come, purtroppo, ti é risucita altrettanto bene l'atteraggio nella demenza senile.
Il titolo non mi ha insospettito: A. Heimer non mi ha detto nulla.
Fino a quando il vecchio non ha avuto il suo momento di disperata luciditá.
Per esperienza personale, ti posso confermare che funziona esattamente come da te descritto.
C'è una fase della malattia in cui si alternano momenti di disorientamento completo a momenti di luciditá. L'aspetto peggiore é che non ci si dimentica di quello che si fa in preda alla follia, nemmeno ci si chiede il perché. Si é talmente umiliati dalla situazione, che non si é nemmeno piú in grado di akzare gli occhi. Col tempo le parentesi di luciditá divenato sempre piú brevi e dolorose fino a quando ognuno scompare nel proprio irreversibile delirio prigioniero di se stesso.
Quindi il tuo é un racconto riuscitissimo. Per quel che ci é dato sapere chi soffre di Alzheimer si sente proprio cosí.
Molto bello!

Re: [Lab2] A. Heimer

8
Bravo @L'illusoillusore Bravo davvero.
Dal titolo, che ho pensato venisse dal tedesco casa piuttosto che dal nome della patologia.
Alla prosa coraggiosa, spezzata, immagine perfetta di mente e sensi (l'avessi asciugata ancora di più... da colpo al cuore!)
Fino al montare dell'ansia paranoide che si affanna a cercare una spiegazione sostenibile e dunque fuori di sé.
Incubo reale. Crudele e spietato. 
Credo sia questo che accade a chi sente l'identità sgretolarsi. La casa dell'anima va in pezzi e con essa l'intero universo dei nostri affetti.
Per questo l'avrei chiuso secondo una struttura circolare:
L ha scritto: Io.
Apro gli occhi all’improvviso.
Mi guardo attorno, non capisco dove sono.
Fine pena mai.
https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/gia ... /mens-rea/
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Re: [Lab2] A. Heimer

9
Ciao @L'illusoillusore  
Il racconto secondo me lega benissomo ogni scena. Il tema che hai scelto per definire la traccia e la trama sono molto azzeccati.
Insomma, il protagonista si sveglia, non ricorda nulla ma poi, per fortuna ogni cosa riemerge in tempo per evitare una tragedia.
Funzionano, il mistero all'inizio e lo svelamento alla fine con sorpresa.
Ti dico due cose che ho notato:
L ha scritto: Però la ragnatela di torpore che appesantisce le palpebre non lascia dubbi: ho dormito.
  Ha le palpebre pesanti, formula solo un pensiero su un dettaglio concreto, senza metafore.
L ha scritto: L’onda di panico mi sommerge.
Tremo. Sono nel panico.
L ha scritto: Sfuggo serrando nuovamente le palpebre.
Sfuggo, chiudo le palpebre. L'avverbio non serve.
L ha scritto: Stai calmo, mi dico. Respira normalmente e concentrati.
Stai calmo, respira e concentrati. non c'è bisogno di precisare che se lo sta dicendo, il lettore lo sa.
L ha scritto: soffi appena percepibili nella vampa della stanza.
Bello!

L ha scritto: Ho l’impulso di farlo, quasi irrefrenabile, ma nuovamente il corpo sa controllare la mente e impone calma.
Ho l’impulso di farlo, irrefrenabile, ma il corpo sa controllarsi e impone calma.

Togli quasi e nuovamente, la frase è più scorrevole e eviti la ripetizione mente.


L ha scritto: ma è un suono talmente lieve che raggiungo l’arma senza che lui si accorga di me.
ma è un suono lieve, raggiungo l’arma. Lui non si accorge di me.

Un'altro avverbio inutile e due che troppo vicini, si possono eliminare.
 
Vabbè, avevo detto due cose...  comunque sono sciocchezze, giusto per fare la fanatica con un bel commento :asd:
No, a parte lo scherzo, davvero, è un bel racconto e come tutti ci dobbiamo lavorare, per renderli sempre migliori, i nostri racconti.

Re: [Lab2] A. Heimer

10
Mi associo ai commenti che elogiano la descrizione corretta della malattia. Per quel si legge  e dalle testimonianze dei familiari,  ci sono  periodi  di lucidità, purtroppo destinati a decrescere e scomparire. L'amnesia, lo spaesamento sono ben resi e  ingannano il lettore che immagina un prigioniero: combattente, rapito, chissà...
Abbastanza riuscita la "narrativizzazione", pur con qualche difettosità. Alcuni passaggi appaiono un po' forzati, certe frasi poco in sintonia con il personaggio, ma nell'insieme la storia si svolge in modo credibile. La ripetizione finale delle domande ci sta; dopo quelle iniziali potevi forse abbreviare la parte introduttiva. Una buona prova!
" ...con mano ferma ma lenta sollevò la celata. L'elmo era vuoto." (Calvino)
Pagina autrice fb: virginialess/21 Blog "Noi nonne": https.//virginialess.wordpress.com

Re: [Lab2] A. Heimer

11
@@Monica ciao e grazie del passaggio!
Interessanti i tuoi spunti.
Sui primi due
@Monica ha scritto: Non c’è lotta con i postumi dell’alcol
@Monica ha scritto: porto la mano nel campo visivo
Sono pienamente d’accordo, sulla parte dello “specchio”, penso che il tuo commento derivi da una mia mancanza: non sono stato capace di far capire che di professione l’uomo era uno scrittore (immagina di essere un personaggio creato dalla sua penna) e che il ritorno a sé si accompagna con pensieri più “creativi”. Non mi piaceva l’idea di un suo prosaico ricordare “sono uno scrittore” e ho provato, sbagliando, un’ altra via!

