[MI184] Hikikomori

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Hikikomori  - Stare in disparte, isolarsi. Termine giapponese che deriva dal verbo hiku (tirare indietro) e komoru (ritirarsi)Hikikomori  - Stare in disparte, isolarsi. Termine giapponese che deriva dal verbo hiku (tirare indietro) e komoru (ritirarsi)Hikikomori  - Stare in disparte, isolarsi. Termine giapponese che deriva dal verbo hiku (tirare indietro) e komoru (ritirarsi)
Traccia due: quel timido raggio


Tick Tick Tick… Lyla aprì un occhio, poi l’altro. Bocca asciutta. Muscoli indolenziti, il collo stretto in una morsa. Non dovrebbe dormire sulla sedia con la faccia sulla tastiera.
Aveva smontato il letto, ma per terra il materasso c’era ancora e pure il cuscino, ogni tanto avrebbe potuto anche usarlo.
Diciassette anni e ogni volta un acciacco diverso. Forse era arrivata a sessanta e non se n’è accorta.
Tick Tick Tick. Le parole scorrevano sul monitor: «Che fai dormi?»
Dasty. Capitan Dasty, col settimo livello se l’era guadagnato e un po’ le rodeva: non ci fosse stata lei a coprirgli le spalle, i Thilendir l’avrebbero polverizzato.
«No, non dormo. Ho chiuso gli occhi solo un momento.»
«Allora aprili. Il gate per Cooberbedy non resterà aperto ancora per molto. Ce l’hai la mappa?»
«Sì, ce l’ho. Me l’hai chiesto cento volte, che palle!»
«Oh, rispetto! Ti ricordo che…»
«Piantala, Dasty. Sei capitano da due ore e già non ti sopporto.»
«Allora, sai che c’è? Vacci da sola e tanti auguri.» Beeeep.
Lyla guardò il monitor buio. Testa di cazzo. Certa gente non ha il senso della misura. Dopotutto è un gioco… per la verità è il gioco. 
Ci si era impelagata da quanto? Un anno, due? Guardò la barra col calendario. Alfa 43 - 7432. Data digitale, se l’era inventata e ci aveva messo quella. A proposito di senso della misura.
D’altra parte, il tempo è una faccenda troppo personale per condividerla con chicchessia. Tutto è una cosa troppo personale, dunque tenerselo per sé e lasciare il resto fuori dalla porta. Da quella porta alle sue spalle, tappezzata, praticamente sigillata con le immagini dei quadri di Kaoru Yamada, genio puro tra Van Gogh e Corot, viste in rete, le voglio!, salvate, stampate in fretta, appena prima del guaio.
Se lo ricordava come fosse ieri: un bzz, uno schtratch, poi il niente. Niente più stampante. 
Un altro ponte crollato tra il qui e il chissà dove, pazienza. Kaouru comunque ce l’aveva fatta a passare e adesso era qui.
Si girò, guardò il tappeto verticale scintillante di colori, guardò la maniglia che spuntava tra i fogli, timida e inutile. La maniglia di quella porta che non aveva più aperto da settimane, mesi, in realtà da almeno due anni, ma che importanza poteva avere? Alfa 43 -7432.
Però la porta si vedeva ancora. Avrebbe dovuto metterci qualcosa, magari un lenzuolo con funzioni di tenda, come aveva fatto con la vetrata davanti alla scrivania. Quello sì che era stato un bel lavoro. Del resto, che c’era da vedere là fuori? Nero e grigio, cemento e altro cemento, il cielo manco a parlarne e in ogni caso sarebbe stato grigio e nero pure quello.
Era il bello di avere casa a New City. Piano alto, nono per la precisione il che, considerando la media di quindici dei palazzi intorno, proprio alto non si poteva dire. Ma andava bene così.
Aveva fame. Si guardò intorno. Da qualche parte doveva esserci lo scatolone con i minestroni.
Te lo lascio insieme al fornelletto elettrico. La scrittura di sua madre sul foglietto scivolato sotto la porta.
Si era arresa alla fine. E aveva smesso di assillarla con i suoi: «Tesoro, apri, ti prego apri.»
A tutte le ore, specie quando non riusciva a dormire, cioè sempre: «Apri, parliamo. Lo sai che puoi dirmi tutto. Vero che lo sai?»
Lo sapeva. Come sapeva che a parlare sarebbe stata solo lei. Piangendo, afferrandola per le spalle, implorando: «Perché? Perché mi fai questo?» Come fosse contro di lei. Come ci fosse qualcosa da spiegare. Un tormento. Ma poi finì.
