Hikikomori - Stare in disparte, isolarsi. Termine giapponese che deriva dal verbo hiku (tirare indietro) e komoru (ritirarsi)Hikikomori - Stare in disparte, isolarsi. Termine giapponese che deriva dal verbo hiku (tirare indietro) e komoru (ritirarsi)Hikikomori - Stare in disparte, isolarsi. Termine giapponese che deriva dal verbo hiku (tirare indietro) e komoru (ritirarsi)
Tick Tick Tick… Lyla aprì un occhio, poi l’altro. Bocca asciutta. Muscoli indolenziti, il collo stretto in una morsa. Non dovrebbe dormire sulla sedia con la faccia sulla tastiera.
Aveva smontato il letto, ma per terra il materasso c’era ancora e pure il cuscino, ogni tanto avrebbe potuto anche usarlo.
Diciassette anni e ogni volta un acciacco diverso. Forse era arrivata a sessanta e non se n’è accorta.
Tick Tick Tick. Le parole scorrevano sul monitor: «Che fai dormi?»
Dasty. Capitan Dasty, col settimo livello se l’era guadagnato e un po’ le rodeva: non ci fosse stata lei a coprirgli le spalle, i Thilendir l’avrebbero polverizzato.
«No, non dormo. Ho chiuso gli occhi solo un momento.»
«Allora aprili. Il gate per Cooberbedy non resterà aperto ancora per molto. Ce l’hai la mappa?»
«Sì, ce l’ho. Me l’hai chiesto cento volte, che palle!»
«Oh, rispetto! Ti ricordo che…»
«Piantala, Dasty. Sei capitano da due ore e già non ti sopporto.»
«Allora, sai che c’è? Vacci da sola e tanti auguri.» Beeeep.
Lyla guardò il monitor buio. Testa di cazzo. Certa gente non ha il senso della misura. Dopotutto è un gioco… per la verità è il gioco.
Ci si era impelagata da quanto? Un anno, due? Guardò la barra col calendario. Alfa 43 - 7432. Data digitale, se l’era inventata e ci aveva messo quella. A proposito di senso della misura.
D’altra parte, il tempo è una faccenda troppo personale per condividerla con chicchessia. Tutto è una cosa troppo personale, dunque tenerselo per sé e lasciare il resto fuori dalla porta. Da quella porta alle sue spalle, tappezzata, praticamente sigillata con le immagini dei quadri di Kaoru Yamada, genio puro tra Van Gogh e Corot, viste in rete, le voglio!, salvate, stampate in fretta, appena prima del guaio.
Se lo ricordava come fosse ieri: un bzz, uno schtratch, poi il niente. Niente più stampante.
Un altro ponte crollato tra il qui e il chissà dove, pazienza. Kaouru comunque ce l’aveva fatta a passare e adesso era qui.
Si girò, guardò il tappeto verticale scintillante di colori, guardò la maniglia che spuntava tra i fogli, timida e inutile. La maniglia di quella porta che non aveva più aperto da settimane, mesi, in realtà da almeno due anni, ma che importanza poteva avere? Alfa 43 -7432.
Però la porta si vedeva ancora. Avrebbe dovuto metterci qualcosa, magari un lenzuolo con funzioni di tenda, come aveva fatto con la vetrata davanti alla scrivania. Quello sì che era stato un bel lavoro. Del resto, che c’era da vedere là fuori? Nero e grigio, cemento e altro cemento, il cielo manco a parlarne e in ogni caso sarebbe stato grigio e nero pure quello.
Era il bello di avere casa a New City. Piano alto, nono per la precisione il che, considerando la media di quindici dei palazzi intorno, proprio alto non si poteva dire. Ma andava bene così.
Aveva fame. Si guardò intorno. Da qualche parte doveva esserci lo scatolone con i minestroni.
Te lo lascio insieme al fornelletto elettrico. La scrittura di sua madre sul foglietto scivolato sotto la porta.
Si era arresa alla fine. E aveva smesso di assillarla con i suoi: «Tesoro, apri, ti prego apri.»
A tutte le ore, specie quando non riusciva a dormire, cioè sempre: «Apri, parliamo. Lo sai che puoi dirmi tutto. Vero che lo sai?»
Lo sapeva. Come sapeva che a parlare sarebbe stata solo lei. Piangendo, afferrandola per le spalle, implorando: «Perché? Perché mi fai questo?» Come fosse contro di lei. Come ci fosse qualcosa da spiegare. Un tormento. Ma poi finì.
Tutto finisce. Basta aspettare.