@Almissima grazie dei tuoi apprezzamenti. Mi preoccupa il tuo “per esperienza personale”… spero non a te vicina. Un abbraccio

@aladicorvo grazie! In effetti ho provato a fare una chiusura circolare… farò meglio next time! Grazie

@Alba359  grazie e maledetti avverbi! Nonché maledetta paura di risultare banale che, hai ragione, mi porta ad appesantire, Spero di riuscire a togliermela di dosso!

@sefora  Grazie! I miei racconti, ahimé!, sono come i gas perfetti: invadono l’intero spazio (caratteri) a disposizione, rischiando la bulimia descrittiva!

Re: [Lab2] A. Heimer

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L ha scritto: Non riesco a distinguere bene il viso ma sembra giovane.
Forse distinguerne è più elegante?
L ha scritto: È la mano di un vecchio, ma non è possibile.
Mi guardo intorno frenetico, devo capire.
Al di là del letto c’è un vecchio armadio a sei ante di legno scuro, quasi nero.
Attento
L ha scritto: I pedi appiccicano
piedi

L ha scritto: Accolgo la concretezza di queste percezioni come un appiglio tra i flutti, perché non ho idea di dove mi sono risvegliato. Ancora non ho memorie.
Provo paura, ma non come poco fa. Non mi pervade quel panico assoluto. Adesso è come se il mio corpo avesse preso il comando. Mi dice di stare attento, di non fare errori. Mi sussurra pericolo.
E io gli obbedisco.
Questo passaggio non mi sembra molto fluido. Mi piace come il terrore iniziale di non sapere la propria identità scivoli in una paura generale verso la situazione strana, ma secondo me non si capisce benissimo qui.
L ha scritto: [font="Open Sans", "Segoe UI", Tahoma, sans-serif]Sono a casa, dunque?[/font]
Sento di no. Come se vi sia una nota falsa.
Perché non ricordo da dove vengo, né, tantomeno, chi sono.
Anche qui il passaggio mi suona strano. "[font="Open Sans", "Segoe UI", Tahoma, sans-serif]Come se vi sia una nota falsa" messo così sembra riferirsi alla casa e quindi il "perché" successivo è strano

[/font]

Ottima prova, mi ha coinvolto, più che per l'idea direi per la scrittura. L'idea è un classico, sia nella premessa sia nella risoluzione, ma sei riuscito a renderla originale nel come l'hai raccontata. Mi è piaciuta la vena analitica del protagonista. Ho apprezzato anche i vari passaggi su quello che avviene all'interno della sua testa, in cui vede fisicamente il proprio interno (lo spazio vuoto, lo specchio). La verità di come stanno le cose si capisce già da quando l'uomo si guarda la mano, quindi da lì la tensione narrativa passa dal "cosa sta succedendo?" al "e ora che fa? come scoprirà la sua condizione?"
Ciononostante tieni comunque l'attenzione del lettore, tramite un'ottima narrazione. Il finale inoltre è tremendamente crudele:
L ha scritto: Perché stringo una pistola?
Io…
Chi
sono
io?
Questo è un colpo da maestro, fa male. C'è una crudele ironia nella sua impotenza.

Però ecco, stavo pensando... Tanto per ribaltare i paradigmi, e darci un plot twist, non sarebbe stato interessante se veramente l'uomo fosse stato un soldato catturato dai nemici, e veramente la sua coscienza fosse stata passata nel corpo di un vecchio tramite chissà quale tecnologia? Idea estemporanea  :asd:
A presto!

Re: [Lab2] A. Heimer

13
Ciao @L'illusoillusore 

Molto riuscito questo racconto sulla perdita d’identità.

Hai creato una storia densa di suspense che tiene il lettore sulla corda come se stesse leggendo un thriller.
Sei stato abolissimo nel non seminare indizi che lasciassero intuire il finale del racconto, cosa che davvero non guasta e accresce esponenzialmente mistero e tensione.
Hai applicato quella che in letteratura è la tecnica della “peripeteia”, ovvero il rovesciamento improvviso (in senso positivo o negativo) delle sorti del protagonista, come conseguenza naturale delle circostanze.

Il finale esce dal thriller per farci entrare in un altro genere di dramma, ben più realistico e angoscioso, poiché ci presenta la dura quotidianita di un uomo affetto d’Alzheimer e la propria perpetua sofferenza nel passare da brevi momenti di lucidità e coscienza di sè a uno stato perpetuo di amnesia e confuse angosce

La scrittura è incalzante, essenziale e ruvida come deve essere in un racconto con questo taglio narrativo.
I miei complimenti e un saluto. Ciao.

Re: [Lab2] A. Heimer

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Ciao, @L
Bel racconto, bella tensione. Si legge con curiosità mista ad inquietudine. 
Forse asciogherei appena la forma, alcuni concetti che si ripetono e alcune spiegazioni, che potrebbero essere più stringate.
Bella la descrizione della casa, il dettaglio delle cicale che si ripete.
Ho capito il titolo solo alla fine. Funziona bene, secondo me, so intuisce che è lì la chiave del mistero ma non rivela troppo. 
La scrittura è scorrevole ed elegante. 
Piaciuto!
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