Tutto finisce. Basta aspettare.
Si alzò. Aveva le gambe intorpidite. Magari un giorno o l’altro avrebbe potuto fare un po’ di ginnastica. Magari Yoga da seduta. C’era un sito zeppo di tutorial. Per la schiena, per la pancia, per il culo.
Scavalcò un mucchio di vestiti. Chissà se c’era ancora la sedia là sotto. O era una poltrona?
Tick Tick Tick.
Ancora Dasty: «Scappa, Lyla! Vattene da lì, subito!»
«E certo. Così il sigillo di Gauron te lo becchi tu e sali di livello. Non mi freghi, bellezza.»
«C’è la guerra, cretina!»
«Ma dai! Non me n’ero accorta. È per questo che si deve arrivare a PeaceLand.»
«Non lì, la guerra è…»
Non fece in tempo a finire la frase perché il monitor cominciò a lampeggiare e i muri a tremare. 
Era un una vibrazione profonda che scorreva sotto il pavimento, che in un attimo divenne un rombo e poi un boato, che coprì lo scricchiolio degli infissi, lo scroscio dei vetri sulla scrivania e la tenda afferrata da artigli invisibili, strappata via e trascinata per terra con tutto il resto.
Il monitor divelto oscillava in bilico sui calcinacci, si accendeva, si spegneva come ansimasse disperato: «Lyla! Lyla ci sei?» le lettere apparivano e scomparivano, si inseguivano impazzite.
Lei scostò con la manica le schegge dalla tastiera: «Sì. Ci sono.» E intanto guardava fuori con gli occhi sgranati e la bocca aperta.
«Sei ok?»
«Sì, Dasty, ma…»
Non riusciva a crederci: la foresta di cemento era scomparsa. Al suo posto solo cielo nero, trafitto da scie luminose.
Lyla non voleva guardare, mai e poi mai l’avrebbe fatto, ma non c’era più niente a proteggerla da quel fumo denso, che bruciava la gola, da quelle urla che salivano dalla strada, dalle lamiere accartocciate, dai cumuli di macerie, dalle voragini spalancate, bocche fameliche tra i marciapiedi e l’asfalto, dove una volta c’era il corteo impaziente di auto, moto e camioncini, dove una volta c’erano le insegne di bar e negozi. Dove una volta c’era il mondo.
Non voleva, no! Ma era come se le avessero strappato le palpebre per costringerla a vedere.
Tick Tick Tick
«Dasty, mioddio! Che sta succedendo?»
«Hanno usato i droni, ma è stato solo un attacco preliminare. Lyla, devi andartene da lì!»
«I droni? Ma chi, chi è stato?»
«Stanno per tornare e stavolta saranno aerei!»
«Ma tu come lo sai? Chi te l’ha detto?»
«Te lo spiego dopo, adesso devi andartene! Hai capito?»
«Ma io…»
«Esci da quella cazzo di stanza!»
Lyla si guardò intorno, e poi ancora fuori.
Dunque era arrivata. Era la fine del mondo. L’Apocalisse. L’Armageddon.
Aveva urlato fino a un momento prima tutto l’orrore possibile. E adesso taceva.
Silenzio agghiacciante. La morte non ha voce.
Maestosa, solenne, seduta sul trono a contemplare quello che aveva fatto.
E lei? Lyla se lo stava chiedendo. Tutti gli sforzi per starsene in disparte, per non avere niente a che fare col mondo, ora che tutto era finito, avrebbero avuto ancora senso?
«Hai diciassette anni e tutta la vita davanti!» piagnucolava sua madre da dietro la porta.
Era stato così facile gridarle: «Ma quale vita, quale? Non so che farmene del vostro carosello di regole e divieti, obbedienze e punizioni!»
Tutta la vita davanti. No, grazie.
E allora se n’era inventata un’altra, una che fosse soltanto sua, che nessuno avrebbe mai potuto toglierle, una che stesse dentro al monitor di un pc da spegnere o tenere acceso come e quanto voleva. Per lo più da tenere acceso.
Un’altra vita. Tutta diversa, colorata come la foresta di Openszhy, come i labirinti sotterranei di Derincha o i castelli della valle di Kirsh. Quello era il suo mondo.
Non che fosse tranquillo, intendiamoci. Ma soccombere a un attacco degli Alkamon era un fatto provvisorio, una questione di punteggio e in ogni caso c’era sempre la tana delle Medgouni, dove in cambio di servigi si poteva ottenere quanto bastava per ricominciare.