Si alzò. Aveva le gambe intorpidite. Magari un giorno o l’altro avrebbe potuto fare un po’ di ginnastica. Magari Yoga da seduta. C’era un sito zeppo di tutorial. Per la schiena, per la pancia, per il culo.
Scavalcò un mucchio di vestiti. Chissà se c’era ancora la sedia là sotto. O era una poltrona?
Tick Tick Tick.
Ancora Dasty: «Scappa, Lyla! Vattene da lì, subito!»
«E certo. Così il sigillo di Gauron te lo becchi tu e sali di livello. Non mi freghi, bellezza.»
«C’è la guerra, cretina!»
«Ma dai! Non me n’ero accorta. È per questo che si deve arrivare a PeaceLand.»
«Non lì, la guerra è…»
Non fece in tempo a finire la frase perché il monitor cominciò a lampeggiare e i muri a tremare.
Era un una vibrazione profonda che scorreva sotto il pavimento, che in un attimo divenne un rombo e poi un boato, che coprì lo scricchiolio degli infissi, lo scroscio dei vetri sulla scrivania e la tenda afferrata da artigli invisibili, strappata via e trascinata per terra con tutto il resto.
Il monitor divelto oscillava in bilico sui calcinacci, si accendeva, si spegneva come ansimasse disperato: «Lyla! Lyla ci sei?» le lettere apparivano e scomparivano, si inseguivano impazzite.
Lei scostò con la manica le schegge dalla tastiera: «Sì. Ci sono.» E intanto guardava fuori con gli occhi sgranati e la bocca aperta.
«Sei ok?»
«Sì, Dasty, ma…»
Non riusciva a crederci: la foresta di cemento era scomparsa. Al suo posto solo cielo nero, trafitto da scie luminose.
Lyla non voleva guardare, mai e poi mai l’avrebbe fatto, ma non c’era più niente a proteggerla da quel fumo denso, che bruciava la gola, da quelle urla che salivano dalla strada, dalle lamiere accartocciate, dai cumuli di macerie, dalle voragini spalancate, bocche fameliche tra i marciapiedi e l’asfalto, dove una volta c’era il corteo impaziente di auto, moto e camioncini, dove una volta c’erano le insegne di bar e negozi. Dove una volta c’era il mondo.
Non voleva, no! Ma era come se le avessero strappato le palpebre per costringerla a vedere.
Tick Tick Tick
«Dasty, mioddio! Che sta succedendo?»
«Hanno usato i droni, ma è stato solo un attacco preliminare. Lyla, devi andartene da lì!»
«I droni? Ma chi, chi è stato?»
«Stanno per tornare e stavolta saranno aerei!»
«Ma tu come lo sai? Chi te l’ha detto?»
«Te lo spiego dopo, adesso devi andartene! Hai capito?»
«Ma io…»
«Esci da quella cazzo di stanza!»
Lyla si guardò intorno, e poi ancora fuori.
Dunque era arrivata. Era la fine del mondo. L’Apocalisse. L’Armageddon.
Aveva urlato fino a un momento prima tutto l’orrore possibile. E adesso taceva.
Silenzio agghiacciante. La morte non ha voce.
Maestosa, solenne, seduta sul trono a contemplare quello che aveva fatto.
E lei? Lyla se lo stava chiedendo. Tutti gli sforzi per starsene in disparte, per non avere niente a che fare col mondo, ora che tutto era finito, avrebbero avuto ancora senso?
«Hai diciassette anni e tutta la vita davanti!» piagnucolava sua madre da dietro la porta.
Era stato così facile gridarle: «Ma quale vita, quale? Non so che farmene del vostro carosello di regole e divieti, obbedienze e punizioni!»
Tutta la vita davanti. No, grazie.
E allora se n’era inventata un’altra, una che fosse soltanto sua, che nessuno avrebbe mai potuto toglierle, una che stesse dentro al monitor di un pc da spegnere o tenere acceso come e quanto voleva. Per lo più da tenere acceso.
Un’altra vita. Tutta diversa, colorata come la foresta di Openszhy, come i labirinti sotterranei di Derincha o i castelli della valle di Kirsh. Quello era il suo mondo.
Non che fosse tranquillo, intendiamoci. Ma soccombere a un attacco degli Alkamon era un fatto provvisorio, una questione di punteggio e in ogni caso c’era sempre la tana delle Medgouni, dove in cambio di servigi si poteva ottenere quanto bastava per ricominciare.
Dasty c’era stato e aveva detto che non era poi così male. Lei no, non ne aveva mai avuto bisogno. Una guerriera del suo livello, figuriamoci.
Ma adesso?