Dasty c’era stato e aveva detto che non era poi così male. Lei no, non ne aveva mai avuto bisogno. Una guerriera del suo livello, figuriamoci.
Ma adesso?
Guardò il pc, schiacciò il pulsante di avvio una volta, due. Niente.
Adesso era davvero finita. Il mondo di fuori stava divorando tutto e presto sarebbe toccato a lei.
La striscia di led tra i muri e il soffitto ansimava lampeggiando, si affievolì e poi si spense.
Un refolo di vento gelido entrò e escì di corsa. Odore di morte. Stretta al cuore. Voglia di piangere. E poi rabbia. Rabbia che le ruggiva dentro: Si fottessero pure, quelli là fuori, in fondo se la sono cercata. Ma qui no, non può finire così. Non può!
«Lyla! Lyla!» La voce di Dasty.
Guardò il pc. Era sempre spento.
«Lyla!» Veniva da fuori.
Scostò la scrivania. Meno di un metro tra lei e la finestra. Avrebbe dovuto affacciarsi, ma non aveva nessuna voglia di guardare ancora l’orrore.
«Lyla!» La scala antincendio. I passi sui gradini. Sempre più vicini.
«Vattene, Dasty!»
«Non essere cretina!»
«Perché sei qui? Che sei venuto a fare? Vattene!»
Uno scricchiolio, una fenditura sul muro, un tonfo metallico. Un urlo.
Lyla smise di respirare finché vide una mano abbrancata al davanzale, poi un’altra. La testa di Dasty, le spalle, un piede e poi tutta la gamba: «Mi fai entrare o devo sfracellarmi di sotto?»
Lei, con gli occhi sgranati, lo vide rotolare dentro mentre sentiva il frastuono della scala antincendio.
Appena in tempo.
«Ciao. Come stai?» fece Dasty.
«Insomma…» disse lei. «Ti sei arrampicato per nove piani.»
«Sì, ma non ci fare l’abitudine. La prossima volta scendi tu.»
«La prossima volta?» Lo guardò. Era da tanto che non aveva davanti un essere umano in carne e ossa e questo, doveva ammetterlo, non avrebbe sfigurato nel calendario dei pompieri. «Perché sei qui?»
«Passavo da queste parti…» disse lui e il sorriso e sembrò illuminare tutta la stanza.
Lei si guardò intorno. Uno sfacelo. «Adesso dovrei dire qualcosa tipo Scusa il disordine.»
«No, dovresti venire via con me. Qui non è sicuro, te l’ho detto.»
«È che… insomma, non so se voglio.»
«Beh, intanto che ci pensi dimmi dov’è il bagno. Ho bisogno di togliermi le schegge di vetro dal maglione.»
Lei gli indicò la porticina accanto all’armadio e lo guardò spogliarsi e restare a torso nudo.
Nessun dubbio: calendario dei pompieri.
E mentre si godeva la prima cosa bella di quella giornata atroce, all’improvviso un odore.
Un odore buono, che tornava da lontano. Da quelle terre abbracciate strette al Tempo, ché non volasse via, ché restasse per sempre.
Un dove che in quell’abbraccio diventava quando, profumato di tovaglie e sedie attorno al tavolo, di vino ma poco che non sei grande abbastanza, di voci, risate e lasagne otto strati.
«È pronto!»
«Arrivo, mà.»
Lyla allungò la mano, strinse la maniglia della porta, l’abbassò. Aprì.
E il sorriso le si gelò in faccia.
Non c’era niente.
Solo muri sventrati e il respiro gelido di un cielo nero.
Sentì il calore del corpo di Dasty, il suo braccio intorno alle spalle e si girò con gli occhi pieni di lacrime: «Non voglio andare via.»
Lui sorrise: «D’accordo, sediamoci allora. Ormai non dovrebbe mancare molto.»
Si accomodarono sui resti del muro, con le gambe a penzoloni nel vuoto.
E restarono così, mano nella mano.
D’un tratto: «Ecco, guarda!» fece lui.
«Dove?»
«Laggiù» e indicò un punto lontano.
«Non vedo niente.»
«Guarda bene. Lo vedi quel chiarore?»
«Sì, lo vedo!»
Da tempo non vedeva la luce e quel timido raggio giunse inatteso. Poi un altro e un altro ancora. Si facevano largo tra il nero, lo mutavano in grigio, in rosso, alla fine in oro.
Come ipnotizzata, Lyla non riusciva a distogliere lo sguardo.
«È bellissimo» sussurrò mentre il calore le sfiorava la pelle del volto, del collo, delle braccia. Sempre più intenso l’avvolgeva, la stingeva, fuori e dentro. Tutto di lei brillava di mille colori. Brillava e ardeva.
Ardeva.
Nono livello: PeaceLand.
Game over.
 
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Re: [MI184] Hikikomori

2
Ciao @aladicorvo

aladicorvo ha scritto: Forse era arrivata a sessanta e non se n’è accorta
Non se ne era accorta.
aladicorvo ha scritto: Dasty. Capitan Dasty, col settimo livello se l’era guadagnato e un po’ le rodeva:
Non è molto immediato, valuta se sostituire ad esempio con
'Datsy, da quando aveva raggiunto il settimo livello, Capitan Dasty, se l'era guadagnato e questo a lei un po' rideva.'
aladicorvo ha scritto: Tutto è una cosa troppo personale, dunque tenerselo per sé e lasciare il resto fuori dalla porta
Forse dopo il dunque metterei una virgola e aggiungerei 'meglio' se ho ben capito il senso della frase.
aladicorvo ha scritto: disse lui e il sorriso e sembrò illuminare tutta la stanza
Refuso
aladicorvo ha scritto: mentre si godeva la prima cosa bella di quella giornata atroce, all’improvviso un odore.
Un odore buono, che tornava da lontano. Da quelle terre abbracciate strette al Tempo, ché non volasse via, ché restasse per sempre.
Un dove che in quell’abbraccio diventava quando, profumato di tovaglie e sedie attorno al tavolo, di vino ma poco che non sei grande abbastanza, di voci, risate e lasagne otto strati.
«È pronto!»
«Arrivo, mà.»
Lyla allungò la mano, strinse la maniglia della porta, l’abbassò. Aprì.
E il sorriso le si gelò in faccia
L'immagine è bella, tuttavia sembra inserita a forza, non è armoniosa nel testo.
Mi chiedevo come fosse possibile che, in una situazione simile, la ragazza non avesse avuto un pensiero per la sua famiglia, per sua madre che in quei momenti le viene in mente ma non un cenno di preoccupazione.
aladicorvo ha scritto: Come ipnotizzata, Lyla non riusciva a distogliere lo sguardo.
«È bellissimo» sussurrò mentre il calore le sfiorava la pelle del volto, del collo, delle braccia. Sempre più intenso l’avvolgeva, la stingeva, fuori e dentro. Tutto di lei brillava di mille colori. Brillava e ardeva.
Ardeva.
Nono livello: PeaceLand.
Game over.
Mi confermi che vuoi sottolineare la confusione che può crearsi tra reale e virtuale e nella storia la devastazione, la morte sono tangibili? In tal caso, avevo capito che si potesse fuggire, che Dasty sapesse cosa stava accadendo, aveva predetto l'arrivo di un aereo (come sapeva?) Perché si lascia morire?

Il racconto non mi dispiace, ma credo necessiti di più spazio, il contest gli sta stretto e non rende come dovrebbe.