Guardò il pc, schiacciò il pulsante di avvio una volta, due. Niente.
Adesso era davvero finita. Il mondo di fuori stava divorando tutto e presto sarebbe toccato a lei.
La striscia di led tra i muri e il soffitto ansimava lampeggiando, si affievolì e poi si spense.
Un refolo di vento gelido entrò e escì di corsa. Odore di morte. Stretta al cuore. Voglia di piangere. E poi rabbia. Rabbia che le ruggiva dentro: Si fottessero pure, quelli là fuori, in fondo se la sono cercata. Ma qui no, non può finire così. Non può!
«Lyla! Lyla!» La voce di Dasty.
Guardò il pc. Era sempre spento.
«Lyla!» Veniva da fuori.
Scostò la scrivania. Meno di un metro tra lei e la finestra. Avrebbe dovuto affacciarsi, ma non aveva nessuna voglia di guardare ancora l’orrore.
«Lyla!» La scala antincendio. I passi sui gradini. Sempre più vicini.
«Vattene, Dasty!»
«Non essere cretina!»
«Perché sei qui? Che sei venuto a fare? Vattene!»
Uno scricchiolio, una fenditura sul muro, un tonfo metallico. Un urlo.
Lyla smise di respirare finché vide una mano abbrancata al davanzale, poi un’altra. La testa di Dasty, le spalle, un piede e poi tutta la gamba: «Mi fai entrare o devo sfracellarmi di sotto?»
Lei, con gli occhi sgranati, lo vide rotolare dentro mentre sentiva il frastuono della scala antincendio.
Appena in tempo.
«Ciao. Come stai?» fece Dasty.
«Insomma…» disse lei. «Ti sei arrampicato per nove piani.»
«Sì, ma non ci fare l’abitudine. La prossima volta scendi tu.»
«La prossima volta?» Lo guardò. Era da tanto che non aveva davanti un essere umano in carne e ossa e questo, doveva ammetterlo, non avrebbe sfigurato nel calendario dei pompieri. «Perché sei qui?»
«Passavo da queste parti…» disse lui e il sorriso e sembrò illuminare tutta la stanza.
Lei si guardò intorno. Uno sfacelo. «Adesso dovrei dire qualcosa tipo Scusa il disordine.»
«No, dovresti venire via con me. Qui non è sicuro, te l’ho detto.»
«È che… insomma, non so se voglio.»
«Beh, intanto che ci pensi dimmi dov’è il bagno. Ho bisogno di togliermi le schegge di vetro dal maglione.»
Lei gli indicò la porticina accanto all’armadio e lo guardò spogliarsi e restare a torso nudo.
Nessun dubbio: calendario dei pompieri.
E mentre si godeva la prima cosa bella di quella giornata atroce, all’improvviso un odore.
Un odore buono, che tornava da lontano. Da quelle terre abbracciate strette al Tempo, ché non volasse via, ché restasse per sempre.
Un dove che in quell’abbraccio diventava quando, profumato di tovaglie e sedie attorno al tavolo, di vino ma poco che non sei grande abbastanza, di voci, risate e lasagne otto strati.
«È pronto!»
«Arrivo, mà.»
Lyla allungò la mano, strinse la maniglia della porta, l’abbassò. Aprì.
E il sorriso le si gelò in faccia.
Non c’era niente.
Solo muri sventrati e il respiro gelido di un cielo nero.
Sentì il calore del corpo di Dasty, il suo braccio intorno alle spalle e si girò con gli occhi pieni di lacrime: «Non voglio andare via.»
Lui sorrise: «D’accordo, sediamoci allora. Ormai non dovrebbe mancare molto.»
Si accomodarono sui resti del muro, con le gambe a penzoloni nel vuoto.
E restarono così, mano nella mano.
D’un tratto: «Ecco, guarda!» fece lui.
«Dove?»
«Laggiù» e indicò un punto lontano.
«Non vedo niente.»
«Guarda bene. Lo vedi quel chiarore?»
«Sì, lo vedo!»
Da tempo non vedeva la luce e quel timido raggio giunse inatteso. Poi un altro e un altro ancora. Si facevano largo tra il nero, lo mutavano in grigio, in rosso, alla fine in oro.
Come ipnotizzata, Lyla non riusciva a distogliere lo sguardo.
«È bellissimo» sussurrò mentre il calore le sfiorava la pelle del volto, del collo, delle braccia. Sempre più intenso l’avvolgeva, la stingeva, fuori e dentro. Tutto di lei brillava di mille colori. Brillava e ardeva.
Ardeva.
Nono livello: PeaceLand.
Game over.