A rileggerti.
<3

Re: [MI184] Hikikomori

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  ha scritto:aladicorvoTick Tick Tick… Lyla aprì un occhio, poi l’altro. Bocca asciutta. Muscoli indolenziti, il collo stretto in una morsa. Non dovrebbe dormire sulla sedia con la faccia sulla tastiera.
Forse meglio non avrebbe dovuto, sente i dolori al collo, il danno è fatto. Non dovrebbe si addice più all'azione in corso. Mentre ancora dorme.
  ha scritto:Diciassette anni e ogni volta un acciacco diverso. Forse era arrivata a sessanta e non se n’è accorta.
 Buona osservazione: questi ragazzi spesso perdono anche il conto dei giorni. Piano piano dimenticano.
  ha scritto:aladicorvoDasty. Capitan Dasty, col settimo livello se l’era guadagnato e un po’ le rodeva: non ci fosse stata lei a coprirgli le spalle, i Thilendir l’avrebbero polverizzato.
«No, non dormo. Ho chiuso gli occhi solo un momento.»
«Allora aprili. Il gate per Cooberbedy non resterà aperto ancora per molto. Ce l’hai la mappa?»
«Sì, ce l’ho. Me l’hai chiesto cento volte, che palle!»
«Oh, rispetto! Ti ricordo che…»
«Piantala, Dasty. Sei capitano da due ore e già non ti sopporto.»
«Allora, sai che c’è? Vacci da sola e tanti auguri.» Beeeep.
Il dialogo è gestito molto bene. Il suo leggero disinteresse, dire che palle al suo compagno di gioco, la stacca leggermente dal personaggio. Dovrebbe essere presa dal gioco anche più di lui.
  ha scritto:aladicorvoDopotutto è un gioco…
È la sua realtà alternativa, dovrebbe esistere solo quella. Comunque a volte perdono completamente interesse per un attività e si buttano anima e corpo su un altro interesse. Forse la sua è una fase di cambiamento, ma non ce lo mostri nel racconto. L'interesse per le stampe di Kaoru Yamada è precedente, risale a quando la stampante l'ha abbandonata.
A proposito di Kaoru Yamada, hai notato la luce nei suoi quadri? La luce che esce dalle ombre, sono tutti meravigliosi.

  ha scritto:aladicorvoUn altro ponte crollato tra il qui e il chissà dove,
Questa frase rende benissimo. Il problema non è solo la paura di vivere la realtà. Il problema è che non si possono far crollare tutti i ponti. 

  ha scritto:aladicorvoTe lo lascio insieme al fornelletto elettrico. La scrittura di sua madre sul foglietto scivolato sotto la porta.
Questo è uno di quei ponti...

  ha scritto:aladicorvoera arresa alla fine. E aveva smesso di assillarla con i suoi: «Tesoro, apri, ti prego apri.»
No, mai arrendersi. Ci sono delle cure che aiutano, anche se alcuni dicono che non si guarisce mai, la qualità della vita può essere migliorata. Bisogna sempre provare ad aiutarli.

  ha scritto:aladicorvoon fece in tempo a finire la frase perché il monitor cominciò a lampeggiare e i muri a tremare. 
Era un una vibrazione profonda che scorreva sotto il pavimento, che in un attimo divenne un rombo e poi un boato, che coprì lo scricchiolio degli infissi, lo scroscio dei vetri sulla scrivania e la tenda afferrata da artigli invisibili, strappata via e trascinata per terra con tutto il resto.
Il monitor divelto oscillava in bilico sui calcinacci, si accendeva, si spegneva come ansimasse disperato: «Lyla! Lyla ci sei?» le lettere apparivano e scomparivano, si inseguivano impazzite.
La svolta, tragica, forse anche troppo. Il  lettore spera che lei adesso scappi via di corsa.

  ha scritto:aladicorvoNon riusciva a crederci: la foresta di cemento era scomparsa. Al suo posto solo cielo nero, trafitto da scie luminose.
Lyla non voleva guardare, mai e poi mai l’avrebbe fatto, ma non c’era più niente a proteggerla da quel fumo denso, che bruciava la gola, da quelle urla che salivano dalla strada, dalle lamiere accartocciate, dai cumuli di macerie, dalle voragini spalancate, bocche fameliche tra i marciapiedi e l’asfalto, dove una volta c’era il corteo impaziente di auto, moto e camioncini, dove una volta c’erano le insegne di bar e negozi. Dove una volta c’era il mondo.
Non voleva, no! Ma era come se le avessero strappato le palpebre per costringerla a vedere.
Tick Tick Tick
«Dasty, mioddio! Che sta succedendo?»
«Hanno usato i droni, ma è stato solo un attacco preliminare. Lyla, devi andartene da lì!»
«I droni? Ma chi, chi è stato?»
«Stanno per tornare e stavolta saranno aerei!»
«Ma tu come lo sai? Chi te l’ha detto?»
«Te lo spiego dopo, adesso devi andartene! Hai capito?»
«Ma io…»
«Esci da quella cazzo di stanza!»
Lyla si guardò intorno, e poi a
Descrivi con maestria il momento più tragico che possa presentarsi, ma forse è più tragico che lei si trovi costretta a guardare la scena senza comprendere che il suo problema non regge il confronto con quel disastro.
Perché loro sono consapevoli di stare male.

  ha scritto:aladicorvoSentì il calore del corpo di Dasty, il suo braccio intorno alle spalle e si girò con gli occhi pieni di lacrime: «Non voglio andare via.»
Lui sorrise: «D’accordo, sediamoci allora. Ormai non dovrebbe mancare molto.»
Si accomodarono sui resti del muro, con le gambe a penzoloni nel vuoto.
Non ci metti al corrente del tipo di legame tra i due, cosa sono oltre a essere compagni di gioco? Non mi spiego la rassegnazione di Dasty.  Il crollo del palazzo che lascia intatta solo una stanza e il bagno. 
U n appartamento ha almeno tre vani, non è rimasto in piedi, nessuna rovina per passare da un'altra scala antincendio? 
Mi aspettavo un rocambolesco salvataggio, lui forse avrebbe tentato qualsiasi cosa, perché l'asseconda?
La storia è scritta benissimo, mi è piaciuta molto. Le impressioni che ti scritto non intaccano il mio apprezzamento per il tuo scritto, alla fine.
Quando leggiamo è normale avere pensieri contrastanti.
Complimenti, bravissima, come sempre ci regali dei gioiellini niente male.

Re: [MI184] Hikikomori

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@Modea72 , @Albascura grazie per il passaggio e per le riflessioni. Mi danno la misura dello scarto tra le intenzioni e l'effetto sortito.
La vita degli Hikikomori si spende nelle mura della loro stanza, attraverso la sostituzione della quotidianità con la realtà virtuale.
E' una condizione di disagio profondissimo, che a volte sfocia nel suicidio, ma viene vissuta come una specie di male minore. 
Nelle mie intenzioni c'era l'idea dell'irruzione di una catastrofe concreta nel limbo digitale della mia Lyla, che però non è minimamente attrezzata per riconoscerla, tantomeno per affrontarla. 
Questo avrebbe dovuto motivare le contraddizioni sia logistiche (la casa che crolla, ma solo parzialmente) che emotive (non chiedersi cosa sia successo alla sua famiglia)
Lyla può solo aggrapparsi al suo immaginario, è l'unica cosa che sa fare. E forse anche Dasry ne fa parte. Dico forse, perché lei, così come noi, non se lo chiede nemmeno.
Contemplare la sua fine è il primo momento di quiete. 
Il nono livello: PaceLand.
Insomma, era questa la storia che volevo raccontare...   :arrossire:
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Re: [MI184] Hikikomori

6
aladicorvo ha scritto: Non fece in tempo a finire la frase perché il monitor cominciò a lampeggiare e i muri a tremare. 
Era un una vibrazione profonda che scorreva sotto il pavimento, che in un attimo divenne un rombo e poi un boato, che coprì lo scricchiolio degli infissi, lo scroscio dei vetri sulla scrivania e la tenda afferrata da artigli invisibili, strappata via e trascinata per terra con tutto il resto.
Il monitor divelto oscillava in bilico sui calcinacci, si accendeva, si spegneva come ansimasse disperato: «Lyla! Lyla ci sei?» le lettere apparivano e scomparivano, si inseguivano impazzite.
Descrizione immersiva
Racconto distopico e originale. Ottima scrittura. L'isolamento e la dipendenza tecnologica sono fenomeni sottovalutati ma che stanno mostrando, giorno dopo giorno, tutta la loro pericolosità. Quando il mondo reale irrompe in quello virtuale e viceversa; e cioè in questo punto
aladicorvo ha scritto: Guardò il pc, schiacciò il pulsante di avvio una volta, due. Niente.
Adesso era davvero finita. Il mondo di fuori stava divorando tutto e presto sarebbe toccato a lei.
La striscia di led tra i muri e il soffitto ansimava lampeggiando, si affievolì e poi si spense.
Un refolo di vento gelido entrò e escì di corsa. Odore di morte. Stretta al cuore. Voglia di piangere. E poi rabbia. Rabbia che le ruggiva dentro: Si fottessero pure, quelli là fuori, in fondo se la sono cercata. Ma qui no, non può finire così. Non può!
«Lyla! Lyla!» La voce di Dasty.
Guardò il pc. Era sempre spento.
«Lyla!» Veniva da fuori.
Scostò la scrivania. Meno di un metro tra lei e la finestra. Avrebbe dovuto affacciarsi, ma non aveva nessuna voglia di guardare ancora l’orrore.
«Lyla!» La scala antincendio. I passi sui gradini. Sempre più vicini.
«Vattene, Dasty!»
«Non essere cretina!»
Lyla porta all'apice la sua patologia.
Mi è piaciuto il ritmo incalzante, ho apprezzato le descrizioni del gioco e l'alienazione del  personaggio portata all'estremo.
(y)

Re: [MI184] Hikikomori

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aladicorvo ha scritto: Non dovrebbe dormire sulla sedia con la faccia sulla tastiera.
Non avrebbe dovuto dormire sulla sedia con la faccia sulla tastiera.
aladicorvo ha scritto: quadri di Kaoru Yamada, genio puro tra Van Gogh e Corot, viste in rete, le voglio!, salvate, stampate in fretta, appena prima del guaio.
Anche un po' di confusione nel senso delle proporzioni?  Questo hai  voluto dire? 
aladicorvo ha scritto: Lei si guardò intorno. Uno sfacelo. «Adesso dovrei dire qualcosa tipo Scusa il disordine.»
L'unico punto in cui la rua penna "scivola" sulla banalità.
aladicorvo ha scritto: Da tempo non vedeva la luce e quel timido raggio giunse inatteso.
Ti suggerisco di evidenziarlo: in definitiva, rappresenta la traccia.
aladicorvo ha scritto: «È bellissimo» sussurrò mentre il calore le sfiorava la pelle del volto, del collo, delle braccia. Sempre più intenso l’avvolgeva, la stingeva, fuori e dentro. Tutto di lei brillava di mille colori. Brillava e ardeva.
Ardeva.
Nono livello: PeaceLand.
Game over.
Un gran bel lavoro, @aladicorvo  (y)

Da fuoriclasse.  :si:
Di sabbia e catrame è la vita:
o scorre o si lega alle dita.


Poeta con te - Tre spunti di versi

Re: [MI184] Hikikomori

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Ciao @aladicorvo

Non mi sono mai rassegnato a questo, diciamo atteggiamento che sembra sia iniziato in Giappone e poi abbia preso piede in occidente. Se ne sentono tante.
Ci sarebbe da dire sul cambiamento in negativo dopo la Seconda Guerra Mondiale dei modi di concepire la vita di società  che un tempo erano straordinarie, come il Giappone, la Germania, l’Italia, ma di questi tempi infausti meglio tacere.
Il tuo personaggio, Lyla, personalmente non mi suscita eccessiva empatia ma dispiacere, non perché sia delineato male anzi, tutto il contrario: hai rappresentato bene la sua apatia, il suo disinteresse verso tutto e tutti,  verso i genitori (che le portano pure da mangiare), verso gli  amici, la sua stessa città.
Ci voleva questa ipotetica guerra, vera o simulata che sia, non per farla uscire dal suo stato ma perché qualcuno, Dasty, entri nella sua vita e con molta fatica, perché Lyla, ormai totalmente assorbita da qualunque cosa le abbia fatto saltare il cervello, fatica a comprendere il mondo esterno, le persone, al di fuori del collegamento virtuale.
Io sarei intervenuto di più su questa guerra, sulla distruzione, sul fatto di essere costretta a uscire di casa, su quel timido chiarore di luce che alla fine sembra pure scuoterla dalla sua apatia. Forse, vedendo le sofferenze dei suoi simili, toccandole con mano, qualcosa si sarebbe smosso nel suo cervello e sarebbe tornata a una dimensione più umana, per quanto dalle ultime battute la storia sembri vertere con un moto liberatorio verso quel punto.
Mi hai fatto ricordare un’opera teatrale di Sartre, I sequestrati di Altona, dove un ufficiale nazista, per sfuggire alla cattura dopo la sconfitta si rifugia in una soffitta ad Altona, un quartiere di Amburgo, protetto dalla famiglia e vi rimane per diciassette anni, convinto che la sua Germania sia diventata un campo di orrori in mano dei vincitori.
Dopo tanti anni un giorno uscirà fuori, agli inizi anni Sessanta, indossando la sua uniforme, e scoprirà tuttaltra realtà, per lui ancora più sconvolgente e tragica.
Il tuo racconto induce a pensare su uno dei tanti atteggiamenti che hanno invaso giovani e meno giovani nella nostra società, che vengono permessi perché, in nome della libertà, non si ha il coraggio di chiamarli per quello che sono.
Un testo interessante, suscettibile di ulteriori avvincenti sviluppi a mio parere.
Si salveranno solo coloro che resisteranno e disobbediranno a oltranza, il resto perirà.
(Apocalisse di S. Giovanni)

Re: [MI184] Hikikomori

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Concordo, @Alberto Tosciri
Lyla incarna uno dei grandi mali di questo mondo: l'incapacità di percepire l'Altro. Ne è vittima e specchio allo stesso tempo.
Dice bene Elio Germano quando auspica l'insegnamento del teatro nelle scuole. Mettersi nei panni degli altri educherebbe all'empatia e alla consapevolezza.
https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/gia ... ataccia-2/
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Re: [MI184] Hikikomori

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Ciao @aladicorvo. Questo racconto è un vero trip.  Non so come tu ci sia riuscita (anzi, lo so considerato il tuo talento) ma mi sono immedesimata nella storia. Il passaggio in cui descrivi il calendario con quella data “inventata” è efficacissimo. Ho pensato che il pompiere non esistesse affatto in carne e ossa, che fosse una qualche proiezione interiore. Un rimasuglio, un impasto tra ricordi e pulsioni della vita reale miscelati con quella virtuale. Talmente chiusa in quella stanza da perdere quasi la connotazione di essere umano. La morte è un vero gioiello, forse l’unica mano amica tesa per liberarla dall’incubo senza fine. Quasi un sollievo. E il tutto è terribile.

Re: [MI184] Hikikomori

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Una penna cinica, feroce, razionale, che scava in un mondo privato e profondo e lo fa a pezzi. Il tuo racconto ferisce, fa male, è la crudeltà della realtà che si infrange contro i sogni di chi voleva solo un po' di tranquillità, di una hikikomori. Ho sempre trovato affascinante questa realtà; sei anni fa anche io intitolai un racconto "Hikikomori". Una realtà prima di tutto giapponese - consiglio Welcome to the N.H.K. - e che in occidente è arrivata al massimo come un sentimento; spesso travisato in chiave schifosamente maschilista, aggiungo, ma è un discorso complesso.
Il tuo racconto mi indispettisce proprio per l'assenza di speranza quando la realtà di fuori irrompe in quella che ci portiamo dentro. È un compito difficile da svolgere in un racconto - ben fatto - ed è in qualche modo quello che anche io provai a fare. È anche questa irruzione che mi fa ribollire il sangue nelle vene per gli attacchi vigliacchi contro i civili a Gaza: una quotidianità intima, fatta di sogni privati e tranquilli, spazzata via da realtà altrui, cancellata nel nome di una ideologia genocida che dipinge quei civili come bestie, che si nasconde dietro una propaganda in cui il carnefice gioca a fare la vittima. Basta.
Lyla è vittima della propria debolezza, della paura di vivere per quello che è, chissà per quali ferite ricevute, e non credo abbia colpa nel non riconoscere le realtà altrui, è un meccanismo di difesa. A parte che preferisco il concetto di responsabilità, a quello di colpa. Credo che bisogni imparare ad accettare sé stessi prima di poter provare empatia per gli altri.
Spero solo che Lyla e Dasty trovino la pace che cercavano, andando oltre, in un luogo in cui è consentito essere sé stessi ed esercitare la propria personale realtà.
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